“Landness” di Matteo Meschiari

Pubblichiamo, ringraziando l’autore e l’editore, un estratto dal libro di Matteo Meschiari, Landness. Una storia geoanarchica (Meltemi).

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Ho conosciuto Dorothy Landness nell’anno più strano e solitario della mia vita. Era il 2000 e a quel tempo ero dottorando in filosofia all’Università Jean Moulin di Lione. Per pagarmi quell’ennesimo vicolo cieco negli studi, facevo il lettore di lingua italiana e, nel tempo libero (che era davvero infinito), me ne andavo in un parco, la Tête d’Or, a raccogliere su un registratore da tasca dei versi di paesaggio, che poi trascrivevo al computer nel mio monolocale in rue Longue. Dorothy – Dotty – era australiana e lavorava all’Antidote Pub di rue Saint-George, nel Vieux Lyon. Ci andavo ogni giorno. A fine serata le regalavo un sottobicchiere della Guinness. In quegli anni favolosi facevano sottobicchieri di cartone spesso, si sfogliavano anche se erano nuovi e asciutti. Io toglievo il primo strato di carta stampata e scrivevo dei versi sul bianco sottostante, ma soprattutto disegnavo paesaggi (montagne, laghi), un po’ nello stile di Tolkien. I miei “regali” per Dotty erano taciti e impliciti: li lasciavo al mio posto prima di andarmene. Poi, una sera di novembre, notai che qualcuno aveva conservato un sottobicchiere e lo aveva aggiunto alle cartoline e alle fotografie negli scaffali dietro al bancone, trafitto da una puntina da disegno. Dotty mi fece alcune domande dalle quali capii che mi stava osservando da un po’. Due giorni dopo venne a seguire una mia lezione e una sera mi invitò a una festa di amici su una chiatta, “piena di lucine come in Apocalypse Now”, disse. Ma io non ci andai. La volta seguente Dotty era distante, si limitò a chiedermi il solito. A metà dicembre semplicemente scomparve, non l’avrei vista mai più.

Ci misi un po’, nei giorni successivi, a capire che Dotty voleva venire a letto con me ma, come ho detto, era un anno strano e solitario. Miss Landness si faceva notare. Era bella, una bellezza nordica che a me ricordava la pioggia e il fuoco di torba, era adulta, molto adulta per una persona di vent’anni. Per dire, un giorno mi guardò dritto negli occhi e: “Siamo nani sulle spalle di nani – sussurrò – i nostri maestri hanno sbirciato sulle scrivanie dei grandi, sono tornati con qualche appunto e noi coglioni ci abbiamo creduto”. Rimasi in silenzio. E Dotty: “C’è uno strato di libri recenti che è come un fottuto permafrost, ci impedisce di sentire la terra al di sotto, morbida, umida. Mio padre era un geografo, mi raccontava che non è un caso se noi Landness ci chiamiamo così. Tu come lo tradurresti?”. “Non lo so – dissi io – Territude? L’essere Terra?”. Andò a servire un altro cliente. Quando tornò non riprese il discorso. Guardava un punto lontano dietro i miei occhi. “Mi piace l’Italia”, disse trasognante. Ma un’ombra la raggiunse.

Avevo trent’anni. Ero un uomo solo. L’episodio mi turbò (chissà come sarebbe andata se avessi capito). Ma quello che mi turbò veramente è che Dotty aveva intercettato un grumo di tensioni e di idee, qualcosa che oggi, più di vent’anni dopo, voglio chiamare landness, proprio come lei. La territà della Terra, la nostalgia per qualcosa che è un luogo reale ma anche un progetto, un’idea. È questo che voglio fare in queste pagine, come nell’Età del ferro si andava a cercare l’ambra nel Baltico, o come un rabdomante alla ricerca d’acqua nei deserti della scienza e della poesia. Landness. Una storia da raccontare, più semplicemente. Quella di uomini che, per piste solitarie, in luoghi ed epoche diverse, hanno cercato di capire la nostra intima connessione con il corpo terrestre, con le geologie e i mari e le calotte del Polo. Nel 2000 non sapevo quasi nulla di quello che volevo fare, ma avevo alcune cose in cantiere che somigliavano a un progetto. Se fossi stato uno scrittore avrei iniziato questo libro vent’anni fa, ma vent’anni fa preferivo scrivere versi e studiare arte preistorica. I versi, quelli che sussurravo dentro un registratore da tasca e che poi ricopiavo al computer, erano un poema intitolato Terra. Un migliaio di linee, rimaste nel cassetto fino al 2019. Gli studi di filosofia delle immagini e l’arte preistorica mi avevano invece portato a Lione dove, da Digione, avevo seguito Jean-Jacques Wunenburger, che a sua volta mi seguiva in una tesi (mai finita) sull’arte rupestre francese. E poi c’era La Gryffe, la libreria libertaria nella città dove Sadi Carnot era stato assassinato dall’anarchico Caserio, e dove Kropotkin era stato imprigionato nel 1883.

Dopo le lezioni del pomeriggio e prima del pub irlandese andavo regolarmente alla Gryffe, mi fermavo davanti ai volumi di Élisée Reclus, curiosavo tra le pagine e mi facevo bastare frasi come questa: “Ho percorso il mondo da uomo libero, ho contemplato la natura con sguardo candido e fiero, ricordandomi che l’antica Freya era al tempo stesso la dea della Terra e la dea della Libertà”. Lo so. Oggi è terribilmente difficile prendere sul serio un geografo anarchico che parla di Terra e Libertà con le maiuscole, ma a dire il vero quello che mi piaceva si trovava qualche riga più su: “Questo libro l’ho iniziato quindici anni fa, non nel silenzio del mio studio, ma all’aria aperta. È stato in Irlanda, sulla cima di un poggio che regola le rapide dello Shannon, i suoi isolotti tremolanti sotto la pressione delle acque e la nera fila d’alberi dove il fiume s’ingolfa, e scompare dopo una brusca curva”. “Roba da matti”, pensai. Iniziare un libro scientifico con un autoritratto romantico alla Caspar David Friedrich, il viandante sdraiato nell’erba, le lontananze meditabonde. Ci vogliono molta ingenuità e molto fegato per farlo, un cocktail tipicamente anarchico di fede disarmata e consapevolezza di chi si crede nel giusto. In una Lione dove stavo vivendo una specie di svernamento, e un naufragio alcolico piuttosto allucinato, il volume di Reclus rilegato in marocchino rosso aveva il potere di un talismano, una mano tesa, onesta, che dai locali parigini dell’editore Hachette in boulevard Saint-Germain era arrivato in rue Longue, dove le prostitute, ogni volta che rincasavo, mi dicevano “Bonsoir, Monsieur” e si stringevano nel cappotto.

4

New Orleans, 1853

Dopo quarantacinque giorni di mare sulla John Howell salpata da Liverpool, Élisée Reclus, ventiduenne, arriva pieno di energie e di speranze nel Nuovo Mondo. Lo lascerà quattro anni dopo al limite delle forze, scoraggiato e consumato dalla febbre.

La città dedicata a Filippo II d’Orléans (passata agli Stati Uniti da appena cinquant’anni) conservava molte espressioni della cultura e della società francesi. Reclus ne beneficerà e, contemporaneamente, avrà modo di sperimentare quel disancoramento culturale che è il primo passo per osservare da vicino e da lontano una realtà geografica e sociale. In un ambiente dove la famigliarità della francofonia si mescolava allo straniamento che veniva da un crogiolo meticcio, fatto di cultura anglosassone, afroamericana, creola, ma anche tedesca e siciliana (la Sicilia tornerà con forza nella vita di Reclus), un giovane uomo di quasi ventitré anni (dalle grandi speranze e dalle tasche vuote) era considerato un would be gentleman, un wannabe, un ragazzetto in abiti francesi che aspirava a una condizione migliore in un mondo furbo e giudicante, regolato da leggi darwiniste.

Dopo alcuni lavoretti di ripiego (tra cui lo scaricatore di porto), Élisée si affidò al buon cuore di due francesi, il fornaio Darrigrand e Claude de La Faye, medico ed ex possessore di schiavi in Martinica. Grazie alla raccomandazione di quest’ultimo, Reclus divenne precettore dei figli di Septime Fortier, proprietario della Felicity Plantation, situata a ottanta chilometri da New Orleans. Vi rimase quasi tre anni, tre anni piuttosto noiosi che però gli diedero il tempo di sviluppare sentimenti di rifiuto definitivo verso la religione, la schiavitù e la ricchezza.

Colombia, Sierra Nevada di Santa Marta, 1856

In una lettera senza data (ma che si fa risalire al 1853), Reclus racconta al fratello Élie che Fortier gli ha offerto un finanziamento di 3.000 franchi per avviare una piantagione sul Rio delle Amazzoni, da dividere successivamente in parti uguali. Sempre in una lettera a Élie (marzo 1855), avendo ormai rinunciato alla società con Fortier, Élisée dice di optare per la Colombia, dopo aver considerato brevemente Texas e Messico. I pro e i contro sono chiari. Da un lato passaporti, polizia e il crudele López de Santa Ana (ma ormai sulla via dell’esilio), dall’altro niente gendarmi, genti “poco yankee” e una configurazione geografica privilegiata: “Che mi dici dell’altipiano di Ambato, dove le stagioni sono sovrapposte più che in qualunque altro luogo, e dove, con un solo colpo d’occhio, si possono abbracciare le onde blu del Pacifico e i torrenti che scendono verso il Rio delle Amazzoni?”.

La Colombia, bagnata da due mari, appare a Reclus come il Paese che segnerà il destino del Sudamerica e, immaginando l’ultima tappa del viaggio di andata in quella novella Mesopotamia, sfodera un ottimismo giovanile piuttosto goffo: “Da Darién a Bogotá, pedibus, gioia, tortillas di mais, abbaiare alla luna e piaceri pantagruelici…”. L’entusiasmo adrenalinico e scherzoso, frequente nelle lettere di quegli anni, riappare altrove, mescolato al delirio e ai fantasmi della malaria: “Vedevo già i pendii delle montagne coperti di campi di caffè e boschetti di aranci; gli Arawak, liberi e felici, fondavano comunità floride; scuole si aprivano per i bambini indigeni; colonie di Europei dissodavano la foresta vergine; si tracciavano strade in ogni direzione; che so, un servizio regolare di traghetti collegava il porto di Dibulla”.

Élisée scrive queste cose in Voyage à la Sierra Nevada de Sainte-Marthe (1861), dove racconta i suoi sogni di colono dentro un’oscura capanna. Ma, dopo appena un mese di attività frenetica (piantare banane, canna da zucchero, alberi del caffè, legumi; spostare pietre e tronchi per edificare la casa di campagna e quella “di città”), Élisée non riusciva a fare nemmeno cento passi dal suo tugurio. Quando toccava una goccia d’acqua fredda, era preso da febbre e delirio, mentre la paglia del tetto della capanna fermentava per le piogge, corrompendo l’aria. Come spesso accade a chi cerca qualcosa, ma non sa ancora cosa, Élisée si era scelto la propria prigione, un bivacco, un monolocale da cui evadere dopo appena tre mesi di patimenti. Fine dell’avventura. E adesso? Adesso aveva raccolto qualcosa di insolito. Senza rendersene conto, aveva collezionato idee, immagini che avrebbero lievitato nel tempo, visioni di paesaggi che si sarebbero rivelate la base di nuove teorie. Paysages de la nature tropicale è il so totitolo di Voyage à la Sierra. Perché Élisée aveva capito tutto in una strana e rivoluzionaria intuizione: il paesaggio non è un decoro pittoresco, un fondale di carta dipinta, ma un pensiero in atto, un racconto della complessità. Eccoli, allora, quei paesaggi colombiani. Sono loro la teoria, pensava Élisée, sono loro il viaggio.

5

Era finito alla Fortezza perché non aveva voluto rinunciare a una conferenza. Aveva finalmente terminato la relazione sull’antico glacialismo della Finlandia e doveva leggerla alla Società Geografica di San Pietroburgo. Il caso volle che l’evento fosse rimandato di una settimana su richiesta delle due società geologiche della città, che proprio quel giorno si riunivano in seduta plenaria. Una settimana. Una settimana poteva significare una vita, per lui. Era ricercato sotto il nome di Borodin, ma la polizia non aveva ancora prove che il principe Pëtr Kropotkin e Borodin fossero la stessa persona. Doveva dunque andarsene, nascondersi, ma la relazione era importante. Quasi nessuno avrebbe accettato la tesi per cui lo scudo glaciale che ricopriva (forse) la Finlandia si estendeva (forse) fino alla Russia centrale. Ma almeno doveva provare a esporre la sua teoria strampalata (che poi si è dimostrata vera) davanti a un pubblico di menti ingessate. Il sospetto dei colleghi della Società Geografica. Facce sospette attorno a casa sua. Sospetto ovunque. Quando arrivò il giorno della riunione, come Kropotkin racconta, la discussione fu accesa. Le antiche tesi sul periodo diluviale in Russia furono definitivamente accantonate e, anche se la teoria dello scudo glaciale lasciò perplessi molti geologi, tutti erano d’accordo sul fatto che si fosse sottostimata l’importanza morfogenetica dei ghiacciai del Pleistocene. Kropotkin fu proposto alla carica di presidente della sezione di geografia fisica, ma in cuor suo non sapeva nemmeno se quella notte avrebbe dormito da uomo libero. In effetti, finita la riunione, non sarebbe dovuto rincasare. Venuta la sera, una domestica che aveva visto movimenti strani (più del solito) davanti a casa, consigliò al principe di uscire dal retro. Lui prese una carrozza e, mentre stava attraversando la Prospettiva Nevskij, una seconda vettura lo affiancò. Dentro c’era un tessitore arrestato qualche giorno prima dalla polizia. Aveva visto in faccia Borodin a un incontro di sediziosi. “È lui”, deve aver detto allo sbirro seduto al suo fianco. Un minuto dopo Kropotkin era in custodia della polizia.

Alla Fortezza le cose non erano semplici. Fatta costruire da Pietro il Grande sulla Neva, a Enisari (in finlandese “Isola delle Lepri”), fu roccaforte contro i nemici del Baltico e prigione per gli oppositori dei Romanov. Il catalogo di orrori e di celebrità legati al suo nome aveva impressionato lo stesso Kropotkin che, in Memorie di un rivoluzionario, menziona episodi alquanto pittoreschi: i topi che durante un’inondazione si arrampicavano sulle vesti della principessa Tarakanova, Pietro I che torturava e uccideva con le proprie mani il figlio Alessio. Quello che m’interessa però è il modo in cui Kropotkin seppe resistere all’intrusione nel corpo e nella testa di quella specie di vuoto spinto che è la prigione. All’inizio provò a pensare a Bakunin (prigioniero prima di lui nella Fortezza) che dopo otto anni era uscito “più fresco e vigoroso dei suoi compagni rimasti liberi”. Dopo provò con il canto, Ruslan e Ludmilla di Glinka, a piena voce, poi sempre più piano, fino a tacere qualche giorno dopo. Passò quindi all’esercizio fisico, millecinquecento passi sette volte al giorno e il lancio acrobatico di un pesante sgabello di quercia. Non mancavano i libri, come la Fisiologia della vita comune di Lewes, ma l’uso di carta e penna, almeno all’inizio, era rigidamente proibito. Così Kropotkin cambiò tattica e cominciò a comporre mentalmente dei romanzi popolari (intreccio, descrizioni, dialoghi) cercando di impararli a memoria. Ma era troppo faticoso e lasciò perdere anche quelli.

Un avversario lento e letale lo stava attaccando. John Berger, in Lettera aperta sulle carceri a Raymond Barre, sindaco di Lione, lo descrive così: “Accade talvolta che l’incontrollabile penetri nel corpo stesso del carcerato. Questo fenomeno ‘spiega’ i frequenti casi di automutilazione. Gli esseri umani arrivano a mutilarsi perché il carcere, con tutto il suo incontrollabile, è già penetrato nei loro corpi. Il niente non ferma niente. La mutilazione non si infligge al sé ma a ciò che lo ha compenetrato, prima ancora di inghiottire un cucchiaio, un bicchiere o un coltello”. Kropotkin non era arrivato a questo punto, ma lo spazio non-spazio del carcere stava premendo contro di lui: cella e cellule, materia inerte e carne atrofizzata, stavano entrando in osmosi. La finestra era la feritoia di una vecchia casamatta, la luce si perdeva nello spessore delle mura. Il pavimento era coperto di feltro verniciato, le pareti di pietra erano sepolte dietro uno strato di feltro, dietro un reticolato di ferro, dietro un canovaccio, il tutto dietro a fogli di carta gialla. Una serie di scatole cinesi che farebbe impazzire chiunque. Occhi senza luce, orecchie senza suoni, pelle esclusa dal contatto glaciale ma ancora reale, tangibile, della pietra. Un’implosione lenta e letale il cui punto di collasso è il cranio dell’internato: camminare, allora, significa aumentare la pressione delle pareti, cantare significa accorciare le distanze, immaginare storie significa corrodere la propria storia. Come in un monolocale a Milano o a Tokyo, come in un’aula universitaria o in un ufficio, il fuori (per cui siamo fatti) stava completamente sfuggendo al prigioniero Kropotkin.

Dopo due anni senza nemmeno un processo, la salute di Pëtr comincia a vacillare. Il crollo dilazionato diventa imminente. Molti amici arrestati con lui nel 1874 sono morti o impazziti. Lo sgabello di quercia con cui si allena nella penombra pesa nelle mani come piombo. I sette chilometri che si è proposto di fare ogni giorno nella cella sono interminabili. E, proprio come in uno svernamento nell’Artico, l’inverno russo lo sta vincendo con lo scorbuto. Nel frattempo, però, viene completata l’istruttoria sul suo caso e, nell’imminenza del processo, Kropotkin e i compagni rivoluzionari vengono trasferiti nella Casa di Detenzione, una prigione all’avanguardia, costruita sul modello francese. Finestre, possibilità di scambio tra i prigionieri, minore umidità. La cella però è così piccola che pochi minuti di esercizio camminato procurano il capogiro. Per combattere lo scorbuto Kropotkin si fa mandare del cibo da casa, ma ormai, nell’arco di un’intera giornata, non riesce a digerire più di un uovo e un pezzetto di pane. Le forze declinano rapidamente e c’è chi lo dà per spacciato. Per salire la rampa di scale che porta alla sua cella è costretto a fermarsi due o tre volte per riposare. Alla fine, le sue condizioni sono così gravi che viene trasferito all’ospedale militare, dove c’è una piccola prigione per i soldati che si ammalano sotto processo. In quell’oasi di cura migliora immediatamente. Le camminate nel piazzale, la vista degli alberi, un cancello sempre aperto, il viavai dei passanti gli restituiscono la speranza. Potrebbe anche riuscire a scappare. Anzi, deve scappare.

Con una rocambolesca evasione sostenuta da decine di complici esterni, il 30 giugno 1876 Kropotkin fugge, si rade la barba, pranza nel miglior ristorante della città (dove centinaia di poliziotti sguinzagliati sulle sue tracce non lo cercheranno mai) e, attraverso la Finlandia, arriva in Svezia, e di lì in traghetto verso l’esilio, l’Inghilterra. Durante il viaggio scoppia una tempesta, montagne d’acqua plumbea, schiume che volano al cielo come colonne di vapore. Ma Kropotkin è felice: “Godevo della lotta fra il nostro battello e le ondate furiose, e passai delle ore a prua mentre la schiuma del mare mi sferzava il viso. Dopo due anni trascorsi in un carcere tetro ogni riposta fibra del mio essere sembrava palpitare di vita, avida di goderla in tutta la sua pienezza e intensità”.

[…]

13

Tu cammini su grandi placche di pietra e vedi che sono state erose e striate da un’enorme pressione invisibile, risali morene abbandonate dal ritirarsi di un’enorme massa invisibile, la forma e la frequenza dei laghi sono il residuo di un immenso corpo invisibile che ha schiacciato le terre in un’era che si può a malapena sognare. Ma a un tratto ti accade qualcosa, come uno scoppio di dinamite, e tutto quel vuoto, tutta quella massa mancante diventa dentro di te una visione di ghiacci blu, di nappe di detriti incapsulati nel cristallo, di ventri squamati che abradono e macinano le rocce, mentre vene di torrenti, interne e tortuose, scavano tunnel neri e tuonanti: la Finlandia è coperta dai ghiacci. Più difficile da credere è che quel ghiacciaio immaginario portò in galera qualcuno e contemporaneamente lo salvò. Se fosse stato un ghiacciaio reale, visto realmente da qualche parte, non avrebbe avuto lo stesso potere su di lui, sarebbe stato un oggetto geografico come un altro, digerito da uno stomaco scientifico allenato a modelli e misure. Un vecchio ghiacciaio scomparso è invece qualcosa di completamente diverso. È questo che ha salvato Kropotkin dall’intrusione nel corpo della massa violenta della prigione: il fatto che quel ghiacciaio fosse immaginario, che per farlo esistere ci fosse voluto un vuoto, una lacuna, e che nella lacuna si fosse annidata una visione simile a una fede. Questa è la vera cartografia. Perché quello che conta nelle mappe è proprio ciò che manca, è lì che lievita un abitare, un cercare, un viaggiare. Napoleone segue gli eserciti del nemico che passano in due centimetri di pianura verdina, il capitano Cartier teme i villaggi indiani nell’ansa del fiume San Lorenzo disegnato timidamente a matita, l’aborigeno australiano vede nel pelo del wallaby il bush dove andrà a cacciare domani. Le mappe sono dispositivi di cattura dell’immaginario, servono a desiderare, non a conoscere. Desiderare quello che non si deve, trasformare quello che si sa. Mi viene da pensare alla Pontito di Franco Magnani in Un antropologo su Marte (1995) di Oliver Sacks, la storia di un pittore dalla memoria fotografica che dipinge in ogni minimo dettaglio il paese natale lasciato trent’anni prima. Un paese che ovviamente non esiste più, una mappatura del vi- cino-lontano che parla di prigioni nel cervello, e di tunnel per scappare.

Ecco allora Kropotkin nella sua cella. Con lui le sue memorie. I suoi sogni. Il suo tempo perduto è uno spazio geologico scomparso. La sua infanzia è il Pleistocene. Il viaggio del ricordo salta le genealogie e i nodi d’affetto per trovare nel nucleo di un ghiacciaio immaginato un ciottolo di libertà. Il prigioniero si salva andando alla fonte primaria della selvatichezza, il solito fuori, un fuori così lontano che anche la vita ordinaria potrebbe collocarsi dal lato della prigione. Ma che cosa immagina Kropotkin? “La cosa più importante è conservare le forze. Non mi voglio ammalare. Voglio fingere di essere obbligato a passare due anni in una capanna nelle regioni artiche durante una spedizione polare”. A questo pensava il geografo anarchico, una specie di gioco simulato dentro la scatola virtuale della cella: svernare, gli svernamenti, questi laboratori di resistenza antropologica che sono quasi un’allegoria bianca, un aleph gelato in cui le prove di una vita si condensano in un singolo inverno polare.

 

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