Le lettere familiari di Giorgio Manganelli

di Alessandro Gazzoli

Secondo una battuta ricorrente, Giorgio Manganelli è uno scrittore che «pubblica molto più da morto che da vivo». Ed è vero: non passa anno che non ci sia la riedizione di un libro di Manganelli, la riscoperta di una sua vecchia traduzione, il ritrovamento di un inedito, una nuova antologia di scritti, perfino la ristampa dello stesso inedito ma sotto un titolo diverso. In questo filone, le Lettere familiari uscite ora da nottetempo (con un testo di Giorgio Vasta e postfazione di Lietta Manganelli) sembrano inserirsi in perfetta continuità: si tratta infatti della riedizione dei testi già editi da Aragno nel 2008 (Circolazione a più cuori. Lettere familiari), con l’aggiunta di alcuni scritti recuperati da Lietta e della coda iconografica di lettere autografe illustrate da Manganelli stesso.

Il vero interesse del volume non sta quindi nella presentazione del già noto, ma semmai nella scelta di far precedere l’epistolario di Manganelli (alla lettera: come nella precedente edizione, non abbiamo le risposte dei destinatari) da una corposa introduzione di Giorgio Vasta. Quasi quaranta pagine, nelle quali lo scrittore palermitano cerca di tracciare alcune possibili chiavi di lettura – del tutto personali, idiosincratiche – per orientarsi dentro le decine di lettere inviate da Manganelli alla fidanzata-poi-moglie Fausta Chiaruttini, alla figlia Lietta, alla madre Amelia, al fratello Renzo e infine alla cognata Angiola, nelle settimane successive proprio alla morte di Renzo.

Innanzitutto, Vasta è consapevole del fatto che negli ultimi trent’anni l’editoria italiana sembra costantemente «alla ricerca di un Manganelli ulteriore, dunque anteriore, il più possibile originario, retrostante, a priori, fetale», come a voler smentire (o confermare) la celebre frase di Calvino che, recensendo l’esordio di Manganelli del 1964 con Hilarotragoedia, aveva parlato di uno scrittore «uscito come Minerva dalla testa di Giove, maturo e armato di tutte le sue doti».

Com’è ovvio, queste lettere risalgono invece molto più indietro, fino al Manganelli poco più che ventenne, ancora alle prese con esami universitari, concorsi a cattedra e prime collaborazioni editoriali; ma scendono anche molto più in profondità, raccontando di un Manganelli a volte insicuro, a volte tenero, a volte dolente e affranto, in ogni caso raramente a suo agio nelle vesti di marito, di padre, di fratello, di figlio.

E, dunque, presentando testi che non sono nati per la pubblicazione e l’esegesi, Vasta sceglie due immagini efficaci per descrivere la sua esperienza di lettore-commentatore di questo carteggio monodirezionale: la prima è quella del ladro, che si introduce di soppiatto in un alloggio privato, a spiare impunemente parole che non erano state pensate, dette e scritte per lui; e la seconda è quella del gatto, che, sebbene sia stato più volte rimproverato, non resiste alla tentazione di sfidare i divieti e di infilare le zampe tra le piante del salotto («ho letto questo libro così, furtivo, sentendomi ingiusto e allo stesso tempo non riuscendo a non rinfilarmi nel vaso e a scavare»).

Leggere la corrispondenza di Manganelli assomiglia quindi a camminare dentro un appartamento (la metafora è sempre di Vasta), la cui stanza principale è occupata dalle lettere a Fausta. Manganelli, come detto, ha poco più di vent’anni; viene da un’esperienza marginale seppur drammatica nella Resistenza, è uno studente brillante di Scienze Politiche a Pavia e sta cercando, a fatica, il proprio posto nel mondo. L’incontro con Fausta gli appare perciò come un dono inatteso e insperato: Manganelli vive l’amore con ansia e trepidazione, lottando innanzitutto con la propria incredulità («sei qualcosa che “non credevo”», «nel secolo di Freud e di Stalin succedono ancora i miracoli», «ho una vera ansia di vederti, di credere nella tua esistenza, nel tuo affetto»).

Questa incertezza, unita a un’incessante necessità di conferme, è il basso continuo delle lettere alla compagna: Manganelli si lamenta delle scarne righe che riceve, implora attestati d’affetto, quasi istruisce la destinataria sul tipo di risposte che si aspetta di ottenere; ma, soprattutto, affida a questo amore un ruolo salvifico e metafisico, che trascende il mero rapporto con Fausta e arriva quasi a giustificare la sua stessa biografia («il mio senso della vita si forma accanto a te, matura attraverso la tua assistenza»). Come giustamente osserva Vasta, «Manganelli si innamora della parola amore»: in questo senso, il ruolo assegnato a Fausta diventa presto quello di una creatura angelicata, sovrannaturale («E mi sembri quasi un mito, una distanza fatta creatura»); il che, per un autore imbevuto di letteratura come Manganelli, significa inevitabilmente farne anche un espediente retorico, qualcosa che tocca la sintassi dell’esistenza:

Tutta la mia vita è stata lo sforzo di trovare quel senso, di ricomporre la pagina agitata in una sintassi o poetica o metafisica o umana. Ed ecco che ora, anche nei momenti dello sgomento asintattico, tu mi appari come una portatrice del senso, senso tu stessa di tante cose non intese mai finora.

E quando l’ansia, la distanza, la freddezza di Fausta portano scompiglio in quest’ordine del discorso, ecco che Manganelli regredisce nel linguaggio glossolalico degli innamorati, nelle moine, nei vezzeggiativi, nei nomignoli, nelle distorsioni linguistiche tipiche del colloquio di coppia («Mamina, Cicciolino ha bisogno di mamina perché se no ha tanta paura ed i fantasmi s’impadroniranno di lui, ed allora come farà mamina a trovare Cicciolino?»). Oppure, al contrario, indossa i panni di un padre seduto ai bordi del letto (o di un bimbo rintanato sotto le coperte) e s’inventa storielle e apologhi didascalici che – come un sortilegio – dovrebbero illustrare e fortificare un rapporto che invece sta andando via via sfaldandosi («forse la mia sconsolata e consolatrice capacità di credere è approdata alla terra della fede estrema: fede nella fiaba»).

È per questo motivo che, proprio nelle lettere che coprono il triennio della relazione con Fausta (1944-47), Vasta rintraccia quella «vocina» che ai suoi occhi costituisce il mormorio costante della prosa manganelliana, uno scrivere in «falsetto» che Manganelli avrebbe poi «disciplinato tramite la consapevolezza e l’ironia, e attraverso un’intelligenza della forma linguistica». Lettura interessante, che si rivela ancor più suggestiva se si paragonano tutte queste lettere con l’ultimo testo inviato a Fausta incluso nella raccolta, datato gennaio 1960. Sono passati tredici anni, Manganelli ormai risiede a Roma dal 1953 e, con la giusta distanza, riesce a guardare con lucidità prospettica a una relazione che si è bruciata in pochi anni nella velocissima traiettoria fidanzamento-matrimonio-paternità-rottura. Non ci sono recriminazioni, accuse o pentimenti, né tantomeno i bamboleggiamenti ironici di quindici anni prima: c’è piuttosto la sensazione amara di uno scampato pericolo, di una spirale distruttiva che solo Fausta era riuscita a intravedere per tempo:

Credo anch’io, come tu dici, che sia stato un bene che la nostra famiglia si sia sciolta: il mio carattere assai infelice avrebbe certo danneggiato, forse irreparabilmente, la tua sensibilità; e i sensi di colpa mi avrebbero distrutto.

Da quanto riusciamo a capire, è stata infatti Fausta, qualche mese prima, a riallacciare i rapporti con Manganelli e a mettersi in contatto con lui, forse anche per favorire un suo riavvicinamento con la figlia. Se infatti è vero, come chiosa questo Manganelli maturo, che «viene anche il momento in cui si cessa di litigare col proprio passato», è altrettanto vero che quanto è rimasto in sospeso prima o poi dal passato riemerge con tutta la sua prepotenza. Il filo del discorso – e dell’antologia – viene quindi ripreso idealmente dalle lettere alla figlia Lietta, che coprono l’arco tra il 1961 e il 1974, e raccontano la ricostruzione faticosa di un rapporto, interrotto bruscamente alla fine degli anni Quaranta.

Con Lietta, il dialogo inizia in maniera circospetta e titubante, in un’atmosfera sospesa in cui il senso di fatale ineluttabilità per un incontro rimandato troppo a lungo si mischia al desiderio, venato d’angoscia, di tornare a frequentarsi di persona («sappiamo che dobbiamo conoscerci, che siamo legati profondamente, che dobbiamo capirci»). Al giovane Manganelli, sprovvisto persino di una fotografia di Fausta, per «oggettivare» il suo amore bastava spulciare «una guida del Touring» o le coincidenze dell’orario ferroviario («Lo guardo spesso, e mi pare che i treni delle ffss siano impazienti di portarmi da te»); ora, invece, questi correlativi oggettivi non sono più sufficienti (sarebbe «come voler conoscere una nazione guardando la cartina del calendario De Agostini»).

Manganelli dunque procede per gradi, allenandosi con prudenza a un fatidico confronto dal vivo: si tuffa nei ricordi (nella sua memoria Lietta era «un puledrino tutto gambe […], magro e saltellante»), propone uno scambio di fotografie, fa le consuete domande su salute e scuola, elargisce consigli riguardo alle prime crisi adolescenziali di cui Lietta gli ha parlato (probabilmente i passi più sentiti, e paterni, di questa sezione del volume).

A completare la corrispondenza con moglie e figlia, ci sono poi le lettere che Manganelli spedisce alla sua famiglia d’origine, ovvero al fratello Renzo e alla madre Amelia. A volte si tratta di lettere ‘cumulative’, che comprendono cioè diversi destinatari (fratello, madre, cognata, nipoti), ai quali per esempio può essere riservato un singolo paragrafo; oppure, più in generale, sono testi che sembrano presupporre una lettura ad alta voce, come se Manganelli li avesse redatti avendo in mente i parenti riuniti attorno al tavolo del salotto, intenti ad ascoltare le sue parole (un po’ come accade in certe scene di Guerra e pace, quando tutti i membri della famiglia Rostov si radunano per leggere insieme le lettere di Nikolaj impegnato al fronte).

Quando invece scrive direttamente a Renzo, Manganelli si apre, parlando schiettamente di sé, dei suoi crolli psiconervosi e lasciandosi andare a confessioni dolorose («Ormai mi è chiaro che io sono sempre stato uno squilibrato») e a slanci d’affetto che solo un’ammirazione fraterna profonda può scatenare («Sei un fenomeno, una specie di peso massimo dei fratelli»). Nel rapporto con la madre, al contrario, una patina superficiale di ironia («Carissima mamma, nonché sciura Amelia», «Cara mamma, scusa se ho tardato a soddisfare la discreta sollecitazione delle tue cartoline», con un «E ora giustiziamo la madre» si apre una porzione di lettera dedicata a lei) sembra tenere a freno, o a mettere in sordina, una comunicazione sincera.

Le lettere sono spesso concise, legate ad argomenti superficiali ed esteriori, da conversazione (la salute, il tempo, gli impegni) che tradiscono soprattutto una volontà di non dire, o un’incapacità di esporsi. Come spesso accade nei rapporti madre-figlio, questo iato sembra essere al tempo stesso piccolo e incolmabile, e porta inevitabilmente a scritti che divagano per non affermare nulla, salvaguardando una distanza di sicurezza, come se madre e figlio non potessero non patire una separazione irrimediabile (ed è commovente la domanda che a questo proposito si pone Vasta: «Quand’è che il figlio smette, una volta e per sempre, di andarsene via dalla madre?»).

Se si escludono la postfazione di Lietta e l’appendice delle lettere illustrate, il libro si chiude con la parte più intensa – e toccante – dell’intera raccolta. Si tratta infatti delle due lettere scritte da Manganelli in morte del fratello Renzo e indirizzate alla moglie di lui, Angiolamaria, detta Angiola. I due scritti affondano le loro radici nell’antico genere dalla consolatio, e sono venati infatti da un sapore letterario (nel senso più nobile del termine) che li distingue da tutti gli altri presenti nel volume. Come ogni parente stretto, Manganelli è rimasto sconvolto dalla morte prematura del fratello e, tuttavia, sente che questa scomparsa gli ha come concesso di affacciarsi per alcuni momenti a un «davanzale di verità»; la morte di Renzo – scrive in una lettera coeva alla figlia Lietta – è stata per lui «una piaga e una luce», che continua consolarlo anche negli attimi stessi in cui lo lascia in preda alla disperazione. Così, Manganelli cerca di tenersi stretto quel poco che è riuscito a capire da questo passaggio doloroso e, pur con la sensazione di restare aggrappato a «erba da capre sullo strapiombo», fa di tutto per riuscire a conservare qualche brandello di verità per consegnarlo a chi, come Angiola, gli ha chiesto un «viatico» per il lutto.

Il compito è improbo, e quindi leggiamo con una certa emozione Manganelli mentre scrive di morti che «confermano piaghe durate una vita» (come nel caso di sua madre) e di altre che invece «svelano con un gesto finale una dolcezza rimasta lungamente segreta», lasciando a chi resta «una pace colma di lacrime» (come è accaduto alla scomparsa di suo padre). La morte di Renzo, però, è stata diversa: inattesa, sconvolgente, disarmante, certo; eppure, da vero «re in incognito» della famiglia qual era, Renzo ha saputo ancora una volta sorprendere chi gli ha voluto bene e fare della propria fine «un punto d’incontro, un appuntamento, un luogo in cui ci si riconosce, e ci si ritrova, noti gli uni agli altri». Manganelli insiste sulla «coscienza d’amore» che la famiglia ha sperimentato durante i giorni del commiato e, nella sua devozione assoluta verso il fratello, in entrambe le lettere arriva addirittura a paragonarla al sacrificio estremo compiuto da Gesù sulla croce:

La scomparsa di Renzo lascia libera la forma assoluta dell’amore, che in nessuna vita può apparire se non come luce provvisoria. La tua solitudine è amara, ma non c’è mai stata illuminazione senza croce, anzi senza crocifissione.

Certo, non tutto torna: il dolore è troppo grande per poter essere arginato, spiegato, diluito con le parole; e senz’altro Giorgio Vasta ha ragione quando scrive che «Manganelli sembra aver vissuto la sua vita in uno stato di panico sintatticamente ineccepibile». Ma se queste lettere hanno un pregio è quello di dimostrare che non poteva fare altrimenti, e qualcosa di profondamente umano emerge dietro al ricamo degli ossimori, degli arcaismi e delle subordinate: Manganelli vedeva la sua vita come un «tappeto», e sentiva che il suo compito era innanzitutto ubbidire con «con furore» all’ago che la tesseva.

Perciò la domanda più straziante per un essere umano – come scrive nell’ultima, bellissima lettera alla figlia Lietta – è chiedersi «se si può sempre “dialogare con l’ago”, senza mai scorgere […] l’ombra, o la luce, intollerabili entrambe, della mano che lo governa». Manganelli non ha una risposta, ma prova comunque a suggerirne una, in un periodo denso di dubbi, di contraddizioni, di antinomie – e, per una volta, con una sintassi non del tutto ineccepibile:

In questo “dialogo con l’ago” non c’è pausa, non c’è dolcezza, e c’è insieme tanta dolcezza, di quella fatale e consumante dolcezza che si sperimenta solo nel cuore della sofferenza più intollerabile, che ad essa non è concesso rinunciare.

 

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