Per raccontare una buona storia occorre conoscere le parole giuste, che a volte sono le più semplici, a volte sono più ricercate. Con le parole diamo una forma alle idee, e facciamo sì che una sensazione si trasformi in conoscenza. E le parole difficili sono quelle che danno alla storia una maggiore compiutezza, che la rendono più credibile, più aderente alla realtà – che è sempre articolata e composita – per riportarla in maniera precisa e accurata all’esperienza del lettore.

Le favole del comunismo, il romanzo di Anita Likmeta da poco pubblicato da Marsilio, inizia con l’evocazione di alcune parole che la narratrice bambina ancora non conosce, e che le servono per descrivere i movimenti di una lamina che sostituisce il vetro in una finestra rotta, gonfiata dal vento da una parte e dall’altra: «Un giorno imparerò anche le parole più difficili. Parole come “laconico”, “concavo” o “convesso”. Ma succederà in un’altra lingua. Intanto, nel febbraio del 1996 […] sono troppo piccola per saperle dire persino in albanese».

Il romanzo racconta i presupposti che hanno consentito alla narratrice (e con lei all’autrice) di sfuggire a una storia di oppressione e di povertà per accedere a un’altra di democrazia e abbondanza: la fuga avvenuta nel 1997 da un’Albania in preda alla guerra civile fino all’Italia, che per gli albanesi in quel momento rappresentava la terra promessa del benessere a soli centocinquanta chilometri di distanza, sulla sponda opposta dell’Adriatico.

Ho conosciuto Anita Likmeta a Viareggio, lo scorso mese di luglio, quando il suo libro è stato insignito del Premio Internazionale “Viareggio-Versilia” 2024. In quell’occasione l’autrice fece amicizia con una bambina che aveva più o meno l’età della sua Ari all’inizio del romanzo. Con lei aveva stabilito uno splendido feeling. Sembrava attratta dall’innocenza di questa bambina come la piccola sembrava incuriosita da lei.

Quella sera Anita aveva sul volto un’espressione di grande riconoscenza nei confronti dell’Italia che l’aveva ospitata all’età di undici anni e le aveva consentito di studiare e affermarsi come imprenditrice di successo. Nel suo breve discorso, forzando un po’ il significato della parola, definì la democrazia italiana come un “fare spazio”, ovvero come la capacità di accogliere chi è in difficoltà e ha bisogno di aiuto; il che, quando si verifica, è certamente un atto molto democratico.

Tra i meriti del libro c’è indubbiamente quello di raccontare la storia di una nazione che, nonostante la sua vicinanza all’Italia, rimane ancora poco conosciuta per molti di noi, facendo luce sulle sue peculiarità rispetto ad altri paesi dell’Est, sia durante il periodo della dittatura comunista, sia durante i tumulti che seguirono al crollo del regime in attesa dell’instaurazione di un ordine nuovo.

La narrazione alterna il racconto delle vicende reali a quello delle favole raccontate dal regime (le favole del comunismo, appunto), nelle quali l’Albania viene definita come «il più felice dei mondi», ma che in verità mettono in luce la totale mancanza di libertà che vi regnava.

Ari, la protagonista, è una bambina che la madre ha dovuto lasciare alla cura dei nonni nella campagna albanese, e che avrebbe bisogno che qualcuno le raccontasse delle favole vere per comprendere almeno un po’ la complessità che aveva repentinamente investito la sua giovane vita: «La verità è che se mia madre fosse qui mi racconterebbe una favola. Se qualcuno mi raccontasse una favola forse mi addormenterei prima, invece di lottare ogni volta con il buio della notte fino a crollare sfinita. E se nessuno mi racconta una favola stanotte, so che un giorno, quando avrò tutte le parole che mi servono, me la racconterò da sola».

È ancora una volta un problema di conoscenza, e in particolare di conoscenza delle parole. Se non si hanno tutte le parole che servono, le uniche favole che si possono raccontare risultano falsate, poco credibili.

La conoscenza necessita dell’esperienza. «Del resto non ho neanche un’idea di cosa sia una vela, perché non ho mai visto il mare», afferma Ari nella prima pagina. Senza aver sperimentato cosa sia la libertà o la felicità, le fiabe possono stravolgere tali concetti capovolgendone il senso, divenendo in qualche modo grottesche. Così nelle favole raccontate dal regime, l’Albania diviene «il Paese delle Aquile, di tutti i paesi il più felice». E le ingiustizie che vi vengono perpetrate sembrano essere colpa di coloro che si ribellano alle leggi del regime e in tal modo escono volontariamente da quell’insieme di regole che servono a garantire quella felicità stessa. Del resto, se non si è mai sperimentata la felicità, essa può assumere nella narrazione qualsiasi forma. Non si può immaginare la felicità senza averla vissuta, così come non si può immaginare cosa sia una vela senza aver mai visto il mare.

Che sia una bambina, dunque, la protagonista del romanzo è significativo. La bambina non ha mai vissuto, come invece suo nonno, una vita diversa da quella che ha. Percepisce che ci siano delle storture nella società ascoltando i discorsi degli adulti, ma fatica a immaginare un mondo differente rispetto a quello nel quale si ritrova a vivere.

Quando finalmente, nel 1997, all’età di undici anni, Ari riesce a fuggire in Italia con sua madre, la scoperta di un mondo diverso la sorprende per la mancanza assoluta di riferimenti. La prima volta che mangia un cornetto caldo al cioccolato non solo non ne conosce il nome (quando la mamma le chiede che cosa voglia mangiare le risponde di volere «l’odore buono»), ma non sa nemmeno comprendere da dove possa arrivarle quell’ondata di piacere che le investe il palato, ritenendolo quasi di natura metafisica: «La cioccolata è come se mi arrivasse al cervello, e non riesco a trattenere le lacrime: è una sera d’estate bellissima, e Dio è buono».

È singolare che nell’ultima pagina del libro Ari torni a parlare delle “parole difficili”, quelle stesse parole che nella prima pagina le mancavano anche nella sua lingua madre: «Nella mezzanotte degli asini, tutte le parole ci verranno concesse, anche quelle difficili, come “laconico”, “concavo” o “convesso”. Parole che abbiamo cercato con vergogna nel vocabolario quando eravamo bambini stranieri in un mondo strabordante di cioccolato».

La mezzanotte degli asini è un breve momento, durante la vigilia di Natale, in cui viene chiesto alle bestie come siano state trattate, e in quel momento agli asini viene concesso il dono della parola. Potranno dire le cose esattamente come stanno, perché avranno tutte le parole a disposizione. E a partire dalla loro testimonianza i loro padroni verranno giudicati: «alcuni nomi resteranno scritti sull’albero della vita, mentre altri verranno cancellati per sempre».

Ciò che verrà consegnato alla Storia, quella con la “S” maiuscola, sarà la testimonianza degli asini, detta in un breve momento magico, ma detta bene, usando tutte le parole nel modo esatto.

La Storia, d’altronde, è per forza di cose un’approssimazione, ma ha pur sempre l’ambizione di essere molto precisa.

 

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Autore

lucaalvino@minimaetmoralia.it

Luca Alvino è nato nel 1970 a Roma, dove si è laureato in Letteratura Italiana. Nel 2025 ha pubblicato per Il Convivio la raccolta poetica Sono il poeta. Nel 2023 ha tradotto e curato per Interno Poesia un’ampia antologia delle poesie di John Keats, intitolata Mio cuore. Nel 2021 ha pubblicato, ancora per Interno Poesia, la raccolta poetica Cento sonetti indie. Nel 2018 è uscita per Castelvecchi la sua raccolta di saggi Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter. Nel 1998 ha pubblicato con Bulzoni una monografia sull’Alcyone di Gabriele d’Annunzio, intitolata Il poema della leggerezza.

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