Locus desperatus, nella tana di Michele Mari
di Simone Bachechi
Immaginare di trovarsi a casa di Michele Mari, già noto collezionista compulsivo (si vocifera possegga anche una maglia originale di Diego Armando Maradona) è come fare un viaggio nella sua “tana-museo”, così è definita l’abitazione del protagonista di Locus desperatus (Einaudi pagg. 131, euro 18,00) l’ultimo romanzo dello scrittore e professore milanese. Del resto protagonisti e voci narranti dei suoi romanzi e racconti sono spesso il calco più o meno fedele del suo autore nel complesso di un’opera letteraria che da oltre trent’anni ha al centro il tema della memoria, spesso declinata all’infanzia come momento da conservare in modo quasi feticistico, e in generale caratterizzata da una costante declinazione autobiografica pur trasfigurata nella modalità mimetica e allucinatoria dei suoi libri e di storie che sembrano reperite da sogni e incubi, o nei loro pressi. L’autobiografia che da anni Michele Mari compone non è che una modalità della sua prosa, una sua appendice, il ri-pensare il vissuto del suo autore, un penetrare e penetrarsi di materia friabile e porosa l’una all’interno di un’altra, fedelmente all’assunto pessoeano secondo il quale “il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente”.
Con quest’ultimo romanzo con in quale si è meritatamente inserito nella cinquina del Premio Campiello che decreterà il vincitore il prossimo 21 settembre, Michele Mari ritorna alle care amate cose, già punto focale di molti suoi scritti e la cui importanza nell’immaginifico mondo dello scrittore è testimoniata da opere come Asterusher, autobiografia per feticci, sorta di libro-oggetto del 2015 e guida alle sue dimore, uscito in una nuova edizione del 2019 per Corraini e corredato dalle fotografie di Francesco Pernigo, lo stesso che firmerà la foto di copertina di Locus desperatus. Una pulsione feticistica che fa delle cose delle miniature di eternità, svelandone il carattere perturbante per quanto antropologizzate e tanto intenso è il meccanismo di transfert messo in atto dal suo possessore.
Un’identità letteraria quella di Mari e un culto delle cose quale luogo della memoria che si dissemina in vari modi lungo tutto il suo tragitto autoriale, basta ricordare Leggenda privata, quanto di più esplicitamente autobiografico abbia scritto, o come alcuni racconti, da citare tra questi Scarpe fatidiche, contenuto nella precedente a Locus desperatus raccolta dal titolo Le maestose rovine di Sferopoli, un’ossessione per un oggetto in questo caso che ricorda quella della celebre scena del film Bianca di Nanni Moretti nella quale il protagonista (Michele-Moretti) osserva e commenta in modo ossessivo l’accessorio nei passanti. Un feticismo quasi “morettiano” (nel senso del cineasta romano), e un ritornare agli oggetti del passato dove abbiamo trasferito i nostri ricordi e la nostra infanzia e con essa il nostro piacere (o incubi e ossessioni) dilazionato. Da notare che oltre al tema autobiografico preponderante nella filmografia di Nanni Moretti così come nelle opere di Michele Mari, ambedue non sorridano quasi mai e inoltre si può riscontrare tra i due una certa somiglianza fisica, che l’uno sia il clone o l’ultracorpo dell’altro? Tema quello degli ultracorpi che vedremo ha una sua centralità nel romanzo.
Allo stesso modo il tema della casa, del labirintico perimetro delle magioni infestate, già topos letterario declinato nei più svariati modi in letteratura come luogo fisico o immaginario, costituisce il perno sul quale ruota la tenebrosa e inquietante vicenda. Innumerevoli sono gli autori che si sono immersi nelle loro narrazioni nel claustrofobico sfondo domestico, spesso con case che costituiscono i luoghi delle manifestazioni del subconscio, del ricordo familiare o del fare i conti con il proprio doppio. Racconti come Il crollo della casa Usher di Edgar Allan Poe o i migliori di Lovecraft, così come le case infestate di Shirley Jackson o l’ancora più classica dimora che ospita il celebre Dottor Jeckyll e Mr Hyde di Stevenson ne sono la più fulgida testimonianza. Il virare e ritornare di Mari a tale ambientazione è anche un omaggio ai padri putativi dello scrittore italiano vivente più manganelliano, più landolfiano e più gaddiano, nel senso di altri suoi punti di riferimento letterari del nostro Novecento, i quali allo stesso modo dell’ex professore di letteratura italiana e in modi diversi, hanno saputo restituire tramite la debordante e barocca ricchezza del loro linguaggio pieno di arcaismi, neologismi innestati su pagine spesso dal sembiante di un percorso onirico, tutta la ricchezza, le risonanze armoniche e la bellezza della lingua italiana, un linguaggio che si fa vicario della vita e spesso ne costituisce il doppio mostruoso, quasi un’entità sensibile.
La casa del protagonista del romanzo non è un locus amoenus, ricorda piuttosto quella “zona disagio” come evocata in uno dei primi romanzi di Jonathan Franzen, luogo delle memorie affettive che nel caso in questione sono trasferite negli oggetti, “quei testimoni fraterni radioattivi” del quale il suo proprietario ne inventaria con ansia classificatoria caratteristiche, provenienze e dettagli. Lungi dal voler costituire questa maniacale predisposizione una speculazione di tipo socioeconomico su concetti quali quello di reificazione o del feticismo delle merci (cose), la riflessione che ne scaturisce è unicamente di tipo esistenziale e deve fare i conti con l’umano destino nel senso etimologico del termine “origine” ma anche di destinazione, non potendo quindi mancare un’implicita meditazione sulla morte che in tale ottica può far apparire il culto delle cose collezionate come un tentativo di esorcizzarla.
E cosa accade quando da queste cose ci dobbiamo separare? Cosa resterà di noi e della nostra anima? Accade infatti che improvvisamente sulla porta della casa faccia la comparsa una misteriosa croce, riverbero veterotestamentario di una sentenza di condanna: la progressiva entrata in scena di strambi soggetti dalle sembianze di macchiette dalla consistenza ectoplasmatica e comicamente immersi nella nostra contemporaneità rivela al solitario e compulsivo accumulatore quello che è in fondo il suo capo di imputazione: “a furia di circondarvi di cose, amandole, collezionandole, vi ci siete a poco a poco trasferito, regalando loro quote sempre più consistenti della vostra personalità”. Rimosse le cose rimosso l’individuo sembra essere la sentenza. La casa è segnata dalla crux desperationis che assomiglia molto a un’ingiunzione di sfratto, anzi di subentro. In filologia la crux desperationis segna un punto del testo corrotto e insanabile di fronte al quale il filologo deve gettare la spugna, appunto un locus desperatus, magari in attesa di farci i conti successivamente.
Questo lo scacco a cui è soggetta la filologia che oltre un certo punto non può che fermarsi, come per esteso fallimentare deve essere considerata ogni teoria onnicomprensiva e alla stessa stregua ogni sfida interpretativa che si può esplicare nel celebre e già abusato assunto wittgensteiniano: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, che riporta un po’ tutti con i piedi per terra e ad altre considerazioni sulla nostra esistenza terrena e sul suo destino.
Questa compenetrazione narrativa meta letteraria nel romanzo, tra spazio fisico, la casa, e immateriale, la letteratura ma non solo, costituisce l’oscuro ma solido blocco di questo oggetto-libro sulla cui copertina significativamente fanno mostra di sé alcune targhette di minatori reperite dall’autore-protagonista in una miniera in Val D’Aosta durante una lontana vacanza dell’infanzia con il padre, solo alcuni dei tanti oggetti reperiti nel corso degli anni dallo stesso, dai più comuni ai più strambi, dai più fisici ai più immateriali: maschere tribali, l’omino della Michelin, una zanna di capodoglio, una pressa tipografica, coltellini e tagliacarte, ma anche fumetti, una madonna lignea del Cinquecento, una calcografia di Piranesi e su tutto gli amati libri, i racconti di Poe, di Lovecraft, I Canti di Maldoror di Lautreamont, la prima edizione dell’Ortis foscoliano e quella dei Canti Orfici di Dino Campana, e molti altri, libri e oggetti, di provenienza “alta” e “bassa”, fedelmente alla vocazione di tipo post moderno di Michele Mari che da sempre nei suoi scritti riesce mirabilmente ad alternare grazie al suo ventriloquismo sciamanico e al grandioso mix di erudizione e affabulazione narrazioni a sfondo pop come possono essere quelle dal punto di vista di una grande rock band (Rosso Floyd) o che si elevano alle supreme vette della poetica leopardiana con il bellissimo apologo a tinte nerastre Io venià pien d’angoscia a rimirarti.
È con questo armamentario che l’imputato di sfratto, a quanto pare non più legittimo proprietario della casa, cerca di organizzare il suo fortino barricandovisi dentro e tentando una strenua resistenza che sembra una lotta per la sopravvivenza e per la difesa dell’essenziale di fronte al cicaleccio inutile e alla volgarità del mondo… sì, perché la sentenza di sfratto sembra essere in fase attuativa e assume la forma del trasferimento della personalità del protagonista a quelle degli ultracorpi (le strane macchiette hoffmaniane) che sono a loro volta sdoppiati, anche nelle figure evocate sulla scia dei ricordi dal resistente protagonista; i vecchi compagni di scuola fra cui una donna con la quale si genera una storia parallela in bilico tra il comico e il grottesco. Si trova cinto in stato d’assedio, uno stato d’assedio bi-relazionale, delle cose verso i subentranti e verso il loro stesso possessore nelle quali si è trasferita l’anima, anche le cose sono scisse nelle loro relazioni.
Una metempsicosi non di anime ma di oggetti che porta inevitabilmente alla sfaldatura dei contorni, sia delle cose che di quei ricordi di cui sono oggetto, prova ne sono le foto sfuocate di famiglia, il protagonista stesso che non ricorda ciò di cui parlano i libri che ha letto. È il pauperismo delle cose, della vita e della memoria che genera identità ambigue e un continuo gioco di specchi, sdoppiamenti e artificio, veri e propri marchi di fabbrica della scrittura manieristica a tinte oscure di Mari fin dai tempi del suo esordio con Di bestia in bestia e che mai come in questo caso con le possibilità offerte dal sempiterno tema del doppio può sbizzarrirsi nelle sue allucinatorie e fantastiche circonvoluzioni creative.
Qualcuno si vuole impossessare delle sue cose, qualcuno o qualcosa di mostruoso sotto la sembianza di ultracorpi, creature fantastiche che sembrano uscite da una lanterna magica, ombre, proiezioni sul fondo di una caverna (replicanti?), mettendo in discussione il concetto stesso di identità e il principio di realtà che è quanto di più fragile e immediato a essere messo in discussione quando ci affidiamo a un libro, per quanto questo possa essere ancorato alla realtà tangibile o come in questo caso quando si tratta di una vera e propria fantasmagonia, citando il titolo della nota raccolta di racconti, una fantasmagonia molto letteraria, ricchissima di riferimenti colti e meno colti sull’ arte dello scrivere e non solo. Locus desperatus aggiunge un tassello a quel fantasmagorico percorso a sfondo autobiografico che è un po’ tutta l’opera di Michele Mari, un autore che a dispetto di riconoscimenti passati, futuri o futuribili, sarà tra i pochi a non essere dimenticato dalle future generazioni di lettori che vorranno affidarsi allo sterminato ed enfiato territorio della letteratura pura, un demone senza pasta sfoglia che rischia di mangiare sé stesso, con un citazionismo che in alcuni casi potrà apparire esasperato tanto da dare la sensazione che anche questo piccolo volume possa risultare il classico libro per scrittori, ma di questo il buon Mari, dal fortino assediato delle sue cose e senza mai sorridere certo non si curerà.