Ma sai, Guia: ero solo annoiato

di Stefano Felici

È bello avere un lavoro, ma ciò interferisce col tempo libero
Proverbio yddish. L’ho letto su un segnalibro della Feltrinelli, mentre ero in coda per pagare un adelphi nero, bellissimo – di cui però non ricordo il titolo.

«Anche se non sono destinate all’eternità, le cose che hanno importanza arrivano ancora in tempo anche se arrivano all’ultima ora»
Martin Heidegger

Ho dolori ovunque. Passo le giornate sul letto, a guardare ragazzini che parlano di fumetti e videogiochi su Twitch. Io, faccio per dire, ho trentacinque anni compiuti una decina di giorni fa e non ho mai lavorato un giorno in vita mia.

Chissà quand’è stato il momento in cui ho preso a dire: «Ma sai che ci ha ragione?». Come per tutti i processi che ti trasformano davvero, alla fine ci si scorda il punto di partenza, l’attimo preciso in cui le cose hanno cominciato a cambiare. O almeno, così succede a me. Che sono svagato, troppo svagato, di una pigrizia mentale da far spavento. Più pigro di un ventenne coatto di un istituto tecnico industriale. Ventenne che peraltro conoscevo benissimo: ero io.

Guia, non sapevo che fare. Quando ormai cinque, sei, sette anni fa risposi a un tuo tweet per insultarti, lo ammetto, non sapevo nemmeno che fossi una giornalista. E non posso dire: «Ero ignorante». Perché lo sono tutt’ora. Quindi non è questo il punto. Il punto era la noia. Ero annoiato, annoiato a morte. Non sapevo proprio dove sbattere la testa, durante il giorno. Di lavorare non avevo voglia. I soldi me li ha sempre dati papà. Andavo a zonzo per il centro di Roma, che stava a dieci fermate d’autobus da casa mia, imboccavo da Feltrinelli con un mio amico e prendevamo per il culo Baricco, leggendo certi suoi brani troppo lirici per due bad boy di Roma sud. Che me ne fregava di farmi otto ore al giorno in un bar, tanto per dire: «Ho un lavoro». E in quel periodo, in cui facevo finta di leggere ma non leggevo veramente, nel tentativo di trovare uno scopo all’esistenza, m’era preso a battibeccare su Anobii: litigavo con gente a caso sui concetti di etica e morale. Così. Perché erano cose alte; e per provare a me stesso che anch’io potevo essere intelligente. Senza rinunciare alla comodità di starmene in poltrona, s’intende.

Le parole etica e morale le avevo scorse velocemente sul sito di Treccani. Nel mezzo dei mie vent’anni non avevo ancora aperto un libro di filosofia. Né mi interessava farlo. Mi interessava soltanto che si dicesse di me che fossi un genio. Con un piccolo flashforward, mi si può vedere mentre mando a un editore il mio manoscritto che parla di un quasi trentenne, pigro e brillante, che scrive aforismi perfetti e acuminati, e diventa, grazie ai social e nel giro di due mesi, il Karl Kraus dei suoi tempi. Il quasi trentenne ero sempre io, e l’editore non mi ha mai risposto.

Volevo tutto e subito. Gli anni trascorsi come sfigato del gruppo mi avevano stremato. Io ci ho provato pure ad andare a ballare con gli amici, ho fatto lo sforzo: i buttafuori non mi facevano entrare. Non ho mai saputo vestirmi. Pettinarmi, trovare la giusta postura. Così ho pensato: devo conquistare una cosa che sia mia, solo mia. Mi piacevano i film e allora mi sono buttato su quelli che nessuno guardava. (Vengo dal tecnico industriale: di film che nessuno guardava ce n’erano a pacchi.) Una sera vidi in streaming Persona di Bergman e mi esaltai per il solo fatto di aver visto fino in fondo un film in bianco e nero che non fosse di Totò. I miei coetanei, chissà quale banale stronzata stavano combinando. La discoteca, andare a rimorchiare nei pub, le canne a casa di qualche amico coi genitori fuori per tutto il weekend: che schifo.

Volevo tutto e subito, dovevo recuperare. Fregandomene del fatto che a quell’età potessero esistere ragazzi già laureati alla magistrale, o con un curriculum da farmi correre a piangere in cameretta, o anche soltanto con più esperienze di vita. Mica conta solo l’università. Ero la mascotte degli spiantati, degli inetti, dei buoni a nulla. Ed ero arrabbiato col mondo. Il giovane mediocre di Lauzier.

Vivevo su internet. Mi andavo a tuffare in discorsi complessissimi sui forum di cinema, letteratura e musica, dicendo ovviamente la mia, sforzandomi di dirla al meglio che potevo, credendo ogni volta di aver messo talmente in difficoltà il mio interlocutore che lo immaginavo sempre rannicchiato sulla sedia a disperarsi, senza un briciolo di argomentazione a suo favore, svuotato, inerme. Poi, invece, le risposte arrivavano: e quello disperato ero io.

Guia, sto leggendo il tuo libro. Lo devo ancora finire. Ogni quattro pagine ne declamo a voce squillante un passo alla mia ragazza, e lei urla «Sì, sì, è vero!, giustissimo!», e poi ci facciamo una bella risata. Leggo il tuo libro e mi sembra di respirare meglio. Ho la muscolatura più rilassata e il senso di oppressione sul petto tipico dell’ansia, giuro, è sparito.

I forum avevano meccaniche lente. Così mi iscrissi a Twitter. Non l’avessi mai fatto. Se è vero che a quell’epoca ero uno spiantato inetto buono a nulla, Twitter, di questo tipo di essere umano, di questa bestiolina incapace di trovare il suo posto in società eppure talmente rancorosa da credersi migliore degli altri, ne è il vivaio naturale. Ho trovato centinaia di miei simili: un paradiso. Un inferno. Gente che come me – pur avendo studiato, magari – desiderava una sola cosa: esser considerata geniale. Subito e con poco sforzo. Un posto pieno di genii incompresi pronti a dirsi l’un l’altro: «Sì, certo, tu sei un genio. Ma lo sono anch’io, no?».

La trappola era però che toccava esser tutti uguali. Avere le stesse idee politiche, cantare gli stessi ritornelli, postare le stesse foto, scrivere nello stesso modo. Se siamo due genii ma uno ha ragione e l’altro ha torto, c’è qualcosa che non va. Consumi culturali concessi: Zerocalcare e Wu Ming. Ci sono finito dentro con tutte le scarpe, Guia. E tu che dicevi «non capite i toni», «non comprendete il testo», «siete inattrezzati», «schiantati»; tu che parlavi di serie tv americane, di autori di bestseller, di upper class newyorchese: noi a schiumare rabbia perché eravamo persone virtuose e intelligenti, giuste; altro che cazzi. L’inattrezzata eri tu, che scrivevi in maniera involuta e complessa; ma quale giornalista. Eri solo una miracolata – raccomandata! Serva dei padroni!

Mi ci sono voluti più di dieci anni di terapia per capire da dove provenisse la smania di affermarmi intellettualmente. E alla fine era semplice. Gli eventi sono due: mio padre che davanti a mia nonna dice «Stefano, diglielo che vuoi diventare un ingegnere elettronico e costruire robot», mi compra un computer e mi dice «Tieni, ora diventa un genio», senza spiegarmi nulla, e poi mi nonna muore dopo qualche mese; la mia professoressa di italiano delle medie, che quando leggeva i miei temi scuoteva la testa e poi scriveva non sufficiente, e che consigliò a mio padre di iscrivermi a un istituto professionale: mio padre in lacrime. È tutto qui. Per me, i tuoi refrain sulla comprensione del testo erano le classiche pugnalate al cuore. Ma come, io?, non capire il testo? Eri la mia maestra delle medie. Ero ossessionato e schiantato. E tu, Guia, non capivi un cazzo.

Così, eccomi a twittare di marxismo, capitalismo, neoliberismo. Continuando a ignorare i testi. Perché li ignoravo? Perché leggerli e non capirli sarebbe stato ancor più svilente.

Poi, un giorno, mi sono ritrovato a scrivere. L’ho sempre fatto. Sin da piccolo. Quando ero alle elementari, i miei compagni raccontavano dei libri letti a casa: a me non li compravano. In casa mia non si leggeva. Non eravamo poveri, ma banalmente, di leggere non è mai fregato né a mia madre né a mio padre. Così mi scrivevo da solo le storie.

A venticinque anni ho ripreso a scrivere. Ho deciso che il campo dove poter misurare il mio genio dovesse essere quello letterario. È una mossa astuta: se provi a risolvere un’equazione e non ti riesce, devi sforzarti, capire dove sbagli, tornare a studiare; se scrivi una cazzata e te la bocciano, puoi sempre dire d’essere incompreso.

Anche qui, il momento esatto non me lo ricordo; e anche qui, non l’avessi mai fatto.

Devi sapere, Guia, che io scrivo tutt’ora. Scribacchio. Sono mantenuto da mamma, papà e fidanzata – vuoi ridere? Lei ha venticinque anni, studia filosofia e prende tutti trenta e lode. Io ho qualche contratto in ballo con piccole case editrici; ma come chiunque, oggi.

Da un’ottica adulta, la mia sfortuna è stata l’aver incontrato in questi anni persone che mi reputassero in gamba. Un raccontino qua, un pezzo là. Senza impegno. Poi arrivava un tale e mi diceva: be’, continua a scrivere. E io ci credevo.

Ora inizia il bello. Mi accorgevo che per scrivere toccava sapere più cose sul mondo. O almeno un po’, visto che io partivo proprio da zero: ho smesso di leggere in terza media. Insomma: sono diventato Martin Eden. Se qualche ventenne di viale Marconi – a Roma – si ricorda di un barbuto schivo e appartato, sommerso di libri di filosofia, scienza, romanzi tedeschi e americani, critica letteraria e manuali di scrittura, un ragazzo strano che non parlava mai con nessuno, se nel periodo del vostro esser matricole universitarie a Roma Tre vedevate, nascosto nel fondo delle scaffalature questa figura per voi offensiva e sconfortante – sì, ero io.

Su Twitter, i bravi e intelligenti erano alla Z di Zizek; io alla A di Apeiron. Perché ogni volta che prendevo in mano un libro, subito mi accorgevo di non avere tutti i tasselli per capire quale fosse la figura suggerita dall’autore. E andavo a ritroso, all’indietro come un gambero, sempre più verso il fondo, fino all’alba dei tempi. La mole di libri era smisurata, ma ero in fase maniacale: ho studiato tutti i giorni, dalla mattina alla sera, per almeno cinque o sei anni.

Le mie cose presero a girare su Lavoro Culturale, Nazione Indiana, la stessa minima&moralia, riviste di racconti underground come Verde. Tutto gratis, ovviamente. Come dire: un ottimo talento se non c’è da cacciare i soldi. Le riviste che pagano non mi si sono mai filate.

Guia, mi devi credere: più scrivevo, più mi dicevano che ero bravo, più pensavo di essere geniale, giusto, buono. La famiglia Felici è piccolo borghese, ma accecato dal posizionamento socio-intellettuale che stavo conquistando in una certa area politico-culturale, e scusa l’abuso di parole composte, per un attimo ho pure pensato di dare tutto ai poveri. Di far occupare una nostra casa sfitta a chi ne avesse bisogno. Magari una famigliola che votasse comunista. Di fare volontariato tutti i giorni, di frequentare i centri sociali; io che nemmeno li ho mai visti in foto, i centri sociali. Volevo diventare un capo popolo, riconciliarmi con gli anni sprecati, andare ai rave e citare Wu Ming e imparare le canzoni dei novantanove posse e cantarle a squarciagola. Volevo si dicesse di me: è Felici, quel genio che viene dal basso, lui è tutti noi, è la nostra speranza, è talmente intelligente, ha qualcosa che gli altri non hanno.

Guia, che delusione. Che delusione quando iniziai ad accorgermi che gli orizzonti s’aprivano. Ti ricordi quante te ne dissero per quel tuo intervento agli Stati Generali del Partito democratico? Per aver fatto notare una cosa semplicissima: quali fossero i linguaggi televisivi che più catalizzavano l’attenzione del pubblico. E giù a dirti che ti piaceva il trash: tu stessa eri trash. Recuperai tutto da YouTube e iniziai a farmi qualche domanda: «Questa (Guia, mi spiace: penso in romanesco) mette insieme i pezzi e dà la figura complessiva e quegli altri je dicono che è ‘na strega?».

Osservavo che per scrivere un tweet che piacesse a tutti dovevo evitare di far battute su certi argomenti; sulle fatali minoranze. Come fai a far battute che facciano ridere davvero senza toccare – che ne so – i napoletani? O le donne? Dave Chapelle, Guia, che tu conosci benissimo, è forse il miglior comico del nostro tempo, e scherza su donne, gay, lesbiche, trans e afromericani. Si, è afromericano, quindi può farlo; però non è gay, né donna, né trans, e non è nemmeno povero, ma fa battute anche sui poveri, e mi fa ghignare come poche cose al mondo. E Bill Burr?, quando dice che se due uomini litigano è naturale andare alle mani, ma con una donna no, e allora le donne ti fanno incanalare tanta di quella rabbia dentro che poi esplodi? Gli anni ’20 del Duemila, quando si scoprì che la satira non fa prigionieri. Ah, già: ma s’era su Twitter, mica su un palcoscenico. E lì ho capito che praticamente Twitter è il salotto di mio nonno, dove se ti scappa una bestemmia hai finito di vivere, perché hai appena offeso il ritratto della Madonna del Divino Amore. Non ti far più vedere. Sei un reietto, blasfemo, reietta blasfema anche tua madre che non t’ha mai saputo educare.

Gli unici su cui si poteva scherzare? I soliti. Trump, Salvini, Renzi, Berlusconi e la Juventus. Non ho mai trovato divertente nessuna battuta, meme o gag che toccasse il potere, perché alla fine ogni battuta, meme o gag che tocca il potere è sempre la stessa cosa. A me che piace il calcio (lo so Guia, lo so: abbonami questa), non poter fare battute sulle squadre femminili è una rinuncia alla quale non son pronto. Vedere ragazze che si sgolano su Twitter, dicendo che il calcio femminile è meglio di quello degli uomini, mi fa solo pensare a quanto cerchino l’approvazione del loro amato papà che ha sempre voluto più bene al Milan che a loro.

Guia, conosci il gegika? Perdona il mansplaining, ma è un tipo di manga che prese piede negli anni ’60, ovviamente in Giappone. Nacque perché molti disegnatori sentirono l’esigenza di staccarsi dai giornaletti abituali, fatti di storielle per ragazzini e comicità scontata. Loro dovevano invece raccontare la propria vita, che era per lo più scandita da fallimenti personali e tragedie legate alla violenza o alla povertà.

Qualche giorno prima di compiere trentacinque anni, ho chiesto alla mia ragazza di essere sincera e dirmi, secondo lei, in cosa fossi davvero bravo. Ci ha pensato poco. Poi ha detto: «A te, se si tratta di fallire, non ti batte nessuno». «Ah», ho fatto io. E me ne sono stato zitto per mezz’ora.

Ovviamente ha ragione. Mi trovo a mio agio solo col fallimento. So maneggiarlo bene: parlarne, esibirlo, sopportarlo, scherzarci sopra. Sono un mangaka del gegika, che però non sa disegnare e vive nel 2021. So solo fallire, e per fallire devo scrivere, e per scrivere devo fallire. Ho trovato la mia nicchia, la mia vocazione. Adesso, finalmente, tutti quelli più bravi di me – cioè chiunque – non mi danno più fastidio: andate avanti, io sto fallendo. Sono troppo impegnato.

È superfluo dire che di più bravi di me, in realtà, ce ne sono pochi. Altrimenti grideremmo al capolavoro ogni mese – intendo sul serio: le fascette dei libri e le recensioni su Robinson non valgono. Poi, si capisce, non è colpa di nessuno: la mia generazione è cresciuta con quei telefilm americani in cui i teenager sono tutti bravi, altruisti e geniali. Ti ricordi quella serie dove c’è un piccolo Neil Patrick Harris che fa il chirurgo perché è un bambino prodigio? Be’, noi ci abbiamo creduto tutti, a dieci anni. Potevamo, dovevamo essere lui. Non conosco un solo coetaneo che non si creda un genio, nel profondo.

Prima di cominciare questa lettera volevo impostare una voce alla Alberto Sordi – alla Conte Max: bellissimo quando lui s’inventa di esser stato torero per conquistare la nobildonna. In questa lettera alla Maurizio Milani, un innamorato fisso in tono minore, appunto fallimentare, ho di nuovo mancato l’obiettivo. Sto facendo il piagnucolone e tu mi linkerai a una tua amica scrivendo quella citazione di Allen che a te piace tanto: «Sparisci, sgorbio». Questo sono.

Scrivendo da un po’ di anni, mi sono accorto di una cosa: nessuno mi ha mai fatto i complimenti per il finale di un racconto. Non ci vuole un genio per capirne il motivo. Potrei dire che questo pezzo l’ho scritto solo per provare il brivido di esser letto fino alla fine. Di brividi letterari me ne intendo, Guia. Una volta sono salito su un palco a leggere un mio racconto, e c’era Christian Raimo che dava i voti con le palette. Mi diede 6. Io avevo portato una roba complessissima, che nessuno capì. C’entravano la meccanica quantistica, i penny dreadful, Poe e Bram Stoker. Raimo mi disse: «Devi leggere di più». Per poco non gli tiro il microfono in testa. Però quel matto mi conosceva perché disse una cosa vera.

Sto scialacquando il mio privilegio da maschio bianco etero cis, con queste righe. Ma adesso la pianto: prendo i miei tre psicofarmaci giornalieri e faccio una preghierina per tutte le ragazze che nella vita mi hanno trattato come lo sgorbio di cui sopra, che stanno comprando casa insieme al marito a Monteverde, proprio dove andavo a scuola e dove non tornerò mai più, per amor proprio. Mi sento talmente in colpa verso di loro, Guia. Più che con te. Ma mi raccomando: di questo pezzo, che spero leggerai, coi tuoi amici, insomma, non fare troppi pettegolezzi. Io torno alla mia noia, ai miei raccontini inutilmente cervellotici, ai miei giovani fallimenti. Tu continua a twittare. Ti leggo sempre.

Stefano

 

Commenti
13 Commenti a “Ma sai, Guia: ero solo annoiato”
  1. carboncino ha detto:

    Stefano, ti spiego una cosa che spesso le donne fanno, quando parlano. Dicono una cosa con le parole, che è vera, ma in più ne implicano un’altra; e tra il detto e il non detto, il non detto è più importante, perché è ciò che è talmente ovvio che non dovrebbe essere necessario dirtelo. Sta a te cogliere il messaggio. Se sei bravo a capirlo, la tua relazione è salva, e spesso anche la tua vita. Ora, per questa volta ti voglio aiutare, perché si vede che non sei molto pratico. Il non detto, nella risposta che la tua ragazza ti ha dato, è: Stefano, scrivere non è cosa tua, vai a lavorare.

  2. Stefano Felici ha detto:

    Carboncino, sarei per darti ragione. Ma pensavo fosse chiaro che io di lavorare non tengo voglia. Il tempo lo devo pur ammazzare.

  3. vincenzo ha detto:

    l’ombelico…

  4. insula ha detto:

    Stefano, per il tempo va bene, se lo è meritato. Ma noi che colpa abbiamo?

  5. Stefano Felici ha detto:

    insula, guardi: ne parli coi redattori di minima&moralia.
    Non è colpa vostra, ma nemmeno mia.

  6. Alessandro Ficara ha detto:

    Ultimamente Minima sta dando segni di vita inaspettati. Che abbiano capito anche loro che è finito un ciclo, ciclo fra l’altro non particolarmente glorioso?

  7. JFK ha detto:

    A Raimo avresti dovuto rispondere: <>.

    Avresti fatto un favore a tutti.

  8. Valeria ha detto:

    Una lettera a Guia e manco una citazione di Ettore Scola, non se fa così. Comunque: non stai più con Mara?

  9. Stefano Felici ha detto:

    Ci sono citazioni nascoste che nemmeno ti immagini. Noi millennial li chiamiamo easter egg.

    Riguardo la domanda: ci conosciamo?

  10. Lundo ha detto:

    non si scrive yddish, ma yiddish

  11. Stefano Felici ha detto:

    Grazie, Lundo. Hai ragione.

  12. zoyd ha detto:

    Guia Soncini mi fa cagare, c’est plus facile!

  13. Stefano Felici ha detto:

    “zoyd”, ma che modi sono? Non qui, per cortesia. Non siamo su Twitter.

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