Su Maniac di Benjamín Labatut, tra von Neumann e Borges

di Andrea Zanni

(Pezza lunghissima e molto personale, leggere con grano di sale).

Il motivo per cui ho una laurea in matematica – il motivo di quei tre anni più uno a loro modo miserabili – è, fondamentalmente, che alle superiori ho letto troppo Borges.

Che è un pessimo motivo per iscriversi a matematica, disciplina verso la quale non sono mai stato portato. Cioè, mi piaceva, ero io che non piacevo a lei.

Ma il punto importante è Borges. Cosa vuol dire? 

Il punto è che Borges è ‘letteratura’, nel senso di finzione. Nel senso di Finzioni.

Letteratura nel senso di smalto: non sul nulla, in questo caso, ma sul reale. Nel senso di colore; nel senso preciso dell’effetto che la letteratura ha sulle persone. 

La letteratura funziona, agisce in noi come altri testi non agiscono: che in sé è una cosa ben strana, che una sequenza di parole agisca in un modo e un’altra sequenza in un altro (ma forse non è strana: è il codice con cui funzioniamo noi umani. È una formula magica, ci vogliono le parole giuste: klaatu varada nikto).

Letteratura come finzione, dicevo, come formula che provoca emozioni ed empatia. Diversamente da tutti quei testi che letteratura non sono, non hanno la giusta disposizione di parole, e la chiamiamo o letteratura mediocre o, nel caso che ci interessa, nonfiction – con o senza spazio, poco importa.

Nonfiction come aderenza al reale, come voler raccontare e spiegare la realtà al meglio delle nostre capacità.

Il telos della nonfiction è spiegare, capire, comprendere. che non necessariamente lo scopo della letteratura. O se lo è, lo è con altri mezzi, e anche altri fini.

Io adoro la nonfiction. Credo di aver letto più pagine di non che di fiction in vita mia. Ma ci sono problemi quando le cose si confondono.

Quando iniziai matematica mi innamorai della fiction della matematica, non di quella vera.

Mi innamorai perché Borges descrisse la gerarchia degli infiniti cantoriani come una dinastia di imperatori cinesi, un perfetto gesto borgesiano e un perfetto esempio di quello che intendo con ‘letteratura’.

Mi innamorai di Borges perché basta leggere il racconto “La biblioteca universale” di Kurd Laßwitz – in teoria il luogo originale dove viene menzionata l’idea matematica della biblioteca di Babele – per rendersi conto che quello che Borges fa è prendere un’idea geniale raccontata male e scrivere uno dei più bei racconti di tutti tempi, per me – umilmente ma ostinatamente – la cosa migliore che io abbia mai letto, di sempre. Un testo che risuona in me come mille campane, che è meno semplice racconto che sentenza, fato.

Laßwitz elabora il concetto, ha l’idea; Borges lo porta alle estreme conseguenze, in un racconto fantastico in cui c’è satira, matematica, psicologia, ironia, claustrofobia kafkiana, linguistica, più un paio di idee geniali buttate lì ed elaborate altrove (fra cui il libro di sabbia). Un testo che è un piccolo universo (che altri chiama la biblioteca).

Questo per dire che, con le dovute e sacrosante proporzioni ecc. ecc., leggendo Maniac di Benjamín Labatut ritrovo lo stesso talento del narratore, lo stesso gesto borgesiano di saper dipingere qualcosa di letteratura. Un gesto per nulla banale: io posso raccontarvi i cazzi miei, ma se lo fa Emmanuel Carrère è un’altra cosa. È il come l’importante, è la solita distanza fra l’idea e l’esecuzione.

Cito Carrère non a sproposito: in V13 decide di prendere una storia importante, una storia parte della Storia come il processo agli attentatori parigini del 2015. Non è Romand, non è Limonov, che prima di lui non conosceva nessuno. Prende una storia enorme e ci si mette in mezzo, prova a raccontarla da par suo.

Trovo quindi coraggiosa allo stesso modo la scelta di Labatut: affrontare la storia dell’uomo più intelligente del secolo scorso, uno che è meno uomo che meteora (sentenza, fato), destinato a illuminare con il suo passaggio tutti i continenti nell’arco della sua orbita. 

Una storia che di suo è incredibile, folle, e che in questi venti anni io ho trovato e ritrovato in diversi libri (fra le cose migliori scritte da Odifreddi, ci sono una manciata di articoli degli anni ’90 su matematica e Borges e uno dedicato a Von Neumann).

Maniac, anche solo nella parte centrale – che è poi quasi tutto il libro – è un Labatut maturo, che affronta il suo Moby Dick. Una storia perfetta per lui, che gli permette di toccare quasi tutti i temi scientifici più importanti del Novecento: la crisi dei fondamenti della matematica, la nascita della bomba atomica, la nascita del computer e della, conseguente, intelligenza artificiale. Ci sono Hilbert, Gödel, Russell, Einstein, Feynman, Turing, Cantor, Wigner, Ulam, Barricelli, Oppenheimer e molti altri.

Labatut è un ossesso vero, colora una storia già conosciuta e la vira e manipola come vuole lui, ma io non ho quasi avvertito, se non a tratti, l’invenzione pura. L’invenzione è ovviamente nel coro polifonico che ci racconta Von Neumann – lui non parla mai direttamente, come un buco nero all’interno del romanzo –, nel creare voci di persone realmente vissute, nel mettergli in bocca frasi che non hanno mai detto o che se hanno detto lui le torce come vuole, come un bonsaista crudele.

Labatut deve amare profondamente il principio d’indeterminazione di Heisenberg, perché tutta la sua letteratura abita lì: non si capisce se sia vera o falsa finché non si va a controllare. Solo in quel caso la funzione d’onda collassa, e capiamo o velocità o posizione della sua parola.

In questa indeterminatezza sta, secondo me, la sua originalità: io non ricordo altri che sia capace di usare la storia della scienza come se fosse mero materiale narrativo, come elfi e draghi per gli scrittori fantasy, o le corna fra professionisti quarantenni che vivono in appartamenti che non si possono assolutamente permettere per gli scrittori italiani.

E se questa è la sua originalità, il suo talento sta nel suo essere uno scrittore vero, capace di capire e poi saper mettere su pagina.

Molte volte, negli anni, ho provato a raccontare parte delle storie raccontate in questo libro: lui con un giro di frase fa meglio di quanto io sia mai riuscito a fare, all’interno di un’architettura lunga e complessa, polifonica appunto, fatta di voci diverse. 

L’appassionato come me queste storie le ha già lette in molti libri (non ultimo lo splendido La cattedrale di Turing di George Dyson, che Labatut poi cita direttamente nei ringraziamenti, e di cui parlai brevemente qui qualche anno fa). Ma mai così.

La sua poetica della follia, paradossalmente, mi interessa di meno, nonostante non sia meno importante e per lui stesso, probabilmente, la cosa fondamentale. Il motivo per cui Maniac è un trittico, e non solo la sua parte centrale.

Solo un ossesso vero potrebbe prendere una storia così importante e arrogarsi il diritto sacrilego di modificarla, farne ciò che fa lui. Labatut è – è sempre stato – blasfemo: dissacra la scienza per farne letteratura. Questo suo furore barbaro è condizione necessaria alla sua creazione, per cui va bene così. Credo sia il motivo per cui stia così antipatico a un certo tipo di lettore: me, ad esempio, la prima volta che l’ho letto.

In questo senso preciso, Labatut è un sacerdote della menzogna, antiscientifico: lui vuole dimostrare, come Lovecraft, che sotto la nostra realtà abitano i Grandi Antichi, e i suoi personaggi sono sì scienziati (fisici informatici ingegneri matematici) ma sono tutti prodigi, geni, folli, deviati, suicidi. Demoni. Se non lo sono stati nella realtà ne accentua la metamorfosi, li torce finché non gridano ciò che vuole lui. È l’inverso esatto della divulgazione scientifica.

È preso come narratore puro che tutto ritorna al suo posto.

Da lettore, e forse un po’ per vendetta, io mi arrogo il diritto di lasciare però le sue ossessioni in secondo piano.

Per la mia storia personale, per come sono fatto io, mi interessa quella zona di frontiera fra fiction e nonfiction, e quindi ho un interesse “tecnico”: come possa uno scrittore rendere così incandescente una biografia, regalare al lettore un paio di pomeriggi brucianti raccontando una storia che è in gran parte vera.

Mi interessa cioè la distanza fra questo libro e tutti gli altri che ho letto prima. Certo, erano libri che cercavano di spiegare, e questo ha altri obiettivi. Still.

La mia impressione – ed è un suo merito – è che Labatut capisca molto bene l’oggetto delle sue storie. La grande letteratura accade quando chi racconta le storie ha abitato un luogo, lo conosce nel profondo, ne sa cogliere e rendere le sfumature. Non credo che in molti sarebbero riusciti mettere in bocca a Szegő – l’insegnante di Von Neumann – queste parole:

Perciò sento di aver fallito con lui, di aver fallito miseramente in ciò che più conta: non sono riuscito a trasmettergli il senso della santità, della sacralità della nostra disciplina. Non gli ho insegnato cosa significa davvero «pura» in «matematica pura». Non è come pensa la gente. Non è conoscenza fine a se stessa. Non è una ricerca di modelli schematici, non è una serie di astratti giochi intellettuali del tutto sconnessi dal mondo reale e dai suoi tanti problemi. È ben altra cosa. La matematica è quanto di più vicino alla mente di HaShem possiamo raggiungere.

Non c’è solo la mano dello scrittore, qui, ma uno sguardo che la precede.

Forse, l’unico rimpianto è che abbia affrontato Gödel così, come un personaggio in secondo piano. ci speravo, sinceramente: avrebbe meritato di essere il suo capolavoro.

Per me, personalissimamente, forse il libro dell’anno. Ci penserò molto.

 

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