Massimo Raffaeli, esegeta del calcio
di Luca Todarello
Congedandosi dal suo Splendori e miserie del gioco del calcio, Eduardo Galeano si abbandona a un’intima, leopardiana, rivelazione: «E io resto con quella malinconia irrimediabile che tutti sentiamo dopo l’amore, e alla fine della partita». Accade per davvero, quando l’arbitro fischia tre volte e le sciarpe vengono ripiegate, che la mente del tifoso inceda nel ricordo e nella malinconia.
Un filo sottile unisce le parole del maestro uruguaiano alla pagina finale di Infiniti gol e altri scritti di calcio (Pequod 2025), l’ultima collezione di brani calcistici di Massimo Raffaeli, uno dei più raffinati esegeti di questo sport e uno dei suoi ultimi sismografi, appunto, sentimentali. Come per Galeano, anche per Raffaeli il calcio è «un’antica e privatissima utopia, il sogno di un ragazzo che vide nel gioco del pallone come un crisma poetico, l’emblema di un’altra e diversa armonia». Qualcosa dunque di sacro e dirompente che, come la letteratura, è capace di strappare l’anima al mondo per regalarle un’insperata parentesi di bellezza o per fornire strumenti estetici utili a guardare la realtà da un diverso punto di vista. In questo il calcio si fa parente stretto della poesia, come provò a dimostrare arditamente Pasolini nella celebre elaborazione teorica del “podema” come unità di misura minima del gioco.
Raffaeli, invece, non ha bisogno di ardire né di sperimentare. Quanto basta alla sua scrittura (Infiniti gol è – forse – il capitolo conclusivo della tetralogia inaugurata da L’angelo più malinconico e poi proseguita con Sivori, un vizio e La poetica del catenaccio) è la discesa nel rimosso calcistico per riportare alla luce campioni, giocate e attimi degni di sopravvivere alle declinazioni attuali del pallone. «È pensabile che il calcio di oggi sarebbe migliore se avesse più memoria. […] C’è infatti un’epica del calcio che in tutto corrisponde, o dovrebbe, alla cultura di un paese, e c’è una storia che purtroppo si è ridotta a un palinsesto graffiato e slavato, quasi completamente indecifrabile».
Quello che aiuta a emanciparsi dalla tossicità di uno sport in cui «il futuro sembra coincidere con la totale rimozione del passato» e, si potrebbe aggiungere, che tende alla spettacolarizzazione incontrollata, è il ricorso alla folgorazione del ricordo, proprio come quello che Omar Sivori esercita sull’autore attraverso una fotografia riprodotta in un poster. Dall’immagine dell’angelo dalla faccia sporca, colto «mentre sta per ricevere il pallone […] col suo piede sbagliato che è il destro», discende una prosa evocativa che, come un torrente, porta a valle i ricordi di entrambe le sponde, quella privata del tifoso e quella letteraria del critico.
In queste impressioni critiche, che coprono gli anni dal 2013 al 2024, Raffaeli, forte della sua lunghissima attività di studioso, critico letterario e traduttore, ricuce il rapporto tra calcio e letteratura, cristallizzato nelle figure di poeti come Saba e Sereni, di intellettuali “toccati” dalla passione per il pallone come Sermonti e Volponi, senza dimenticare le tre grandi firme del giornalismo sportivo italiano, Brera, Mura e Viola, quasi a ricordare il mitico Didì-Vavà-Pelé.
Fanno parte di questa intensa osmosi critica anche i ritratti di campioni che, viceversa, hanno saputo “dare letterarietà” al loro stile sportivo, alla loro vita agonistica. Raffaeli racconta come Alfredo Di Stéfano abbia rapito la sua fantasia di giovane tifoso e (sulla scia dei ricordi da blanco di Javier Marías) di come il campione del Real Madrid sia diventato «qualcosa di diverso da un mito e un evergreen, cioè, ancora una volta, e nella piena accezione, un classico del football». Il saggio su Enrico Albertosi e Dino Zoff si configura, invece, come un raffinato studio di “calcistica comparata”, poiché contrappone due portieri lontanissimi per peculiarità tecniche ed estetiche: «È come se EA amasse o mimasse il repertorio del Barocco, così prodigo di figure, così scintillante negli esiti prossimi al prodigio plastico e alla fantasmagoria, ed è come se invece DZ perseguisse l’ideale classico della misura, dell’equilibrio, dell’armonia». C’è spazio anche per un ritratto di Messi, dipinto come demiurgo di un Tango nuevo, «capace di dettare la nuova grammatica dei passi e delle figure fino a gesti di inaudita bellezza, proprio perché anticlassica».
Se il ricordo avvia la memoria, in Raffaeli questa non imbocca mai il sentiero della nostalgia ma sempre e solo quello della malinconia, per restare ancora sulla scia di Galeano. Leggere Raffaeli non è rassicurante: può trasformarsi in uno scomodo ma necessario esercizio di resistenza perché ci ricorda, quando seguiamo un’azione o attendiamo una giocata a effetto, che dietro ogni gesto tecnico può celarsi una storia, una vita, un paradigma culturale, oggi sempre più difficili da riconoscere e fare propri. Per fortuna che a raccontarli abbiamo ancora Massimo Raffaeli.