“Noi non abbiamo colpa”: il coraggio di raccontare la vecchiaia nel secondo romanzo di Marta Zura-Puntaroni
di Olga Campofreda
Se il coming-of-age è una forma racconto dall’infinito potenziale narrativo, sfruttato e sfruttabile attraverso innumerevoli varianti da ogni forma di narrazione esistente, sul coming-of-ageing, il racconto della vecchiaia, non può dirsi lo stesso. Riflettendo sulle ragioni per cui la vecchiaia venga preferibilmente scartata da autori ed editori, me ne vengono in mente almeno due.
In primis vi è la difficoltà di comunicare un tema di fatto poco attraente per gli standard contemporanei: il nostro mondo sta lentamente imparando ad accettare corpi di forme diverse, ma non è ancora pronto a superare i confini della giovinezza. In secondo luogo, la fragilità e l’invisibilità della terza età sono temi sui quali si tace per paura, preferendo così ignorare, rimandare con la speranza che non affrontandoli possano a un certo punto scomparire. È forse questa la ragione per cui non si è parlato abbastanza di Noi non abbiamo colpa, l’ ultimo libro di Marta Zura-Puntaroni edito da Minimum Fax nel 2020.
La storia è essenziale: Marta, alter-ego dell’autrice, è una giovane trentenne che rientra al paesino d’origine nelle Marche per aiutare sua madre Antea a prendersi cura della nonna malata d’alzheimer. Intorno a questa semplice linea narrativa si aprono riflessioni sul mondo di provincia, ma soprattutto sul rapporto tra tre generazioni di donne, la giovinezza, rappresentata da Marta, la maturità della madre Antea, e la vecchiaia di Carlantonia.
La scrittura di Puntaroni è poetica e brutale, eppure mai retorica. La nonna è raccontata come una vecchia detestabile già prima che la malattia venisse ad abitarne la testa, una donna cattiva e incattivita che induce alla fuga tutte le badanti assunte dalla famiglia per prendersene cura. La vecchiaia della nonna è raccontata da Marta come un’ombra silenziosa che induce madre e figlia a un forte senso di colpa per le rispettive vite; al tempo stesso, la giovinezza della protagonista incarna la parabola universale di tutti i nati degli anni ottanta: la condanna a vivere da un lato una precarietà che allunga il percorso verso l’indipendenza e l’età adulta, dall’altro il peso della responsabilità per la cura non di una, ma ben due generazioni più anziane.
Il corto circuito tra la definizione delle generazioni e quello che le generazioni sono effettivamente diventate, è ancora più evidente se si considera il mondo che fa da scenario a questo racconto. Il paesino delle Marche è un luogo cristallizzato, non toccato dal tempo: non è veloce come la città, ma è lento e uguale come le stagioni. È il luogo dove le donne sono anche un po’ streghe. Gestiscono maternità e nascite come un mistero protetto da una setta. Loro sono la setta: toccano la testa dei nuovi nati dopo avergli fatto un complimento, per allontanare l’invidia e alle bambine si regala sempre lo stesso anellino dorato, a forma di serpente con l’occhio di rubino, a indicare l’appartenenza alla congrega.
Il senso di colpa che Marta racconta ha molteplici fonti. In primo luogo, a contrasto con la malattia e con le preoccupazioni di sua madre, è la sua sola giovinezza a pesarle sulle spalle. Marta sente di aver mancato un passaggio: sente di essere fuori tempo massimo per rivendicare ancora la rappresentanza familiare della gioventù. Il paese le ha insegnato diversamente: a trent’anni Marta dovrebbe essere adulta, dovrebbe aver già partecipato a quel mistero della femminilità che, di conseguenza, l’avrebbe resa donna tra le donne. Come scrive Puntaroni, “A trent’anni la nonna dovrebbe essere quella che in verità è nostra madre, a trent’anni si dovrebbe stare al punto centrale della trinità bambina-donna-vecchia”.
Nel primo mondo in cui le nascite diminuiscono e gli anziani tendono a sempre maggiore longevità – non necessariamente accompagnata da una dignitosa qualità della vita – la cura passa ad essere appannaggio delle generazioni più giovani. L’alternativa, il compromesso per le famiglie che possono permetterselo, è costituito dal mercato delle badanti.
Il modo in cui il romanzo racconta l’avvicendarsi delle donne straniere al cospetto di Carlantonia è assolutamente inedito. Ai toni tragici dati da una situazione ingestibile, si affianca il comico ritmo di alternanze e successioni del personale straniero: un formicaio brulicante di vita, di codici e segreti professionali, storie di documenti e permessi di soggiorno, di nomi italianizzati per agevolare il cliente, di ex badanti ormai diventate manager che gestiscono nuovi flussi di donne dalla Moldavia, in un’Italia invecchiata che ne fa crescere la domanda.
Alla colpa della giovinezza si aggiunge allora anche quella del privilegio.
Con questo romanzo Marta Zura-Puntaroni colma con incredibile onestà quello che fin’ora era stato un buco narrativo notevole nell’immaginario letterario sulla provincia italiana. Non mi riferisco solamente alla narrazione della vecchiaia, ma in modo più vasto alla relazione inscindibile tra l’identità femminile e la responsabilità della cura, un binomio da cui gli uomini restano esclusi e su cui si appoggia in modo del tutto gratuito il resto della società produttiva. Ne deriva una narrazione intersezionale che coinvolge una molteplicità di protagoniste femminili, tutte differenti a loro modo, per generazione e classe sociale, tuttavia ciascuna schiacciata sotto il peso di un ruolo sociale imposto come attributo di genere.