“Noi senza mondo”, il nuovo libro di Laura Pugno

di Mario De Santis

William Hurt e Solveig Dommartin corrono, fuggono fino alla fine del mondo nel film omonimo di Wim Wenders del 1991. La complessa epoca post-storica che si apriva in quegli anni, ne proclamava il Finisterre perché esauriti i modi di immaginarla come destino progressivo e governabile. Oggi forse a finire è un intero mondo, quello occidentale che si è fatto globale, fase estrema di una modalità storico evolutiva chiamato “antropocene”.

È necessario un ripensamento radicale non solo della storia, ma dei paradigmi con cui la specie umana non ha solo indirizzate le “sorti progressive” ma ha impostato il suo rapporto con la natura e gli equilibri sociali che la specie si è data. Scienziati, antropologi, filosofi ma anche biologi e fisici stanno costruendo – attraverso nuove ricerche e scoperte – un diverso modo di leggere questa fase, sia storica che evolutiva. Agli artisti il compito di creare immagini, metafore, immaginare nuovi mondi.

Laura Pugno, con il nuovo libro “Noi senza mondo”, focalizza la sua attenzione di scrittrice poeta e saggista e la sua ricerca di anni, nel cuore di questa crisi. Un libro che raccontando come va formandosi il libro stesso che scrive (e che noi leggiamo oggi pubblicato da Marsilio) e ogni altro libro possibile, immagina una scrittura nuova, facendo della scrittura stessa sia il metodo che l’approdo del necessario ripensamento dell’immaginario. “Noi senza mondo” è un ponte dalla ricerca di anni (con i suoi romanzi, poesie e anche saggi) e una scrittura verso. Ingloba un’andatura riflessiva e metaletteraria, ma è pubblicato nella collana “Romanzi”, perché attraversando un repertorio di letture, in gran parte saggistiche e filosofiche, contiene una corrente carsica narrativa e – in modo inedito – anche autobiografica, nel suo squadernarsi in forme aperte, di tessere che si incastrano sulle pagine dei capitoli, come fascicoli di un quaderno senza centro: “Cos’avviene, nel centro di questa storia? Cosa ti aspetti, l’avventura, la peripezia? Ma vedi, non avviene, e se avviene, è interiore. Non perché in assoluto non possa avvenire. Ma perché qui, l’avversario o, peggio, il nemico, è all’interno”.

L’epos è della mente e l’avventura romanzesca non può che essere interiore anche se non riguarda la centralità di un “io”, da superare a favore di un “noi”, parola chiave nella sua recente produzione. In “Noi senza mondo” apre la scena il resoconto di ritrovamento di un libro che sembra antico, perché è la Nuova arte della guerra di Sun Tzu, e nelle modalità non testuali, ma di libri che, racconta la voce narrante, vivevano dentro piccole comunità, forse sopravvissute, riunite attorno a “piccoli leader carismatici”, che “diventarono libri”.

Uno di questi gruppi si riunì attorno a L’ultimo dei Mohicani. Dentro questa architettura di finzione, la voce narrante getta la stessa autrice, che legge da adulta nel 2006 il libro di James Fenimore Cooper, un classico ottocentesco di avventura, che diventa una “scatola nera” che irradia la sua energia su un modo in cui “accade la fine”, quello personale dell’autrice e quello del tempo storico che tutti noi viviamo.

Un libro-stele che a sua volta contiene la fine di un mondo (la sua trama è nota, l’estinzione di un ceppo di nativi americani a causa dell’invasione di occidentali, francesi e inglesi a fine ‘700) che si proietta come un libro che apre la strada al libro che l’autrice vorrebbe scrivere (e che sta scrivendo in questa forma di appunti). Che l’epoca in cui è scritto The Last of the Mohicans sia anche quella per convenzione dati l’inizio dell’Antropocene, innesca la prima di numerose analogie e connessioni che il libro genera, spia di un orizzonte degli eventi storici che riguarda anche il nostro tempo, un futuro che è già accaduto.

Pugno la paragona all’inframince (termine coniato da Duchamp) linea d’ombra tra ciò che è appena ancora percepibile e ciò che è già impossibile percepire, compresenza di tempi, di immaginazione e di possibilità di sguardo sul reale che accade proprio nella nostra avventura interiore. È un evoluzione della ricerca di Pugno (torna qui nel nome di un personaggio, Cora, come uno dei personaggi di Cooper). Lutto personale e sguardo sull’epoca guidano Pugno a ragionare sulla scomparsa: ne L’Ultimo dei Mohicani anche il mondo indigeno è legato alle foreste del Nord America, che Cooper immagina a Parigi nel 1826 dove scrive, forse memore della foresta di Broceliande, quella della leggenda arturiana, oggi bosco scomparso, ancora di più di quanto lo fosse ai tempi di Cooper.

Pugno intreccia l’allarme per l’ecosistema di oggi in una serie di echi e scintille di futuro che il passato già conteneva, così come avviene incastonando nella costellazione anche il vero libro amato nell’infanzia dalla scrittrice, ovvero Popoli scomparsi, libro divulgativo degli anni 70. Pugno apre prismi o frattali di testualità nelle relazioni tra testi che in qualche modo contenevano una “aura” di futuro. Già in quello come in libri recenti, compare l’Amazzonia, che è per noi come Brocelandie, foresta-mito, che scivola nell’ombra – Pugno lavora da anni sull’allegoria vegetale, tra tutti un romanzo recente che qui ritorna “La metà del bosco”).

Foreste, boschi, “terzo paesaggio”, tutte le forme di vita vegetale che sono  “la pianta del mondo”, definizione che Pugno riprende da Stefano Mancuso, ovvero la rete di piante collegate da una miriade di storie, depositate nella fitta relazione di informazioni che le piante (è scoperta recente) scambiano tra loro. Il sistema vegetale è ancora l’85% della biomassa della terra, a fronte dello 0,3% di “noi animali”. Questo ribalta la narrazione possibile e forse non sarà il popolo degli alberi a scomparire, ma i Sapiens che ora li feriscono, ma che – ipotizzano i biologi – si salveranno grazie alla forza di piante invasive, grazie all’energia del selvaggio.

Sono tanti i tempi che Laura Pugno immette in questo libro che si potrebbe definire di letteratura, ma non letterario se con questa parola intendiamo un’adozione di stilemi forme e poetiche già dati. Proprio come il pianeta, colto in una fase di crisi e metamorfosi, Pugno si avventura in una scrittura che non vorrebbe essere tale, che sembra volersi scrollare le identificazioni di genere e il suo limite di segno. Un’utopia verso cui tende il divenire in atto della sua ricerca, mostrato in fieri in “Noi senza mondo”. Tra biologia, clima, evoluzione, poesia, filosofia, la scrittura cerca un modello inaudito, proprio in ciò che di nuovo sappiamo. Ad esempio che le piante sono oggi il vero “Sussurro del mondo”(dal libro di Richard Powers che Pugno indica come altro libro-cardine).

L’utopia teorica e immaginifica insieme, per la poesia, scrive Pugno,  è quella di giungere a una “parola-foglia”, così come a un’umanità diversa –  i “non-contattati” che abitano regioni remote, mai entrati in contatto con l’antropocene , sono il modello di popolo opposto agli scomparsi, sono i “non ancora apparsi”. Pugno ha un’idea alta della letteratura, capace di contribuire a una rivoluzione necessaria dell’immaginario a partire però da quello che la stessa scienza ci indica. Immaginare già ora un (nuovo) mondo per il “noi” che ne sarà privo, a breve. Lo fa guardando a processi di ibridazione, dissoluzione e compost che indica la filosofa Haraway, o ai funghi Matsutake, i primi a vivere nell’area di Hiroshima dopo le radiazioni.

Qualcosa che non è stato ancora pensato, che emerge da ciò che è scomparso. Più che la prospettiva catastrofica del mondo senza noi che alcuni scienziati evoluzionisti ipotizzano, su un pianeta in cui la vita proseguirà non contemplando la specie Sapiens, Pugno indica “l’avventura interiore” che ci attende, magari recuperando dall’archivio l’ombra dell’epos romanzesco, entrando in territorio selvaggio. Non per conquistarlo ma per esserne assorbiti, in una interessante prospettiva neo-animista. Il libro si ferma su questa soglia, restando aperto verso quell’orizzonte degli eventi che potrebbe essere un futuro e che tuttavia accade già nella trasformazione interiore  che si innesca in noi, anche attraverso la poesia, la letteratura, e che ci fa comportare “come un futuro” che sarà, il futuro di noi, i senza-mondo.

 

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