«Ricordo che mi stavo portando il bicchiere alle labbra quando ho sentito un dolore lancinante alla schiena. Un dolore che da sinistra si irradiava dovunque. Ho udito un urlo disumano, non lo riconoscevo, quasi fosse un altro, e non io stessa, a gridare. Mi sono voltata. L’uomo teneva un coltello con entrambe le mani, lo stava alzando, aveva un cappellino da baseball in testa e uno strano ghigno sul volto arrossato. Stava cercando di colpirmi di nuovo. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Non so ancora come sono riuscita a buttarmi a terra mentre lo guardavo. Una guardia gli è balzata addosso, lo ha bloccato con una presa alla gola. Ero stata pugnalata».
Era il 30 aprile 1993 quando, durante i quarti di finale del torneo di Amburgo, la tennista Monica Seles venne aggredita alle spalle da Günter Parche, un tedesco ossessionato da Steffi Graf. Non accettando che alla sua beniamina fosse stato sottratto il trono del tennis mondiale, decise di restituire il primato alla Graf accoltellando la sua avversaria. Il 30 aprile 1993 coincide anche con uno dei più clamorosi what if della storia dello sport. Cosa sarebbe successo senza quella pugnalata? Monica, che aveva appena diciannove anni e aveva già vinto otto titoli dello Slam, sarebbe diventata la più grande tennista di tutti i tempi? Nessuno può dirlo.
Quello che è certo è che nel marzo 1991 Monica era diventata numero al mondo e per due anni non fu solamente imbattibile (se si esclude Wimbledon, dove non è mai riuscita a trionfare) ma contribuì anche a portare il tennis verso il futuro. Ad Amburgo era arrivata con l’incredibile record di trentatré finali disputate negli ultimi trentaquattro tornei giocati.
Un pregevole libro di Davide Morganti, “I destini di Monica Seles”, recentemente pubblicato da 66thand2nd, racconta l’ascesa, la caduta e la difficilissima risalita della formidabile slava, offrendo un ritratto che va al di là dei confini dello sport per abbracciare la peculiare situazione geopolitica conseguente alla disgregazione dell’Unione Sovietica prima e della Jugoslavia poi, il momento di passaggio del tennis e dello sport tutto, destinato sempre più a generare stelle, soldi, ma anche pericolosi fanatismi. Monica Seles si fece conoscere al mondo del tennis in tale contesto storico e la sua apparizione fu un vero e proprio shock.
I puristi del gesto bianco ebbero certo più di una difficoltà ad amarla e i motivi sono sostanzialmente tre. Innanzitutto lo stile tutt’altro che ortodosso, il suo anticipo infernale e il gioco bimane sia di rovescio che di dritto (quadrumane, per prendere in prestito la definizione di Gianni Clerici). Sicuramente uno stile poco elegante se paragonato a quello delle altre stelle dell’epoca, Graf, Navratilova e Sabatini in testa, ma molto più efficace e in grado di imporre un modello per gli anni a venire. Il secondo motivo è il grugnito che Monica era solita emettere ogni volta che colpiva la palla, quell’urlo che poi è diventato quasi una costante nel tennis sia femminile che maschile e che per Monica rappresentava un elemento non scorporabile dal suo gioco, qualcosa di estremamente violento che faceva pensare al celebre dipinto di Munch o alla voce di Robert Plant in Immigrant Song e che per un certo tennis non era contemplabile: in America iniziarono a chiamarla Moan-ica, a Wimbledon ad un certo punto le imposero di non grugnire durante il gioco. Il terzo motivo è legato alla narrazione dominante all’epoca, che voleva Monica non solo avversaria ma vera e propria nemesi della Graf: da una parte la composta e statuaria tedesca, rispettosa di tutti i dettami del bel tennis, dall’altra l’impetuosa e famelica serba fuori da ogni canone stilistico. Soprannominata anche la Belva di Novi Sad, in effetti Monica faceva davvero poco per aggraziarsi le simpatie del pubblico. Animata da un furore agonistico impressionante, da un freddo istinto da killer e addirittura dallo stesso odio per l’avversario teorizzato da Maureen Connolly (vincitrice dei quattro tornei del Grande Slam nel 1953, prima di smettere con il tennis a soli diciannove anni dopo una rovinosa caduta da cavallo, soprannominata Little Mo, altro nomignolo che qualcuno affibbiava anche a Monica): non si può essere amici nello sport, perché verrebbero meno l’isolamento da tutto il resto necessario per trovare la concentrazione e la rabbia agonistica indispensabile a superare l’avversario costi quel che costi. Federer e Nadal (e anche Sinner e Alcaraz), in questo senso, sono lontani anni luce. “Nelle due Little Mo possiamo leggere la categoria di amico-nemico del giurista tedesco Carl Schmitt”, scrive Morganti. “Il nemico politico è l’altro, der Fremde, ossia ciò che è diverso da noi. Ecco, Monica, senza saperne niente, sul campo si è ritrovata a incarnare la filosofia giuridica di Schmitt: l’altra è ciò che si oppone al mio cammino, alla mia vittoria, è un ostacolo che deve essere superato”.
Ci sarebbe anche un quarto motivo per il quale Monica non era granché amata e cioè che i serbi negli anni novanta erano visti se non come il male d’Europa almeno come la causa del disastro balcanico e, anche se la tennista e la sua famiglia erano di origini ungheresi e in procinto di prendere la cittadinanza americana, non furono certo esenti da pregiudizi e anche da un certo odio razziale, come quello che sicuramente albergava dentro la mente disturbata di Parche. Allo stesso tempo l’ammirazione non arrivava nemmeno dai serbi, che accusavano la famiglia Seles di antipatriottismo.
Monica tornò a giocare dopo due anni di assenza, caratterizzati dalle crisi di panico e dalla bulimia. Non furono le conseguenze fisiche della ferita inferta dal coltello di Parche a bloccare la campionessa, ma quelle psicologiche. Improvvisamente Monica si era ritrovata senza l’unico posto al mondo in cui si sentiva sicura, il campo da tennis, aveva la sensazione di essere stata privata del suo spazio vitale e non sapeva più come muoversi nemmeno nella vita di ogni giorno, se non era più diventato possibile dare le spalle a qualcuno in un bar o rispondere al saluto di un fan senza cadere preda di un terribile senso di soffocamento e di morte. Un’ulteriore batosta psicologica fu il processo a cui fu sottoposto Parche, che si concluse con una condanna a due soli anni, sospesi con libertà vigilata.
Nella sua carriera post-aggressione, Monica non fu più la stessa. Siccome aveva doti eccezionali, riuscì a vincere molti altri tornei, ma la belva aveva in qualche maniera esaurito la sua insaziabile voracità. Nel gennaio del 1996 conquistò un nuovo titolo Slam a Melbourne, illudendosi che ce ne sarebbero stati altri, non sapendo che invece sarebbe stato l’ultimo. Quando nella primavera dello stesso anno uscì ai quarti di finale del Roland Garros, il suo torneo preferito, dove aveva trionfato per tre edizioni consecutive nel 1990, 1991 e 1992, commentò che si era trattato solo di «una brutta giornata» ma sentì morire un altro piccolo pezzetto di sé. L’ennesimo pezzetto inghiottito dall’angoscia che si era presa la sua vita a partire da quel maledetto 30 aprile 1993.
Pierluigi Lucadei, marchigiano, è nato a San Benedetto del Tronto nel 1976. Giornalista, critico musicale e scrittore, collabora con «Il Mucchio Selvaggio», ilmascalzone.it e «Rivista Undici». Suoi racconti sono apparsi sulle riviste «Cadillac» e «Achab». Ha pubblicato «Ascolti d’autore» (Galaad, 2014) e «Letture d’autore» (Galaad, 2016).

per certi versi l’atteggiamento ostile verso la Seles è simile a quello che tocca al giocatore più vincente della storia, anche lui guarda caso serbo…
Personalmente credo invece che Monica Seles sia amatissima, ancora oggi. Probabilmente nei primi folgoranti anni di carriera non lo era tanto…e per le ragioni che sono state esposte ( stile di gioco, grugniti, Paese di provenienza). Tuttavia, dopo quella terribile aggressione, le cose sono cambiate decisamente: tutti i fans hanno empatizzato con lei e hanno fantasticato su quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Diciamo che per molti la Seles è rimasta un mito, trasformandosi dalla meno amata alla più amata.