Nel saggio recentemente uscito per Nottetempo, Critica della vittima, Daniele Giglioli affronta gli aspetti legati a un paradigma paralizzante – “non siamo ciò che facciamo ma ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto” –  per definire su nuove basi il rapporto tra il soggetto e il resto del mondo, “in credito di futuro, non di passato”. Leggere in tale ottica Perché tornavi ogni estate (trad. Amaranta Sbardella, La Nuova Frontiera, 2022) rivela la volontà della sua autrice di superare stereotipi legati alla condizione di vittima di violenza sessuale per rendere la vicenda personale un manifesto politico ancor prima che un’opera letteraria.

Belén López Peiró identifica nella scrittura un mezzo per contrastare la dissipazione interiore generata dalla solitudine del perseguire una battaglia per i diritti. Nei suoi laboratori di non fiction con una prospettiva di genere sollecita una condivisione collettiva attraverso la scrittura come antidoto all’omertà. Il titolo del  romanzo fa riferimento alle recriminazioni subite da parte di suo zio, che abusò sessualmente di lei dall’adolescenza sino alla maggiore età, con la presunzione di impunità. È una tredicenne priva di riferimenti oggettivi, si sente abbandonata da una madre assente e da un padre dalla salute cagionevole. La sua fragilità la rende il soggetto ideale per chi sa come manovrarne la volontà con il ricatto generato dai piccoli privilegi, l’ospitalità, il cibo, i vestiti nuovi, le continue attenzioni. La casa di Santa Lucía che ogni estate la accoglie è il tetro scenario di una consuetudine che si ripete, con la consapevolezza da parte del carnefice di non subire alcuna conseguenza in virtù dell’aiuto riservato a quella nipote di Buenos Aires ricoperta di premure per poi essere molestata di notte, nel silenzio complice degli altri componenti della famiglia.

Lo sconcerto provato nell’essere parte di una scena terribile e incomprensibile sancisce la perdita dell’innocenza e genera il trauma. Quella giovane donna continuerà a vivere ingabbiata in quell’istante che decretò la fine dell’infanzia, uno spettacolo dell’orrore che si rinnova nella memoria, nella paura perenne.

Perché tornavi ogni estate è un furente atto di denuncia che non si riduce alla realtà argentina, alla sua società e alle falle del suo sistema giudiziario ma intende scardinare un silenzio atavico sulla violenza sessuale infantile. Il romanzo fa luce su un atto di potere perpetrato non solo attraverso la forza fisica o le minacce, ma con modalità subdole legate allo status, all’influenza sugli altri, al ruolo professionale e al rapporto di parentela.

Il trauma che prende forma tra le pagine genera una frattura, un terrore oscuro nella convinzione di una generale incomprensione anche a causa della notorietà del suo vessatore, del potere esercitato all’interno della polizia e della fama di persona sensibile e attiva nel sociale. Omertà e finzione coprono una vicenda che prende corpo solo di fronte alla decisione di esternare quel che accade e denunciare la violenza.

Belén López Peiró sviluppa una vicenda privata per renderla portatrice di innumerevoli altre storie senza nome. La scelta formale rivela l’intento di concepire come collettiva la causa per i diritti. Un romanzo polifonico in cui confluiscono volti, luoghi, atti giudiziari e moti interiori per narrare l’egemonia dell’impunità, l’indifferenza, il rifiuto, il discredito. Un cinismo che accomuna conoscenti, famigliari, giudici, avvocati e assegna responsabilità a chi subisce violenza. Ogni figura fa un passo avanti nella scena, parla e offre una versione della realtà deformata dall’opportunismo o dall’asservimento al sistema patriarcale.

Assegnare pari importanza a ogni voce del romanzo misura il racconto di un crimine non solo sulla base della sua efferatezza ma nel peso che assume attraverso le parole di chi deve confrontarsi con quell’evento drammatico. La complicità con la violenza prende forma nell’inettitudine di una pediatra incapace di riconoscere una lacerazione vaginale, nelle domande faziose, nell’indolenza di un avvocato pavido, nella difesa cieca di nonne, cugine, zie, irreparabilmente assoggettate a loro volta. Nel romanzo i ricordi rappresentano al tempo stesso risorsa e conflitto: la memoria è conoscenza, seppur nell’evidenza della sua natura ingannevole.

“Ogni volta che credo di averci messo il punto, di aver detto tutto quello che dovevo dire, in qualche modo rivive. Rivive in ogni voce che somiglia alla sua, in ogni foto della mia infanzia, nei ricordi con la mia famiglia, nel paese in cui ho mosso i miei primi passi. Rivive ogni volta che salgo su una bici o mi dondolo su un’altalena, quando arriva l’estate e mi manca il semolino che preparava la zia. Tuttavia rivive pure negli incubi, nei graffi sul mio corpo, perfino nel dolore delle donne che ascolto e condividono il mio stesso vuoto. Rivive ogni volta che in televisione vedo un’arma, quando qualcuno mi guarda il sedere o mi chiede se sto meglio”.

Le descrizioni dei luoghi, la loro natura accogliente e spettrale, generano riflessioni sull’identità, sulla visione della maternità come sacrificio, sulla labilità delle relazioni, per interrogarsi su pregiudizi da superare per concepire un reale cambiamento di visione.

“Chiamarle vittime significa fotterle un’altra volta. E un’altra ancora. Significa convincerle che gli hanno distrutto la vita, che la loro storia inizia e termina lì, con il tizio dentro.  Gli fanno credere che esistono solo a partire dal momento in cui le ha stuprate, che la loro identità si costruisce a partire dalla violenza subita, che i loro diritti sono stati lesi e nessuno potrà più assicurargli che non accadrà di nuovo. Le convincono a chiudersi dentro casa per proteggersi, a serrare le gambe, le persuadono che sono loro le responsabili e che per questo meritano una simile punizione. Sì, perché prima sono vittime di lui e poi di sé stesse: quando dentro lui ha finito, sono già pronte a mettere fine alla merda che gli è rimasta, la loro vita”.

Proprio attraverso l’esperienza della privazione dell’innocenza, la protagonista riflette sul significato dell’esilio, un esilio da sé anche in rapporto a ciò a cui sta rinunciando e che si dissiperà inevitabilmente. Centrale il racconto dei dolorosi tentativi di rinascita collegati a un trauma, la sua macchia, il vincolo generato e la ricerca di un’espiazione. La prosa limpida e il linguaggio esatto riannodano i fili di un orrore e ispezionano il contesto in cui ha preso forma. L’indagine fisica definisce una privata sofferenza, misura lo stadio di una metamorfosi che si nutre di incertezze, rivendica la paura anche nel definire il rapporto con l’altro.

Perché tornavi ogni estate è un romanzo civile il cui valore testimoniale risiede nella capacità di rendere l’esperienza del dolore il prisma per osservare la società contemporanea argentina e indagare in senso più ampio la deriva generata dalla presunzione di colpa di una vittima. Il realismo e il nitore di confessioni, riflessioni e dialoghi richiama un’esortazione rivolta al lettore, fare propria quella denuncia e scorgere così un’utopia da difendere.

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

Articoli correlati