Quando non c’è la salute c’è lutto: sull’ereditare dolori altrui

di Stella Margoni

Non è certo per segnare la cifra affettiva delle poche righe a seguire che qui si partirà dalla definizione del lutto: significato che ahinoi non sfugge di certo, ma il cui universo semantico sarà bene estendere un poco. Affidiamo ad un pugno di lettere – tre, a fare da sinistra cornice al suono sordo della doppia dentale – il compito ingrato di racchiudere l’espressione altissima del dolore, che più che perdita rimpianta o mancanza a essere, evoca le sorti uterine del travaglio: contrazioni multiple, dilatazione cervicale, espulsione del nascituro con tanto di annessi umidicci e maleodoranti. Per paradosso, il più definitivo dei congedi ha tutte le sembianze del venire al mondo, scandito com’è da un equilibrio finissimo di forze meccaniche e biochimiche, in cui si opera una recisione irreversibile che, sola, conferisce autonomia all’individuo: i polmoni si liberano, espellono le sature acque materne e inghiottono avidamente il primo boccone d’aria. E quanto meglio sarebbe se lutto fosse sinonimo incolpevole di perdita. Ma no: lutto è permanenza, venuta al mondo, costante ritorno a essere. Lutto s’appropria dell’eco etimologico del verbo lugere, che fa vanto di una componente attiva: proprio come nel pianto la secrezione lacrimale segue circuiti emotivi corticosottocorticali che, mediante propaggini del sistema neurovegetativo, transitano per la coscienza, così del lutto quel che più conta è il canale.

Ed è questa risignificazione attiva del lutto che più colpisce in L’eredità emotiva. Una terapeuta, i suoi pazienti e il retaggio del trauma (Raffaello Cortina 2022), di Galit Atlas, psicoanalista di madre siriana e padre iracheno, volata nel formicaio caotico newyorkese da un Israele che descrive come raccolto attorno a un’eredità nazionale scandita da un dolore un tempo strepitante e ora forse più sordo, ma sempre viscerale. Atlas verga un manifesto del lutto che della perdita fa superficie da scrostare pezzo pezzo per ritrovare lacerti di storia personale combinati come matriosche variopinte, segretamente cave e prigioniere a loro volta, verità oscure difficilmente tracciabili, cupe testimoni del passaggio intergenerazionale, celate da meccanismi di difesa emotiva che, pur deprivandole del significato e sfumandone i contorni, sono comunque incapaci di silenziarne le risonanze.

Quella di Atlas è una delicata inchiesta sulla qualità dissimulatoria del lutto, descritto dalla psicoanalista di Tel Aviv come qualcosa che ritorna proprio quale bimbo in fasce tirato fuori tra il rilascio di ossitocina e picchi di cortisolo: insomma, una fatica segnata da un’atmosfera in cui il fisico e lo psichico si uniscono nell’umorale e nell’ormonale. Questo il crittogramma contenuto nel titolo: qualcosa di traumatico che “ereditiamo, tratteniamo ed elaboriamo”, che pure “non abbiamo vissuto in prima persona”, ma che pesa come un “presente […] non completamente conosciuto” (p. 19).

Una pesantissima eredità proclive al nascondimento e alla mimesi, non tanto nella vita dell’inconscio individuale (certo presente come immancabile co-protagonista), quanto nella trasmissione intergenerazionale. Per darne conto, Atlas affresca una serie di vignette cliniche in cui, assieme ai suoi pazienti, isola quelle tracce che, passando per il vissuto delle generazioni che li hanno preceduti, segnano la biografia individuale di chi l’eredita. Un esempio delle molte storie raccontate con un trasporto che sembra denunciare una qualche rottura del protocollo di distanza dal paziente è quello di Jon. Una storia che più di altre irretisce nella sua capacità di parlarci: parlare a noi e parlare di noi. Jon è un bambino cui è stato requisito persino il diritto di averlo, un lutto. Zavorra innecessaria nella liturgia del pianto. Questi, in breve, i fatti. Jon, padre di una neonata, sulla strada del lavoro si sente chiamare dalla moglie, in preda al panico, perché si prenda cura della figlia caduta dalle braccia materne e rimasta in terra del tutto areattiva. Al suo arrivo, la bambina è in buono stato, ma assai meno buono quello di Jon, che si ritrova al punto d’inizio del suo personalissimo travaglio psichico. Nel colloquio terapeutico con Atlas, Jon si descrive come quinto dei figli in una famiglia che aveva esperito il dramma della perdita poco a ridosso della sua nascita. Jon è poco più che neonato mentre la sua famiglia è segnata dalla morte improvvisa della sorella maggiore. Gli è sbarrata la strada del lutto, inteso come sofferenza compartecipata per l’elaborazione più o meno efficace di un dramma che è meno dramma se collettivo. Egli si trova così escluso, senza neppure poterlo volere, dalla cerchia di affetti raccolti attorno a una pratica atavica e, a dispetto di tutto, capace di secernere solidarietà.

Per una perdita che giocoforza non può rivendicare, Jon è escluso dalle forme più intense di partecipazione e assieme al dovere della sofferenza perde il diritto di cittadinanza nel microcosmo familiare. Non potendo perdere ciò che gli altri hanno perso, egli perde la possibilità di ritrovarsi nel nome di quella perdita. Per il resto della sua vita, egli si sentirà come un ospite non desiderato, privo di un’identità che gli altri si sono prodotta nel comune compianto, e, per una miscela di ironia e perfidia, gravato dal senso di colpa per esser stato fuori da un dramma collettivo che per lui non prevedeva alcuna parte.

Con affreschi rapidi ma sensibili al dettaglio, Atlas ricostruisce l’esperienza del lutto al negativo come un’esclusione che costitutivamente impedisce a Jon di mettere in parola il trauma, di riconoscerlo, e dirlo, quale elemento che, non detto, s’infiltra in ogni piega della sua esistenza e lo costringe a una vita al margine, relegato nelle note a piè pagina di un romanzo popolato da altri. La caduta in terra della figlia è l’occasione per un viaggio a ritroso, per ritrovarsi nel giorno della notizia della morte della sorella: il collage dei ricordi riferiti dai fratelli – e Atlas insiste a più riprese su questo farsi ricettore di ricordi altrui, perché di essi non c’è memoria – permette un accesso parziale a frammenti di vita altrimenti sigillati in un altrove inaccessibile: la sirena squillante dell’ambulanza, l’ufficiale a dare la notizia, il senso di terrore, la madre che, precipitatasi alla porta, lascia che il figlio in fasce, Jon, le cada dalle braccia.

Le indagini di Atlas sono tutte orientate in tal senso. Scena dopo scena, nei dolorosi nodi emotivi dei suoi pazienti separa le minutaglie dalle minuzie, cioè quelle non trascurabili presenze che prendono le sembianze di manifestazioni sintomatiche: mal di testa, ossessioni, fobie, insonnia. Ma se questo, si dirà, è il ferro del mestiere della psicoanalisi, Atlas, con un’ammirevole sortita nell’epigenetica, vi aggiunge un senso di sopragenerazionalità. E così si congeda da un’inveterata attitudine clinica che considera gli eventi (psichici e non) come racchiusi nel perimetro di una biografia individuale, e li reinserisce nel viluppo indefinito di legami con tutto un universo di biografie famigliari. A tal proposito, Atlas richiama Yolanda Gampel quando parla di radioattività del trauma: eventi traumatici, intesi quali nuclei atomici instabili, emettono, nel loro decadere, radiazioni ionizzanti che, incolori e inodori, si diffondono capillarmente nelle generazioni successive sotto forma di terrore senza nome.

Come per i fenomeni studiati dalla fisica, il processo prosegue, con velocità distinte, finché gli elementi via via prodotti, a loro volta radioattivi, non raggiungano una condizione di stabilità. Ma, ammonisce Atlas, occorre recidere tale catena di decadimento, per separarne il raccomandabile surplus di elaborazione preconscia dagli esiti che invece vincolano il nostro vissuto presente a rimossi che neppure ci appartengono, che spesso precedono la nostra venuta al mondo. Il metodo dettagliato da Atlas è del massimo interesse: la raccolta, e quindi l’analisi, dell’eredità emotiva, che l’autrice intende come movimento verso la rottura del “ciclo del trauma intergenerazionale”. Se l’accesso al trauma è consentito attraverso il recupero non già di un materiale rimosso cui il paziente ha accesso, ma di materiale che a questi non appartiene, il quadro indagatorio non potrà che estendersi. Ne sortisce un’idea di terapia analitica come una sorta di epopea in miniatura: si raccolgono genealogie legate a nomi e luoghi, si richiamano esperienze con gli strumenti della microstoria, si ricalcano discorsi non nostri, ma di maggiori più o meno prossimi. Insomma, il quadro attoriale prolifica e, come metodo e misura, rigetta il concepimento del paziente quale terminus a quo.

Questo spiega l’analogia, o meglio, la correlazione genetica, tra il trauma e il lutto: qualcuno non c’è più, qualcuno che conserva però una chiave d’accesso a chi siamo, una chiave che possiamo consegnare a un ricordo denegato, oppure cercare di recuperare come parte di un armamentario consapevole e a disposizione. Detto con le parole di Atlas, fare dell’esperienza traumatica non qualcosa che si sia costretti a rivivere in continuazione, sotto forma di ineffabile compulsione, ma una “storia da raccontare” (p. 114). Insomma, si tratta di un riconoscimento lucido che faccia strada al successivo adattamento alla perdita, tappa essenziale nella risoluzione del trauma. Qualcosa certo permane, come il dolore per la perdita – non però come ombra inquieta e querula, ma come voce che si unisce a una polifonia canora in cui ogni voce è pienamente riconoscibile, in una partitura che non prende avvio con noi né con noi finisce.

Al netto dei fini lieti, che abbondano sino ad accendere il sospetto di un irenismo un po’ forzato, il monito di L’eredità emotiva è da tenere in conto. Se mai occorressero conferme alla ridda di studi che in fisica, in chimica, in biologia, alleate in questo alla filosofia e alle neuroscienze (alcune, si sa), il libro di Atlas, quale esemplare di una tendenza in psicoanalisi, mostra che il soggetto non appartiene mai del tutto al perimetro della sua esistenza individuale. Qualcosa lo precede e lo supera, qualcosa che non è inscritto in un vago ordine simbolico né in generici soggetti al plurale, ma in chiari e identificabili legami intergenerazionali, che si propagano secondo linee individuabili con gli strumenti e i metodi della terapia psicoanalitica. Qualcosa quindi che il soggetto, dentro l’analisi, può fare interamente suo, nella chiara consapevolezza che questa proprietà è sempre una comproprietà: beni (talvolta costosissimi) che si ricevono senza merito, e che ci chiedono una disponibilità alla ricezione tutt’altro che passiva. Ne emerge un’immagine della vita come processo permanente, di trasmissione concretissima, i cui passaggi, per loro naturale tendenza sottaciuti e sfuggenti, vengono riportati in superficie nel rapporto di fiducia con la terapeuta, che, col fare del notaio, rende pubblico un lascito. Non stupirà, quindi, che ci siano tasse da pagare.

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