
Maurizio Serra, Il caso Mussolini, Neri Pozza
Ex ambasciatore, membro dell’Académie Française, autore di meravigliose e documentate biografie (Malaparte. Vita e leggende, Antivita di Italo Svevo o L’immaginifico. Vita di Gabriele D’Annunzio), Maurizio Serra dedica, sotto invito di un editore francese (Le Mystère Mussolini, Perrin), l’ultimo suo lavoro a Benito Mussolini e lo fa con un libro che diventa imprescindibile per chiunque si interroghi sulla sua figura e su ciò che di quella esperienza è rimasto nella società italiana. Prendendosi carico di molta letteratura, intrecciando questa con una lettura serrata degli eventi e dei caratteri di Mussolini, decostruendo molte idee ormai date per scontate e poco discusse (come quella che il fascismo sia nato per reagire alla fragilità della società italiana del 1918 quando in realtà se ne servì per raggiungere il potere) e dando ampio spazio a importanti riflessioni sulla politica estera dell’Italia fascista, Serra costruisce un ritratto di Mussolini che muove dalle bugie che ne hanno guidato l’ascesa (i pericoli di una rivoluzione bolscevica sull’onda delle proteste del Biennio Rosso e il risentimento per una vittoria “mutilata”) e lentamente disvela i caratteri veritieri che si sono persi nel corso dei decenni e che hanno costruito di Mussolini un’immagine falsata e fondata sul mito. E d’altronde, come sottolinea Serra sin dalle prime pagine, Mussolini era un bugiardo («Benito Mussolini ha sempre mentito, dall’inizio alla fine; a volte senza esserne consapevole. Questa vocazione alla dissimulazione permanente non derivava da una tara caratteriale, da un’imposizione della vita politica, nemmeno da un riflesso di vecchio cospiratore. Vi traspariva un sovrano disprezzo per gli uomini, tutti intercambiabili ai suoi occhi, alleati o nemici, complici divenuti avversari o viceversa») e su molte bugie è stato edificato anche il suo mito che ha costruito un’eredità con cui tuttora l’Italia fa, talvolta, i conti. Un governo costruito sulla dissimulazione perenne da un uomo «indifferente, nutrito di un’impassibilità rara nel nostro carattere e nella nostra storia» pienamente responsabile, sottolinea Serra, del disastro verso il quale ha condotto l’Italia. Il caso Mussolini è un libro che rimette in discussione e sgretola, con precisione e acume filologico, tesi dubbie ed errate che nel corso degli anni sono diventate certezze incrollabili.
Louis Armstrong, Un lampo a due dita. Scritti scelti, Quodlibet (traduzione di Giuseppe Lucchesini)
Il 6 luglio del 1971, a New York, moriva Louis Armstrong, uno dei musicisti più importanti e influenti del Novecento che rivoluzionò la musica jazz aprendo le porte dell’improvvisazione e modificandone per sempre la natura con la sua tromba e la sua voce. Nel cinquantenario della sua morte, Quodlibet, nella sua preziosa collana Chorus diretta da Fabio Ferretti, pubblica un’ampia raccolta di scritti di Armstrong, curati da Thomas Brothers. Come annota immediatamente Stefano Zenni, curatore dell’edizione italiana, può sorprendere sapere che Armstrong fosse anche uno scrittore «compulsivo», fatto che sgretola il pregiudizio che vedeva nella comunità nera degli Stati Uniti solo ignoranza, ma questo volume permette altresì di conoscere Armstrong da un’altra e inedita angolatura. Gli scritti differenti che compongono Un lampo a due dita, ognuno introdotto da Brothers, danno al lettore la possibilità, oltre che di conoscere la storia del jazz attraverso le parole di uno suo protagonista assoluto (e sono storie di emarginazione e di multiculuralità coatta), anche di percorrere la storia sociale degli Stati Uniti attraverso lo sguardo eccezionale di uno dei suoi più brillanti protagonisti armato sempre, oltre che della sua tromba, di una macchina da scrivere (in una lettera a Joe Glaser, Armstrong si rammarica proprio di non avere più la sua macchina da scrivere). Questi scritti (il favoloso e commovente Louis Armstrong + la Famiglia Ebrea a New Orleans, Louisiana, nell’anno 1907, scritto in ospedale nel 1969 o l’Arrivederci a tutti dello stesso anno che si conclude con quel «non esiste una roba come “essere pronti ad a andarsene”, finché si fa qualcosa di interessante e di buono. Si è sempre in ballo finché si respira» che dà la misura dell’effervescenza della personalità di Armstrong) sono anche una rivendicazione, durata tutta la vita, dell’esistenza in una società profondamente razzista in cui le migrazioni e gli incroci inaspettati ne erano però vita pulsante.
John Julius Norwich, I normanni nel Sud. 1016-1130, Sellerio (traduzione di Elena Lante Rospigliosi)
Basta guardare una foto di John Julius Norwich, visconte di Norwich, all’anagrafe Joh Julius Cooper (1929-2018), per intuire, dall’allegria e la profondità del suo sguardo, la passione che ne guidò il lavoro di scrittore, curatore e documentarista, e l’erudita eccitazione per tutto ciò su cui il suo occhio si posava. La casa editrice Sellerio ha cominciato da qualche anno a pubblicare le sue opere e così dopo i bei Breve storia della Sicilia e Il Mare di Mezzo. Una storia del Mediterraneo, è uscito adesso I normanni nel Sud, una voluminosa e accuratissima ricerca che ripercorre le gesta e le imprese dei normanni nell’Italia meridionale. Oltre all’accuratezza filologica e al rigore nella consultazione delle fonti, ciò che stupisce di questo libro di Norwich è la gioia narrativa e la capacità di raccontare una storia lunga e complessa, oltre che decisiva per un’intera regione del mondo Occidentale nell’anno Mille, dandole le forme di una sorta di saga epica affascinante e avvincente, con personaggi che finiscono per avere le forme e le fattezze di eroi. Il libro nasce da una vacanza di Norwich in Sicilia negli anni Sessanta e dalla impreparazione davanti ad architetture che senza sforzo né tensione riunivano «quanto di più bello vi è nell’arte e nell’architettura di tre grandi civiltà di quell’epoca: la nord-europea, la bizantina e la saracena». Ecco l’origine di questo libro che presenta una prima parte della storia della Sicilia normanna, di questi condottieri che, un po’ per caso e un po’ per curiosità, da un piccolo villaggio della Francia del Nord finirono, contro ogni aspettativa, per battersi vittoriosamente con bizantini, longobardi e saraceni.
Roland Barthes, Cos’è uno scandalo. Testi su se stesso, l’arte, la scrittura e la società, L’orma (traduzione di Filippo D’Angelo)
I tomi francesi dell’opera completa di Roland Barthes riservano continuamente al lettore italiano sorprese e luoghi di estremo interesse, all’interno di un corpus molto vasto che continuamente si apre a nuove suggestioni, una riserva di inediti nella nostra lingua che reclama continuamente una traduzione. Anche per questo la pubblicazione di questa serie di scritti di Barthes per L’Orma (a cura di Filippo D’Angelo) rappresenta un’occasione importante per avvicinarsi o per approfondire l’opera del teorico francese morto poco più di quarant’anni fa nel 1980. Come suggerisce il titolo si tratta di scritti che hanno a che fare con l’aspetto scandaloso del nostro vivere il mondo nell’accezione barthesiana di sorprese, meraviglie e interrogativi che nascono dall’osservazione della realtà. Questo sentimento emerge dagli scritti letterari dedicati, tra gli altri, ad André Gide (piccole e rapidissime riflessioni sconnesse capaci, con la classica abilità barthesiana, di cogliere gli elementi più profondi della sua opera) o alla concezione della storia di Michelet («La Storia michelettiana è quindi davvero una Natura: i fatti vi si susseguono gradualmente, in correlazione, riproducendosi gli uni dagli altri attraverso variazioni di apprenze, come gli esseri»), ma anche dal testo dedicato alla relazione tra De Gaulle, i francesi e la menzogna nella letteratura o a quelli che si concentrano sulle arti figurative (Matisse per esempio, ma anche Guido Crepax). In questa bella selezione di testi insomma, si ritroverà quella sottigliezza dell’occhio di Roland Barthes capace di utilizzare gli interstizi di ciò che ci appare quotidianamente come unica e preziosa «moneta logica», l’occhio esploratore di una delle menti più acute del Novecento.
Alexander S. Neill, La libera scuola di Summerhill, eleuthera (traduzione di Elena Cantoni)
In tempi di continue discussioni sulla scuola in tutti i suoi risvolti e di letture più o meno disgraziate di questo universo, prendere tra le mani questo libro dell’educatore scozzese Alexander Sutherland Neill (nato a Forfar nel 1883 e morto a Leiston nel 1973) rappresenterà certamente una deliziosa boccata d’aria. Questo libro racconta la nascita, la natura e le forme della scuola di Summerhill fondata circa cento anni fa da Neill e ubicata prevalentemente a nord est di Londra, nel Suffolk. Questo esperimento rappresenta ancora oggi un simbolo di rivoluzionarie pratiche educative e del successo di una certa pedagogia libertaria, emblema di quella che il pensatore libertario Paul Goodman definì «educazione incidentale», capace di generare negli studenti un apprendimento migliore e più duraturo dell’insegnamento diretto. Da questo racconto emerge la natura dell’educazione come educazione all’essere e non al dover essere, ovvero l’idea di una libertà assoluta nello sviluppo della personalità e delle caratteristiche individuali, ma si può rintracciare anche il pensiero di una pratica educativa imperniata sulla relazione come ingrediente di base per la trasformazione di una società basata sul dominio e sulla continua concorrenza. La libera scuola di Summerhill funziona allora come una lettura fondamentale per conoscere una concezione della scuola e dell’insegnamento differente, incentrata sull’allontanamento di qualsiasi paura o sentimento di soggezione e sulla conoscenza come riconoscimento fruttuoso dell’altro, rispetto per le vocazioni ma anche, e soprattutto, come riguardo per i timori e le debolezze.
Leonardo Bianchi, Complotti! Da Qanon alla pandemia, cronache dal mondo capovolto, minimum fax
In tempi pandemici, sentire parlare di complotti è diventata un’occorrenza pressoché quotidiana, ma che cos’è un complotto? E quali sono i principali archetipi che ne guidano la formazione? Esiste un modo per discutere queste teorie senza scivolare nell’assenza completa di dialogo? A tutte queste domande, e a molte altre a cui si possa pensare, risponde, o quantomeno aiuta a comprenderle, il nuovo libro di Leonardo Bianchi che, dopo Gente e l’analisi dei caratteri del populismo, decide, con la consueta attenzione e acribia giornalistica, di immergersi proprio nel mondo magmatico e inafferrabile delle teorie del complotto. Dopo una necessaria ed esaustiva parte introduttiva dedicata proprio all’origine della definizione, Bianchi si concentra, tra le altre e interessanti cose, su due eventi fondamentali di questi anni, la pandemia appunto e l’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti del 6 gennaio 2021. «Un complotto è tutto quello che la vita normale non è. È il gioco segreto, gelido, sicuro, attento, per noi eternamente inaccessibile» ha scritto Don DeLillo in Libra (citazione scelta per l’esergo del libro) e in Complotti! Bianchi compie un lavoro straordinario analizzando le idee che nutrono questi immaginari, mostrano le conseguenze eversive di tali pensieri (dai protocolli dei Savi di Sion a Qanon) ma, soprattutto, prende estremamente sul serio ciò che potremmo essere portati a risolvere facilmente con accuse di follia o poca lucidità analizzando le radici di questi atteggiamenti e di queste farneticazioni e fornendo strumenti imprescindibili per conoscere un mondo certo marginale, ma che è assolutamente necessario individuare per affrontarne i rivoli che abitano la nostra quotidianità.
Matteo Moca è dottore di ricerca in italianistica e insegnante. Scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio, Domani, L’indice dei libri del mese, Blow Up e il blog di Kobo. Ha pubblicato le monografie “Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett”, “Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi” e “Un’esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico”