La Monarchia “in senso letterale esiste ancora […]. Ma, ancora viva, essa si disgrega. Si dissolve, si è già dissolta. Un vecchio votato alla morte, messo in pericolo da un qualsiasi raffreddore, conserva l’antico trono solo per il miracolo che riesce ancora a sedercisi sopra. Per quanto, per quanto ancora? L’epoca non ci vuole più! […] La gente non crede più in Dio” (Joseph Roth, La marcia di Radetzky, Adelphi 1987, p. 208). Così il conte Chojnicki notifica al prefetto Franz von Trotta la chiusa spettacolare di un dramma in grado di unire il potere prosaico del secolo al numinoso di una tradizione (che si pensa come) insensibile al tempo, eppure già sempre iniziata a una folle predisposizione alla coda tragica. Sarebbe avanspettacolo, se di mezzo non ci fossero morti, feriti e generazioni al collasso emotivo prima e più che finanziario. Il realismo cinico di Chojnicki restituisce il senso di una finzione che si consumava sulla pelle grinzosa di un imperatore decrepito e stanco: una pachidermica illusione collettiva che toccava tutti e non risparmiava nessuno. Nostalgica e struggente, l’Austria felix era capace di una malia seduttiva che irretiva dal primo all’ultimo dei suoi figli, eppure non poteva evitare la propria disgregazione sotto i colpi della ruggine, prima ancora che dei nemici esterni e dei loro eserciti. Il male oscuro del Secondo Reich, inebriato dall’edonismo di una storia perlopiù romanzata, si inverava in una ponderata miopia verso la propria strutturale debolezza: d’animo, d’armi e di credo. Ma von Trotta conosce meglio di Chojnicki il batterio che porrà termine al corpo stanco con un’infezione per la quale non c’è cura: la strutturale incapacità dello Stato di dare unità, corpo e sostanza al suo enorme e frastagliato popolo, oramai diviso su tutto, e in particolare sulla propria identità di popolo.

Ma von Trotta, oltre a essere figura letteraria, è metafora di una storia destinata a ripetersi, perché il male dell’Austria di inizio Novecento non è dovuto a un colpo di freddo mal gestito, ma è inscritto nel genoma degli Stati moderni. Non a caso, a cento anni di distanza, il presentimento che si sia alle ultime battute di un impero, nemmeno poi troppo glorioso, trova eco nelle squille stridule di una pubblicistica del declino, che non fa nulla per esorcizzare la paura fondatissima che in questa pubblica epidemia noi si manchi persino di un Chojnicki vigile monatto a scampanellare l’ora della morte. I richiami a un crepuscolo lento ma implacabile non mancavano a inizio Novecento, quando si credette di poter trovare la soluzione del male negli orrori dei totalitarismi. Tra i più noti c’è l’ammonimento dell’indocile giurista tedesco Carl Schmitt, che nei primi anni Venti lamentava la tendenza dissolutiva di un’epoca incapace di prendere sul serio la politica. Proprio come il vecchio Francesco Giuseppe, proiezione esile e intorpidita di una politica tenuta in vita dal calore troppo tenue delle sole forme, la Germania weimariana credeva di poter principiare il suo credo laico social-democratico sulla sola vigenza di una Costituzione giovane e di belle speranze.

Schmitt deplorava lo svuotamento della sostanza a tutto vantaggio della forma. La nuova politica democratica riteneva di potersi fondare per intero sulle proprie procedure ben definite, sulla formazione della volontà tramite i circuiti della rappresentanza, sull’alternanza delle maggioranze e sul comune spirito di fedeltà a una Costituzione che, con la comprensibile ingenuità degli entusiasmi al debutto, prometteva la soluzione a ogni problema di incertezza politica. Ma Schmitt, gemello in spirito del conte Chojnicki, ammoniva che la gente non credeva più in Dio – non tanto nel Dio della Chiesa Cattolica, cui pure egli si volle per lungo tempo fedele, quanto nel Dio mortale, quello partorito qualche secolo prima dalla fervida fantasia di un visionario come Thomas Hobbes: lo Stato. Quando i miti sacri cadono e quelli profani soffrono di ipotrofia, non ci sono più sostegni a puntellare l’adesione convinta del popolo a un progetto comune. L’errore fatale, secondo Schmitt, sta nel credere che lo Stato possa farne a meno, che possa rinunciare ad altre e rinnovate mitologie. Contro questa forma surrettizia di suicidio assistito, Schmitt gridava che la politica statale non può permettersi alcun autocompiacimento: le belle procedure parlamentari e l’esegesi elegante della Costituzione non fanno certo un popolo, se non su Carta. Lo Stato deve poter mobilitare passioni, credenze, energie vitali, convincere i suoi cittadini che la loro vita sia sempre rimessa a qualcosa che non appartiene mai del tutto loro, persuaderli che il sommo bene sia l’esistenza dello Stato di cui sono membri. Insomma, Schmitt avvertiva che la politica, anche quella democratica (o presunta tale), deve saper produrre “un surplus di senso” nel segno di “una trascendenza laica del potere”, in cui l’autorità politica possa stabilire quali siano le cose ultime dell’esistenza dei cittadini.

Queste ultime parole sono tratte da un libro che convoca per intero quella genia illustre che parte da Hobbes e, per tramite di Hegel, porta sino a Schmitt. Si tratta di Teologia politica e diritto (Laterza 2022), di Geminello Preterossi, testo in cui la teoresi si contamina di passione politica per dare nuovo e più inteso risalto alla questione schmittiana della teologia politica. La tesi, se si vuol semplificarla, è piuttosto semplice: per quanto si voglia credere di poter fare a meno di un qualcosa che eccede le forme della politica e le sue liturgie profane, di questa “eccedenza” non si potrà mai fare a meno. Permane e permarrà sempre il bisogno di una qualche teologia, vale a dire di un armamentario concettuale che ascrive a sé stesso un’origine ingiustificata e ingiustificabile, un’origine cioè cui si può solo credere e di cui mai si può chiedere conto. Un motore mosso da nulla se non da sé stesso, che dà avvio allo Stato e su di esso scarica una duratura energia vitale. Ma la tesi non esaurisce qui la sua forza, perché alla costruzione teorica Preterossi unisce una diagnostica sospettosa che un po’ inquieta, un po’ scuote: meglio essere consapevoli di questo bisogno che mai troverà appagamento, meglio gestirla con tutte le cautele del caso, prima che forze incontrollabili, portatrici di tutt’altri e autointeressati fini, se ne facciano avide e sprovvedute supplenti.

Di queste forze, Preterossi offre alcuni esempi. Il globalismo neoliberale, la sacralizzazione dei diritti individuali, il crescente strapotere delle Corti giudiziarie e la forza di indirizzo politico della finanza oggi sono attori concretissimi che delle procedure democratiche fanno, al meglio, impotenti ricettrici e, al peggio, burattini dai fili scoperti e visibili. Ci si è illusi troppo a lungo di potersi liberare da ogni trascendenza, e così potersi muovere nel perimetro rassicurante di una politica tutta conchiusa in sé stessa, e, mentre ci si compiaceva di tanta puerile e inottenibile autosufficienza, poteri presuntamente impolitici, come il diritto, l’economia e la finanza, perseguivano i loro scopi politicissimi dissimulati sotto la sembianza della pura tecnica. E questo, sempre secondo la tesi di Preterossi, spiega la dominanza incontrastata della tecnocrazia e dei suoi esperti, che si presentano come neutrali rispetto ad ogni opzione politica, mentre invero operano con una (pre)potenza politica allergica alle alternative e avida di un’adesione senza titubanze. La tecnica, sia essa di natura giuridica, economica, finanziaria o medica, ha sostituito sia il Dio immortale degli evi antichi e medi sia il Dio mortale della tradizione moderna; eppure, proprio come quelli, ammette solo il salto di fede che fa del cittadino democratico un disciplinatissimo fedele del culto tecnocratico.

E se è vero che agisce oggi sulla vita degli individui con forza incomparabile rispetto ad altre tecniche, varrà la pena qui insistere su uno dei grandi supplenti, ovvero l’economia, capace secondo Preterossi di produrre per sé un intero apparato di saperi che della politica fanno ancella poco sagace, lenta, da battere con lo scudiscio degli interdetti e degli imperativi. L’economia, che oggi trascende la politica e pretende orientarla da fuori, s’innesta in una vera e propria “teologia economica”: il “dominio ritualizzato del capitalismo tecnocratico” (p. 56), con le sue modalità note “di gestione delle vite, nella quale condotte umane e organizzazione istituzionale si fondono” (p. 4). Tutto questo nell’alveo di un’ideologia neoliberale che “si propone come un culto immanentista che nega la ‘trascendenza’ anche nella sua versione laica, pretendendo di monopolizzare ed esaurire la domanda di senso dell’umano” (p. 207). E non c’è dubbio che Preterossi detesti sopra ogni cosa questa teologia d’accatto, che definisce anti-politica “perché fa dell’immanenza un ‘assoluto’, cioè una forma di trascendenza sacrale che nega se stessa”, che pone a unico criterio dell’agire umano “l’equilibrio (tanto riduzionista quanto immaginario) dei prezzi” (p. 210). L’economia e i suoi tecnici uniscono alla qualità valutaria della spietatezza l’intelligenza progettuale del politico di stoffa: consapevoli del fatto che, “se la fede nello Stato è un surrogato della religione, attaccarla serve a difendere il mercato”, vogliono “creare una ‘nuova fede’, nelle virtù salvifiche del mercato medesimo” (p. 221). Una vera escatologia messianica tutta votata al culto del debito, che si trasforma in colpa morale, peccato mortale in tempi di credo bancamondano, che ammette senza patemi il sacrificio di vite umane quando ne va del ripianamento – attività riparatorie che pure, per loro essenza connaturata, mai potranno completarsi, perché il debito, come l’Apocalissi, parla sempre al futuro di generazioni a venire.

Ma la perfidia studiata della teologia economica non si accontenta di interdetti, imperativi e mitologie plasticate. Vuol esser sicura di innestarsi nelle vite di tutti e di ciascuno in modo da prevenire ogni possibile contro-condotta. A tal fine, secondo Preterossi, con quella straordinaria opera di finzione narrativa che è la logica morale del debito, gli apostoli della teologia economica hanno dato la stura a una politica dell’emergenza, per cui la politica ordinaria ha via via ceduto il passo all’esigenza suprema di tenere i conti in ordine pena il crollo immediato della baracca. La recente crisi del debito sovrano nell’Eurozona, iniziata nel 2010, sta a dimostrarlo. Con il pretesto della catastrofe imminente, i poteri della finanza e della politica globale, schermati da procedure apparentemente democratiche, hanno investito di nuovi poteri emergenziali autorità politiche sovranazionali, che hanno potuto operare in piena discrezionalità per la patente assenza di regole comuni e hanno così imposto a livello nazionale politiche fiscali durissime. In forza di un miracoloso (leggi: inspiegabile) potere d’ingresso nella politica nazionale, pari solo a quello di un Dio trascendente che sospende il funzionamento necessitato delle leggi di natura, le istituzioni sovranazionali hanno potuto prendere decisioni in assenza di specifiche procedure costituzionali e adattare rapidamente istituzioni e norme giuridiche esistenti alle esigenze di una situazione di crisi. Questa, per Preterossi, è la quintessenza di una teologia politica camuffata, che copre goffamente le sue pudende con le vesti firmate del tecnocrate, ma opera proprio come un’autorità capace di introdurre cambiamenti istituzionali così pervasivi da mutare per sempre gli assetti costituzionali di molti Stati. Altro che supplenza politica: questa è guerra condotta con altri e abusivi mezzi – strumenti infidi, perché la loro retorica si satura di richiami all’equilibrio e alla prosperità (sempre futura, se non futurissima).

Questa la sintesi del monito di Teologia politica e diritto. La miopia che minimizza il bisogno permanente di una eccedenza politica non lascia vuoti: ogni spazio è preso d’assalto da forze di vario genere e natura, che danno corpo a un’alleanza egoistica e predatoria. E così si finisce per non essere più padroni in casa propria. Beninteso: Preterossi certo non dice questo per adesione a un dogma sovranista che nel libro non ha cittadinanza alcuna, ma perché egli fermissimamente crede che la politica oggi debba farsi presa in carico di un destino collettivo, nella lucida consapevolezza che le strategie di pacificazione globale, promesse dalla finanza mondiale, sono affondate davanti alle prime flottiglie populiste, che vanno accumulando voti. Ed è in questa congiuntura di protesta e proposta che Preterossi convoca i grandi (f)autori del riempimento dei vuoti, e in particolare l’idea gramsciana di un’egemonia come sistema di credenze che strutturi un ordine. Perché, secondo Preterossi, le lotte di formazione delle soggettività politiche, le quali ultime mai esistono prima che le si formi, si svolgono sempre sul terreno delle comunità locali, nel grado zero di una democrazia ripoliticizzata, una politica cioè che prenda sul serio sé stessa e torni a determinare, per quanto le è dato, le cose ultime dell’umano.

Ora, una parola a conclusione. Non c’è dubbio che il Chojnicki lumeggiato nella prosa di Preterossi insista con più d’una ragione sull’assenza di fede e sulle conseguenze letali di un agnosticismo politico. Il pericolo è che, non credendo più nella politica, si finisca col credere nel mercato e nelle tecniche. E chi lo nega, se è vero com’è vero che chi scrive compulsa lo stato dell’ordine d’acquisto sul sito Apple tanto quanto se non più delle pagine dei quotidiani online che danno indizi sulla composizione del futuro Consiglio dei Ministri. Il problema, però, è che il mio cinismo ha poco di tragico. Immanentista come sono, nell’eccedenza politica, nella capacità di trascendimento di qualcosa che da fuori ci vitalizza e ci anima, non ho mai creduto a sufficienza. Forse perché, come Ennio Flaiano, penso che, almeno qui da noi in Italia, “gli abitanti” vivano “confortati da una tenace fede nel dopodomani. Credono in Dio e nel segreto dei loro pensieri amano immaginarselo ricco. Però, delusi ed esasperati come sono, lo ingiuriano e sfidano con la quotidiana esposizione delle loro disgrazie: ma poi gliele perdonano” (Ennio Flaiano, Diario notturno e altri scritti, Rizzoli 1977, p. 12). La contraddizione è soppesata, intenzionale e da sempre attiva nel tessuto corticale di queste latitudini.

Ecco: il libro di Preterossi, che qui si raccomanda senza esitazioni, è esso stesso il portatore di una fede incrollabile nella politica, che può condividere solo chi nella politica già sempre crede. Lo si prenda quindi come il vangelo laico di una politica possibile, e per certo molto impegnativa, che non potrà crescere nell’orto inaridito di una lotta politica che scade sempre in sagra paesana. Un libro che è testimonianza di passione, più che prontuario di pratiche istituenti. Per quanto concerne la sua proposta di riattivare il portentoso marchingegno della teologia politica per reinnestare il nostro senso di comunità in nuove e più legittime trascendenze, credo sia come voler sottoporre Francesco Giuseppe a un accanimento terapeutico. Lasciamogli trovare meritata requie, e proviamo a immaginare il collettivo lungo linee meno arborescenti e malinconiche. Se la gente non crede più in Dio, un qualche motivo ci sarà.

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1 commento

  1. E naturalmente in tanta critica è assolutamente necessario sottolineare che Preterossi “non adersice ad alcun dogma sovranista”, giusto?

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marianocroce@minimaetmoralia.it

Mariano Croce insegna Filosofia politica presso Sapienza Università di Roma. Si occupa di critica sociale, postcritica, battaglie LGBTIAQ+ e politiche della trasformazione sociale.

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