“Solenoide” di Mircea Cărtărescu, un romanzo in fuga
Quasi 1000 pagine di corsa a perdifiato, un salto spaziale senza luogo (ma con più luoghi), senza trama (ma con più scenari), con più storie (ma con una vicenda soltanto), con un protagonista (ma con centinaia di personaggi), con tante voci reali e indistinte (ma nulla che somigli a un coro) con una città, Bucarest (ma con migliaia di posti, pianeti urbani, pianeti creati in testa, pianeti che servono a raccontare, a riflettere, a sopravvivere), con un lungo monologo (eppure con tanti dialoghi serrati, piccoli, meravigliosi, incalzanti), con un passato che torna in un presente di macerie (e la memoria salta fuori senza staccarsi dal tempo presente, e le visioni del futuro vanno di pari passo), con un tram che fa avanti e indietro (con tanti tram, numeri e linee, scuole e fabbriche abbandonate), con una stanza e un letto (con molti letti e stanze, vere o false, lenzuola sporche o pulite), con un ragazzino (ma con un adulto, con uno scrittore, con un figlio, con un insegnante, con un fallimento, con un miracolo), con molti ritrovamenti (con le corrispettive perdite), con un tempo sospeso (con un tempo tangibile, denso, intenso), con centinaia di libri, letti e riletti (ma con un libro soltanto, quello che abbiamo davanti), con la poesia scritta e letta (con la dittatura, con la povertà, con il calcio, con l’abbandono), con la meraviglia (e ancora con la meraviglia, di nuovo con la meraviglia, per sempre con la meraviglia), con Solenoide di Mircea Cărtărescu, pubblicato da Il Saggiatore e tradotto da Bruno Mazzoni (con un capolavoro, vale la pena usarla la parola almeno per questa volta).
Infine la fabbrica del ghiaccio, davanti alla quale gli operai massaggiavano tutto il tempo blocchi di ghiaccio bianchi al centro e miracolosamente trasparenti alle estremità (quasi si sciogliessero in permanenza nell’aria circostante), erano per i miei occhi di bimbo delle fantastiche cittadelle di un altro mondo.
Si potrebbe parlare di un romanzo di fuga, che sfugge ai generi e che li contiene tutti, che soprattutto corre via dalla normalità, da ciò che nel tempo ci hanno fatto passare per normalità. C’è qualcosa di più reale della realtà, qualcosa che può solo essere inventato, sottratto alle regole, qualcosa di più intenso, più sfumato e per questo più tangibile. Una strada più degna di essere attraversata perché non c’è, una strada di pietrisco lunare, di macere, di materiali di scarto, di polvere di cantiere, una strada che asfaltiamo man mano che leggiamo Cărtărescu, e se ci voltiamo indietro (operazione del tutto inutile) ci accorgiamo che l’asfalto si sta sciogliendo, non sotto il sole ma attraverso il linguaggio. Una fuga dai cinque sensi, una ricreazione di questi. Uno scrittore fallito inventa pianeti nella propria testa, prendendo nota di ogni incubo, di ogni sogno, perciò di ogni desiderio, fallimento, ipotesi. In quella fuga si innamora, si reinventa un discorso fatto di numeri grazie a un matematico giunto da chissà dove. La matematica è piena di segreti proprio come il linguaggio. La lingua torbida e intensa, veloce e riflessiva, senza regimi e piena di parole che suonano nuove, di sapore poetico e di tappeto filosofico, è il campo da gioco dentro il quale si muove uno dei maggiori scrittori mondiali, per Cărtărescu si azzardano paragoni che fanno tremare i polsi, si passa da Kafka a Bolaño, paragoni che reggono, ma che mettiamo da parte, perché le somiglianze riguardano solo la grandezza, finiscono là, ciascuno poi è un gigante a modo suo, ciascun grande scrittore è un’isola, un territorio desertico nel quale compaiono dal nulla case, personaggi, alberi, detriti, pazzi, bambini, lavagne, libri di scuola, Bucarest come non è mai stata raccontata. Nella mappa di questo romanzo c’è tutta l’opera di Cărtărescu, tutta la sua narrativa e la sua incantevole poesia. C’è la letteratura che si muove in avanti, che scatta e scarta ciò che si oppone, ciò che non serve. Tornando al campo di gioco, per lo scrittore rumeno dovremmo pensare all’Olanda di Cruijff, uno, quest’ultimo, per il quale lo spazio nel quale muovere il pallone non doveva esaurirsi mai, credo fosse un suo desiderio.
Come il sesso, come le droghe, come tutte le manipolazioni della nostra mente che vorrebbero rompere una volta per tutte il cranio e uscire fuori, la letteratura è una macchina che produce dapprima felicità, poi delusione.
La realtà così com’è è stretta, è poco interessante, è costruita blocco per blocco, bisogna andarsene a costo di impazzire, di creare un incubo più onesto in cui stare, la scrittura di Cărtărescu ci fa scivolare dentro un pozzo profondo, leggendo non abbiamo mai paura, più si affonda più ci si meraviglia, e allora ritorniamo un attimo alle venti pagine precedenti, siamo preda di qualcosa che ci spinge a sottolineare in maniera ossessiva anche ciò che pare sfuggirci di mano. A volte non comprendiamo, ma non importa, capiremo a suo tempo o mai, l’incomprensibile è il regno dentro il quale noi lettori dobbiamo stare, dobbiamo ambire a qualcosa di meglio, ce lo meritiamo. Sostiamo perciò dentro Solenoide, stiamoci il tempo necessario, rallentiamo, corriamo, commuoviamoci (succederà), sorridiamo (accadrà), sfioriamo il pianto (è probabile), alziamoci per prendere un libro dagli scaffali, un libro citato o che ci è tornato in mente, per associazioni. Perché la letteratura chiama la letteratura, come sapete, i grandi scrittori si parlano, si telefonano, di libro in libro, da un secolo all’altro. Tutto questo ci conforta e ci riempie di stupore. Brillano gli occhi e le matite, brilliamo noi.
Semplicemente, mi svegliavo lì, a faccia in su e con le mani sul petto, come se fossi stato sistemato sul materasso da un estraneo, il quale non conosceva le mie abitudini di sonno.
Solenoide è una bobina, un nastro, una sfera, un mondo, ma può essere anche una capsula spaziale, una sonda, una baracca, un quadrato, un regno fatto di ruggine e materia dentro il quale sospendersi e sottrarsi.
Avevo sentito io stesso la mano della donna richiudersi sulla mia. Il contatto era avvenuto.
Le frasi di Cărtărescu si inseguono e si trasformano strada facendo, pagina dopo pagina, c’è un punto ma non finiscono, ci sono i due punti ma non si aprono in descrizioni, ci sono punti e virgola, reali e immaginari, e in quel modulo dobbiamo stare, di apertura in apertura. Sospiriamo, sbalordiamo e arrivati in fondo, quando ancora non sappiamo, quando non è giunto il tempo di realizzare, quando ancora dondoliamo a occhi semiaperti in un sogno d’acqua e d’olio, sentiamo d’aver letto una lunga, lunghissima, miracolosa, senza tempo senza metrica senza spazio, luminosa poesia.
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
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