“Storie di un secolo ulteriore”: che non verrà, che non c’è stato. 44 racconti di Andrea Inglese
di Mario De Santis
Che cosa resta del Novecento? Era la domanda che dava lo spunto per scrivere (qui su Minima & Moralia) del bel libro di Helena Janeczek “Il Tempo degli Imprevisti“.
Leggendo ora “Storie del Secolo Ulteriore” di Andrea Inglese, per Derive Approdi, la domanda diventa: cosa resta del tempo, tour court. Perché il ‘900 è stato anche il secolo di questa pulsione teleologica e utopica verso il futuro, prefigurato e “narrato”, tempo ulteriore di avvenire storico, ma anche indagine sulla materia, la relatività il cui esito è proprio una messa in discussione – col progredire delle scoperte della fisica quantistica – dello stesso ridine lineare del tempo.
Già nel ‘900 l’Utopia produceva con la Sci-Fi narrazioni spiazzanti e distopiche, con salti cronologici. Invece è come se nelle “Storie” di Inglese, 44 scritti brevi, la maggior parte di due o tre pagine il salto non sia dato dall’immaginazione spostata di un secolo o mille anni in avanti, bensì dalla modifica sottile della logica della linearità narrativa, della consequenzialità di gesti e situazioni, che finisce per essere un’abolizione di logica narrativa.
Nello svolgimento del flusso degli eventi i personaggi dei racconti danno luogo a comportamenti o incappano in eventi o sono connessi in ramificate relazioni, tali che nel lettore è continuamente spiazzata la “logica del senso” per dirla con Deleuze, così come avviene spesso per la poesia modernista che è scarto dalla norma (Andrea Inglese ha una lunga storia da poeta che ha sperimentato una sua ricerca dentro l’alveo dei gruppi eredi di una tradizione dell’avanguardia). Così leggendo il racconto quel che si presenta è lo straordinario dentro l’“infraordianario”. Forse potrebbe essere questo quel “secolo nascosto” di cui parla la quarta di copertina, uno spaziotempo parallelo.
Proprio perché così sofisticato e proprio per la storia letteraria di Inglese, è molto presente la meta-letteratura, il flusso del linguaggio rappresenta le forme della rappresentazione. Ad esempio, in “Storia dell’Extraterrestre”, riprendendo e discutendo in modo ironico proprio un topos della narrativa di fantascienza e il narratore consiglia di capire “a quale cultura politica appartiene l’extraterrestre” perché “se pacifista” si rischia che non faccia ciò che sembrerebbe essere sommamente giusto per la voce che narra: “radere al suolo la casa bianca” e “gli altri centri mondiali del complesso militare industriale”.
Qui emerge una delle forme di antagonismo letterario più consueto, l’ironia dietro cui si nasconde un’Utopia che se dichiarata diventa immediatamente retorica. L’ironia, del resto, è forma di organizzazione semiotica del senso, de linguaggio, tra le più sfuggenti all’analisi formale ed è la qualità che compensa alcune parti più meta-critiche. L’ironia rafforza questi racconti nel loro essere “ingranaggio decostruttivo”, esposizione di indecidibilità sia letteraria (di genere) che esistenziale. Se proprio volessimo definire genealogie, tanti personaggi di queste Storie del secolo ulteriore, potrebbero stare nella costellazione tra Gogol, Kafka e Buster Keaton.
Ad esempio, il duo irresistibile dell’alunno svogliato Teraldo Giacosa in “Storia con cerniera lampo”, afflitto da improvvise e inspiegabili cadute a terra da seduto, in classe durante le lezioni, come fulminato da qualcosa, il quale incrocia il suo destino con quello del professor Muletti, che invece non riesce a impedire il fenomeno altrettanto misterioso di ritrovarsi sempre con “La braghetta aperta”. Tra i due sarà un patto surreale a dare svolta narrativa al breve racconto che rimane comunque sospeso in una costruzione di meccanica di illogicità, stringente nonsense, con ribaltamento di nessi e codici di normalità tuttavia narrati in una forma fluida e lucida, con lingua rigorosa e pulita, non espressionista e che proprio per questo lascia un certo carico di inquietudine e ombra.
I riferimenti metalinguistici abbondano, coke detto, dalla “Storia con frasi fatte” in cui si immaginano dei “parolieri del popolo” che instillano nelle persone che “non sanno cosa dire” le frasi giuste e per le quali immaginano “un ‘alexa che inietta nei cervelli frasi innocue”. Oppure, un possibile fantasma della scrittura sta dietro la “mormorazione” di Luigi Rinaldo, protagonista della storia che porta il suo nome, persona opaca che dalla sua marginalità, nella folla del Bar Ugo Barbio, cattura però l’attenzione con i suoi discorsi che è “impossibile capire” anche se si percepisce che sono epocali, perché parlano di “avvenimenti precisi” e “le singole frasi hanno un senso” anche se poi il loro nesso risulta intricato”. Qualcosa che ricorda il procedere di Inglese, con frasi che si aggregano, si snodano, corretti nei raccordi grammaticali, ma carichi di eventi e dettagli illogici.
Diventa “indecidibile” – direbbe Paul De Man – anche il tipo di scrittura, il genere, sebbene si possa ascrivere alla galassia della “Prosa in prosa” come da titolo dell’antologia di scritture a cui partecipava anche Inglese, con Gherardo Bortolotti, Andrea Raos, Marco Giovenale, Michele Zaffarano e Alessandro Broggi, una delle proposte sicuramente più stimolanti sul piano letterario dell’epoca presente.
I protagonisti di questi racconti sembrano praticare un dissenso rispetto al mondo che è – si scrive in “Storie con pendenza” – “dentro una convergenza di casi e di necessità, di scherzi da prete e logiche stringenti”, mentre invece a queste “Storie” Inglese affida la possibilità di intravedere una diversa meccanica, un “giusto movimento, non in virtù di un’intenzione o un disegno, ma per una semplice pendenza”.
La scrittura come logica storta, dunque, o “claudicante” come il personaggio anonimo (che potrebbe essere – scrive Inglese – “un uomo maturo, un bambino scalzo o un immigrato” ) in “Storia con garage”: qui è più evidente anche il procedere di una scrittura automatica, inventiva, sempre chiusa nella connessione sintattica a nascondere la sconnessione logica della plausibilità. Ancora di più, evidente in “Storia con pesce siluro”, tra le migliori del libro, in cui agisce la doppia logica di detto e non detto, fin dall’incipit (“il giorno in cui parlai con il pesce siluro, non ne feci alcun cenno a casa”) che è anche il parallelo tra il realismo (un adolescente che tace, intimorito da un padre arrabbiato per la situazione politica di un paese che altrimenti “va a rotoli”) e la “realtà aumentata” dei dialoghi tra il pesce e il bambino che rimandano anche ad un altro riferimento sotterraneo di Inglese, la grande letteratura fantastica e la fiaba, riadattate ai fenomeni della contemporaneità. Così al posto dell’incantesimo, nella “Storia di Nisrina” c’è l’interferenza di Tik Tok che le prende la mente, che la rende “sprovvista”. Disturbi di codice, che alludono a un disturbo psichico, come nell’ucronica storia di Alan Turing che abbandona il progetto Enigma (ma l’ucronia si trasforma in un racconto a sua volta di allucinazione psicotica).
Rinnovando le figure opache ma esatte di “The Dead” di Joyce o degli Everyman della “Terra Devastata” di Eliot, questo libro che mette in scena un curioso “teatro della vita” –in cui personaggi come Gino si ritrovano davanti a un dilemma melvilliano: essere “balena o baleniere”. Sono tutte e due una “fregatura” alla fine, parte dell’immensa “sceneggiata” del mondo. Così queste figurine magrittiane che compaiono – quasi tutti maschi – in modo buffo “Storie di un secolo ulteriore” presi dentro una meccanica di smontaggio e cataclismi umanità che sembra scivolare inesorabile verso continui inciampi, con indifferenza, con o stranezze grottesche e tenere, come idioti e santi al tempo stesso, presentati in brevi apologhi da operetta buffa, che nasconde nell’ironia grottesca molto afflato morale, con stoccate politiche, sociali, contro ogni istituzione, aggregazione d’ordine, sistema – che siano le notizie, le filosofie, le assemblee condominiali.
C’è sia una vena politica, anche, sia il desiderio di sfuggire al messaggio perché esso diventa “ordine del discorso”. E in “Storia con messaggero” lo fa dimenticare proprio a chi lo ha ricevuto. Metafora dell’uditorio – con il quale più volte la “ur-voce dell’Autore o Narratore che sia, ingaggia brevi confronti in paginette senza titolo. Il destinatario non sa che farsene del messaggio.
Complesso, ma divertente, acuto, sebbene l’ostinazione metaletteraria e una volontà parodistica del mainstream letterario siano le parti più prevedibili e deboli, Inglese ha saputo creare un libro che è insieme solido nei suoi presupposti teorici ma molto godibile, quasi “bolanesco”, con un’umanità di figurine che scompigliano le carte anche rispetto alla prevedibile letteratura di “vittime e carnefici”.
Ogni racconto non è una profezia di ciò che accadrà, né memoria di ciò che è accaduto. Contiene qualcosa di levigato ed enigmatico, che provoca sorrisi e interrogativi, né fossile né monolite del futuro, a farci entrare in un tempo tutto diverso, l’ulteriore – che non c’era e non ci sarà.