Su Inverness di Monica Pareschi
di Paolo Landi
I racconti di Julio Cortàzar raccolti in Bestiario li ricordo uno per uno, nonostante abbia letto e riletto quel libro trent’anni fa. Quelli di Inès Cagnati, I pipistrelli, li ho presenti perché sono una lettura recente. Ho iniziato Inverness, di Monica Pareschi (Polidoro, 2024) con in testa la perfezione di quei due esempi: mi piacciono i racconti, non li ho mai considerati un genere minore rispetto al romanzo, considero l’economia narrativa che li governa e la compattezza espressiva che li definisce un esercizio di stile tra i più difficili. In Cortàzar sono la sua abilità ad avvolgere il lettore in un intreccio di inquietudine e di mistero e il suo uso magistrale delle metafore (i coniglietti che la signorina di Parigi sente affiorare in gola prima di vomitarli, a significare il disagio esistenziale ma forse, anche, l’atto involontario della scrittura, che nasce senza controllo e prende il sopravvento fino a diventare insostenibile) a farne delle gemme di perfezione; in Cagnati è la durezza che si fa poesia e la sobrietà della lingua ad affascinare. Otto racconti formano Bestiario, sette I pipistrelli, otto Inverness come se la struttura compatta dei tre libri si riflettesse sulla tensione delle trame e, nella distanza tra gli autori di stili, epoche e nazionalità diverse, alludesse a un parallelismo formale che, in questa misura finita, cerca un equilibrio interno. Inverness è il titolo dell’ultimo racconto di Monica Pareschi e arriva dopo l’esercizio sulla paura di un bacio, un misto tra attrazione, disgusto e paura, una storia rurale (Cagnati), la descrizione dell’acquisto impulsivo di un mazzo di fiori per riprendersi uno spazio intimo che la gentilezza formale di un altro stava per violare, le scene da un matrimonio, la hitchcockiana e allegorica presenza dei gabbiani in un pezzo cupo, la prova a mettersi nei panni di un uomo, il racconto di un’altra sopraffazione tra bambine: nell’ultimo, il più lungo, le ossessioni dei precedenti riaffiorano in una struttura circolare e cumulativa, dove i temi affrontati negli altri ritrovano una sorta di sintesi. I racconti di Inverness, nella loro autonomia, sono legati da elementi comuni: la percezione del corpo, un territorio sempre ambiguo per tutte le protagoniste, alle prese con la violenza spesso mascherata da dolcezza; l’intimità con un’altra persona, considerata sempre qualcosa di disturbante; le relazioni con il prossimo, quasi sempre mancate quando non proprio sbagliate; il timore di essere visti dagli altri troppo da vicino, di perdere il controllo o di subire trasformazioni irreversibili. In Inverness c’è l’amicizia femminile, il viaggio verso questa città della Scozia come esperienza di crescita (e trauma), la diffidenza verso l’altro e il mutamento irreversibile dei legami. L’inverno che la protagonista vuole trovare (“Andiamo fino a Inverness, dico. P. mi guarda con aria interrogativa. E perché? Mi piace il nome, rispondo. Quello che non dico è che è un nome pieno di sole e di luce ghiacciata, azzurra. Un nome che contiene l’inverno”) è già la metafora di una distanza. Scegliere questo racconto per dare il titolo alla raccolta è la traccia per comprendere la considerazione che l’autrice nutre riguardo ai rapporti con gli altri: che siano amici, amanti, estranei, sono sempre qualcuno di cui diffidare, per restare, finalmente, nella propria solitudine. “Sei pericolosa, insiste. Sei una bestia ferita pronta a saltarmi addosso. Uno schifoso vampiro” le dice la sua compagna di viaggio demolendo in un attimo mesi di infatuazione reciproca. “Annuisco (…) È così riposante contemplare la distruzione, quel luogo perfetto dove il desiderio è muto. È così riposante essere riconosciuta”. Monica Pareschi ha un rispetto per la lingua che sconfina quasi nella soggezione: è evidente che la domina, perché sceglie ogni parola con consapevolezza, attenta alla resa del ritmo narrativo. La sua scrittura, molto sorvegliata nei primi racconti, si lascia più andare in Inverness: si muove sempre con una particolare densità espressiva, a volte accentuata da un uso abbondante degli aggettivi, come in “Primo amore” (“…un suo sonno speciale, turpe e vitreo”). Si riconoscono certe influenze dalla letteratura anglosassone – le frasi brevi, la capacità di suggerire senza esplicitare, mostrare senza dire – che si sposano perfettamente con una lingua controllata ma sempre emotiva, ed è per questo che i racconti arrivano al lettore non come sterili esercizi narrativi ma come necessità dell’autrice di lasciare una traccia ed emergono dall’ analisi della psiche dei personaggi e, nel non-detto, della sua. L’ultimo banco “è una periferia”, i capelli sono “una tenda”, il bacio è “un morso ipocrita”, le dita degli uomini sono “grosse e squamose” oppure l’indice è “grosso e tozzo”, un paio di scarpacce fangose sono “accartocciate e secche come croste di pane troppo cotto”, il viso di un amico è invece “accartocciato per l’assalto del sole”. L’uso immaginifico di figure retoriche trasforma le esperienze interiori dei personaggi in paesaggi emotivi e fisici, l’autrice allude a ciò che non può essere detto e il linguaggio si vivifica tra contrasti e sovrapposizioni di apparenze e realtà, costringendoci a spingere il nostro sguardo oltre le parole, perché ciò che dovrebbe essere gentile si rivela crudele, ciò che appare amorevole nasconde un’aggressione, l’isolamento spaziale è, alla fine, esistenziale. La realtà – dice Monica Pareschi – non è mai del tutto chiara, la ricerca della verità passa dall’ambiguità della vita: il suo uso sapiente della sospensione e dei sottintesi è un invito al lettore a collaborare e, come spesso accade quando le luci di un libro si accendono lentamente, a partecipare alla costruzione attiva del significato, mentre i personaggi incontrati continuano a vivere e a lavorare nella nostra fantasia.
C’è qualcosa nella grana di questi racconti che mi ricorda il Filippo Betto di Certi giorni sono migliori di altri giorni