Su “La scienza dello storytelling” di Will Storr
di Sergio Mancuso
La scienza dello storytelling, il libro di Will Storr uscito in Italia con Codice nella traduzione di Daria Restani, non è, a discapito del titolo, un manuale di storytelling in senso stretto né un compendio pratico di scrittura. Seppur evocativo, il termine storytelling è spesso abusato e non corretto, poiché questo è definibile come una narrazione con carattere persuasivo e spesso nascosto, un qualcosa di extra-letterario assurto a vera e propria “religione”; se un buon scrittore, anche nella visione di Storr, ha un onere sociale che è quello di comprendere le componenti psicologiche e neurologiche che le storie attivano all’interno delle nostre reti neurali, lo storyteller di professione non ha questo dovere e tra le due narrazioni non vi è un parallelismo certo.
Il grande senso della letteratura è giocare con il tempo e uccidere la morte: finché si narra si è vivi; e ciò permane così anche oggi, e non solo nelle grandi prove letterarie del passato, come il Decameron o Le mille e una notte, il senso dello storytelling così come ci perviene è quello di costruire un’esigenza o convincere. Nella letteratura il narratore è compartecipe della morte, si potrebbe dire che la narrazione è del morente, che non è il moribondo, ma colui che condensa il senso della sua vita nella narrazione; la narrazione romanzesca è fatta di memoria – non a caso la memoria è la madre delle Muse.
Detto questo, è indubbio che il tema del saggio sia interessante e si apra a diversi campi d’indagine fornendo numerosi spunti di lettura. Questa ricerca ibrida, pur non avendo sbocchi estremamente pratici, ha il pregio di fornire al lettore degli strumenti saggistici sulla psiche e sul cervello narrante che ordina il mondo, e di mettere in luce ricerche di psicologia e neuroscienze alle quali non tutti accedono facilmente e che risultano spesso conoscibili solo attraverso paper scientifici. Nella visione di Storr le storie sono perfette macchine creatrici di senso, mettono ordine negli impulsi sensoriali e negli stimoli primordiali permettendo all’io conscio di trasformare una frenetica incoerenza in narrazioni che risultino comprensibili. Citando diverse fonti scientifiche, quella di Will Storr è una ricerca accurata sulla nostra psiche e sulle funzioni narrative del cervello e su come esse vengono attivate non soltanto dalla vita di tutti i giorni, ma anche dalla narrativa.
I libri aiutano a costruire modelli neurali, e al contempo, la capacità del cervello di attingere a quegli stessi modelli popola i romanzi in una funzione di reciproco beneficio e alterazione – Lotman e Propp avevano già in gran parte dimostrato che le storie possono essere ricondotte a una grammatica universale. In quest’ottica, e alla luce delle più recenti scoperte in campo neurobiologico, Will Storr ci dimostra come siano veri i postulati di teoria della letteratura secondo i quali l’uomo è un animale narrante che utilizza consciamente e inconsciamente la narrazione per fornire un senso al suo stare al mondo, sequenziare gli eventi e dar loro coerenza.
Infatti, vengono citate ricerche sperimentali che dimostrano come esista un network di strutture cerebrali altamente specializzate a costruire una narrazione attraverso le informazioni recepite dal cervello, o come attraverso i meccanismi attivati dai neuroni a specchio ciò che si legge agisca sull’individuo riproducendo le sensazioni e gli effetti psico-fisici della situazione impressa su carta che si sta leggendo.
Grazie anche ai così detti neuroni specchio (che permettono di vivere situazioni ed emozioni senza un’azione di cui si è protagonisti ma anche in modo indiretto e precognitivo ovvero immaginando – vedendo, leggendo ed altro – una determinata situazione motoria ed emozionale)[1]
Storr, giornalista e romanziere, parte quindi dal presupposto che i romanzi rispondano a questi profondi impulsi psicologici e ne esplora la composizione, scrivendo un saggio che dimostri perché questa forma di narrazione sia divenuta un elemento costitutivo imprescindibile della vita culturale, e non solo, dell’uomo.
le scansioni celebrali rivelano che la curiosità si attiva tramite una sorta di scatto nel sistema delle ricompense: desideriamo fortemente conoscere la risposta, o quello che dovrà accadere nella storia, proprio come potremmo provare un desiderio spasmodico di droga, di sesso o di cioccolato[2]
Il libro di Will Storr pur non essendo né un manuale di storytelling né un manuale di scrittura creativa, tocca corde importanti, induce alla riflessione e amplia il campo d’indagine dei romanzieri e degli umanisti, risultando particolarmente pervicace all’interno del discorso narrativo, poiché con un’affabulazione chiara e un preciso intento divulgativo, si pone con la propria risposta all’interno di una questione dibattuta per anni: la letteratura è davvero importante?
Secondo diversi studi i romanzi attivano i medesimi meccanismi di ricompensa, con successivo rilascio di endorfine e con il piacere della risoluzione dell’enigma che vengono attivate in circostanze più propriamente pratiche. Partendo da ciò alcuni pensatori sembrano propendere per una versione in cui la narrazione altro non sia se non un elemento accessorio e superfluo, una forma di droga psicotropa e creatrice di piacere senza finalità biologiche. Esistono invece studiosi e ricercatori, come Storr e Gottschall[3], che sostengono che il linguaggio e la letteratura a esso connessa siano il passaggio chiave per il vantaggio evolutivo che l’uomo ha avuto su tutte le altre specie. In questa visione la narrazione non è solo accessoria ma costituisce il vero fuoco prometeo.
Le storie narrateci sono strumenti che contribuiscono alla plasticità mentale, comportano sempre un apprendimento indotto e possono in definitiva alterare la completa struttura di significazione del mondo creando un’interazione con esso del tutto diversa da prima.
Tutte queste elucubrazioni mi riportano alla mente le teorie straordinariamente avanguardiste del più rock’n’roll degli scrittori Beat, William Burroughs, che ponendosi perfettamente in bilico tra la questione della parola come letteratura o forma di controllo, come corollario addizionale all’evoluzione umana e nello stesso tempo metodo per far accadere le cose, per cambiare il mondo. Infatti in The Adding Machine dichiarava che il linguaggio altro non fosse se non un virus simbiontico venuto dallo spazio, e che come virus, il suo unico scopo fosse quello di riconfigurare la mappatura del cervello umano con la funzione di replicare se stesso infinite volte; ma, al contempo, non deve passare inosservato come lo scrittore fosse anche un fervente fautore dell’utilizzo della letteratura come strumento di significazione e di lotta clandestina a tutte le forme di controllo, e in questo probabilmente era molto più vicino alle teorie secondo le quali la buona letteratura ha la funzione e lo scopo di risvegliare le coscienze. Secondo questo punto di vista, Storr scrive un libro perfettamente letterario, un oggetto di curiosità che rimanda al puro piacere della lettura e ha al suo interno le evidenze su come essa debba poggiarsi, sì su ferree conoscenze con stimoli moderni anche di stampo scientifico, ma mai perdere di vista la sua funzione. Anche per questo, per l’amore celato tra le righe dello scritto e per l’ammirazione non celata per i romanzi, quello di Will Storr non può definirsi un manuale di storytelling, ma un sibillino testo di rivolta che ci fornisce solide basi per opporci a quelle metodiche di retorica e persuasione oggi sempre più scientifiche.
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[1]Paracchini, Roberto, Appunti per una epistemologia della lettura: gli itinerari nascosti, “Medea”, III, 1, 2017, DOI: http://dx.doi.org/10.13125/medea-2665; per ulteriori informazioni sui neuroni a specchio vedere anche
[2] Storr, Will., op. cit.
[3] Jonathan Gottschall, L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno resi umani, Bollati Boringhieri.
Un testo imprescindibile non solo per chi svolge il mestiere di editor ma per chiunque sia interessato alla natura umana. Trovo però che l’edizione italiana proposta da Codice sia (ahimè) vergognosa. Passi pure che la traduttrice fa largo uso di orrende espressioni gergali (il “piuttosto che” utilizzato per introdurre un elenco di opzioni altrettanto valide, “c’entrare”, “domesticare” sono solo alcuni esempi); ma i reiterati errori grammaticali (“celebrale” presentato per ben due volte consecutive), di battitura (il Bosco Atro del Signore degli Anelli che diventa il “Bosco altro”) e gli intollerabili refusi (John Truby che diventa Trudy) fanno pensare alla totale assenza di un revisore. Meglio acquistare il testo in lingua originale, qualora se ne abbia la possibilità.
Buongiorno, Sonia,
sono Daria Restani, la traduttrice del volume la “Scienza dello storytelling” di Storr, un libro che ho amato molto e che senz’altro non merita simili refusi o sbavature (già un solo “ceLebrale” sarebbe stato troppo).
Grazie davvero per le preziose segnalazioni: sarà mia premura comunicarle in casa editrice in vista di prossime ristampe
Un caro saluto.
Daria
e, a proposito di correzioni importanti…. Sara, non Sonia. Mi scusi 😉