«Era marzo ormai, ma quel posto non badava al calendario».

Nella letteratura di Ron Rash ci sono alcune tematiche che ritornano. E sono da ricondurre ai luoghi e ai paesaggi. Il luogo è il posto, il paesaggio è quel luogo, più le persone che lo abitano. Del paesaggio fanno parte anche le malinconie. Il luogo comprende la terra, il paesaggio tiene conto della mano che semina e del successivo raccolto. Se piove per il luogo è solo pioggia, quando esce il sole per il paesaggio cambiano le condizioni ambientali, tutte, dalla luce agli sguardi di donne e uomini. Il paesaggio di Rash è formato da terre da raccolto, fiumi, bestiami, boschi, vallate, dighe, chiese, case isolate, fattorie, cimiteri, uomini silenziosi e solitari, donne che hanno subito un torto, una perdita, altrettanto solitarie.

Personaggi che stanno sempre in bilico tra ragione e torto, e il confine lo stabilisce la loro stessa natura, l’educazione ricevuta, il luogo dove sono nati, un colpo di vento, un colpo di vanga che scuote la terra per far posto a una bara. Orfani, reduci di guerra, uomini con difetti fisici, donne accusate di stregoneria. Biada, fieno, mais, pesca, segherie, bibite, famiglie prossime allo sfascio, saggezza di alcuni, poesia in altri. Dolore, tanto, amore quando serve, quanto basta, ma non basta mai. Ron Rash è nato a Chester, nella Carolina del sud, ed è in quelle zone che sono ambientati i suoi romanzi. Carolina del sud, Carolina del Nord, gli Appalachi, il Tennessee. Zone che non abbiamo mai visitato ma che amiamo, storie così distanti ma che la letteratura avvicina. Rash è considerato uno dei maestri della narrativa del sud, noi concordiamo.

Erano tantissime le bugie da tenere in piedi e altre ne sarebbero seguite. Somigliavano a una lunga fila di vagoni su un ripido pendio, bastava lo sganciamento di uno soltanto per causare un disastro.

Le opere di Rash sono pubblicate in Italia da La Nuova Frontiera, me ne sono occupato in passato e chi volesse approfondire può andare qui: Un piede in paradiso oppure qui: La terra d’ombra. Oggi parliamo del Custode, uscito da poco con la traduzione – come per i precedenti – di Tommaso Pincio. Che attraversa, come gli altri, le tematiche di cui dicevamo, ponendo al centro delle vicende due cose fondamentali: l’amicizia e l’amore e di come siano tanto diversi i modi in cui questi sentimenti si dipanino, e di come alcune di queste modalità possano essere dolorose, portino più male che bene, trascendono ogni ragionevolezza, arrivando al punto di provocare qualcosa che può essere peggiore della morte: la sua messinscena.

I morti non potevano fargli niente di peggio di quanto gli avevano già fatto i vivi.

Ci troviamo nella Carolina del Nord, a Blowing Rock, nel 1951. Il personaggio principale è Blackburn Gant, uomo solitario, segnato dalla poliomielite avuta da piccolo. È il custode del piccolo cimitero della comunità. Per scelta e per mancanza di altre opportunità. È riservato, introverso, preferisce stare con i morti che con i vivi, gli fanno meno impressione, sono più disposti all’ascolto e ad accontentarsi di poche parole, proprio come lui. Ha un unico amico Jacob Hampton, che viene chiamato a combattere in Corea, e affida a lui Naomi, sua moglie, in attesa di un figlio. Naomi, per certi versi, somiglia a Blackburn, è emarginata, povera, non ha potuto studiare, non è ben vista soprattutto dagli Hampton, la famiglia più in vista di Blowing Rock. Infatti, Naomi e Jacob si sono sposati contro il loro volere, nella piccola comunità era ovviamente scoppiato uno scandalo. Blackburn e Naomi si sostengono a vicenda, nell’attesa (e speranza) che Jacob ritorni; sono respinti, isolati, additati, in qualche misura, perseguitati. Poi accade qualcosa, un segreto, un inganno, una terribile menzogna e le loro esistenze – compresa quella di Jacob – saranno nuovamente sconvolte.

«Troppe cose troppo in fretta perché il mondo restasse al suo posto. Il cimitero si inclinò, come se tutto potesse scivolare dalla collina, le lapidi staccarsi da terra e schiantarsi sulla strada, le bare aprirsi. Blackburn strinse il pugno, fissò gli occhi a terra».

Rash con Il custode indaga a fondo i misteri dell’animo umano, scrivendo uno dei suoi romanzi più belli. I personaggi principali Blackburn, Naomi e Jacob, sono fragili e coraggiosi allo stesso tempo, credono nell’amicizia e nella possibilità che possa esistere qualcosa oltre le verande e i campi di mais. Credono nell’amore e che le cose possano essere cambiate in meglio. Non si fermano davanti al racconto della morte, non si fermano ai fiori sulla tomba, perché non è mai davvero finita. Sono molto riusciti anche i personaggi secondari, su tutti, il dottore della cittadina e i genitori di Jacob, innamorati del figlio e della loro condizione di privilegio al punto di fargli del male. Diranno che è per il suo bene.

Rash quando scrive parte sempre da qualcosa di cupo e tormentato ma ha come obiettivo la luce, per questo le sue storie sono colme di dolore, incomprensioni, tormenti e grandi speranze. Da qualche parte il cuore delle persone deve arrivare, da qualche parte deve continuare a battere, e potete scommetterci che sarà su un campo coltivato con il sole alto a mezzogiorno; e ci sarà qualcuno che dice una parola che rompe il silenzio, qualcun altro che abbozza un sorriso.

 

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Autore

giannimontieri@minimaetmoralia.it

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagioneAndrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia. Altre info qui: https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/

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