Tra romanzo e autofiction. “L’anniversario” di Andrea Bajani

di Mario De Santis

Il nuovo libro di Andrea Bajani “L’anniversario” (Feltrinelli) è uno strano oggetto narrativo, che contiene molte diramazioni sotto un primo livello immediato di narrazione personale (data dal fatto che il Narratore è in prima persona) che ci getta subito dentro un tipico dramma familiare, un taglio di radici: “L’ultima volta che ho visto mia madre mi ha accompagnato alla porta per salutarmi”.

La prima persona ormai ci ha abituato, da un paio di decenni, tra titoli italiani e stranieri,  al fatto che l’autobiografia si sia fatta esplicita, e nessuno ha più pudore di metterci “ l’Io”, la biografia e spesso pure nome e cognome. All’inizio c’era il velo dell’Autofiction dichiarata (i libri di Walter Siti), oggi è direttamente l’Io dell’autore sebbene a volte non citato,  ma con indizi evidenti (e poi accompagnato da interviste in cui si conferma il valore biografico). Antonio Franchini con “Il fuoco che ti porti dentro” o Nadia Terranova con “Quello che so di te” e prima ancora Calandrone con “Dove non mi hai portata” sono solo tre esempi.

Bajani fa un’operazione di decostruzione multipla di questo meccanismo. Da un lato crea segnali che possono far ascrivere questo nuovo libro alla sua biografia, pur senza certezze. Dall’altro però costruisce un dispositivo narrativo in cui l’impressione è che sia centrale (anche solo a voler prendere tutto come Fiction) una discrasia, tutta testuale,  tra il Personaggio-Narratore e il Personaggio-Figlio. Il primo ci propone un “romanzo” ma quello che leggiamo è di fatto un resoconto (sebbene emendato da dettagli) della vita del secondo dentro una “famiglia sventurata”, sottomessa a un padre violento autoritario.

Il Personaggio-Narratore (dato che lo dichiara subito, nessuno spoiler: è nella terza pagina), scrive di aver “visto i genitori per l’ultima volta” a 41 anni, prima di tagliare tutti i ponti e ha poi vissuto “i dieci anni migliori della sua vita”. Dunque va a finire bene (i dieci anni migliori) ma che di che “bene” si tratta, se è stato necessario “erigere un muro”?  (questo il vero finale, l’interpretazione dei fatti, non i fatti o il plot).
“L’anniversario” è scritto in una prosa limpida, lavorata e levigata per essere tale e non dare spazio all’emotività.  È il racconto di un inferno freddo, oppressivo e anche violento, di una famiglia dominata dalla figura di un Padre manipolatore, dei suoi scoppi d’ira che da sempre terrorizzano la moglie e Madre e che poi si espande ai due figli (il Narratore appunto, e sua Sorella più antagonista del fratello e prima a sottrarsi a quel soffocamento autoritario).

Bajani (qui è d’obbligo il personale biografico, siamo sulla soglia del testo, verso il fuori) oltre al titolo “L’anniversario” ha fatto apporre il sottotitolo: “un romanzo”. La fascetta firmata da Carrère è un indizio di autofiction o una complicazione?
Siamo in ogni caso nell’ambito di quello che pure Freud chiamava “romanzo famigliare” nel senso che dentro esso ognuno racconta il suo.
Come nel non dare nome ai personaggi, anche il modo in cui il  Figlio racconta come si è arrivati a questa situazione di un Padre totalitario, il suo asfissiante controllo sul quotidiano della Madre e dunque dei figli, è ambivalente.

Una vita segnata da questo padre di cui  tuttavia  si raccontano solo due episodi di violenza ( uno schiaffo alla madre, che però non viene da lei confermato ai polizotti chiamati dai vicini che sentivano le urla; il secondo un pugno al figlio adolescente, sorpreso a rubare soldi alla madre per i videogame). Per il resto in casa regna una stasi di normalità, di non amore. La “normalità” del patriarcato italiano in cui la famiglia è una convenzione sociale e la violenza è ipocrita come la famiglia, basata sul non-detto, sull’implicito. Tuttavia, l’implicito andrebbe sciolto, in un processo in una denuncia. Il resoconto di questo Figlio che si fa poi Narratore non è un processo, solo un resoconto.
Colpisce infatti nel  raccontare la Madre “complice” e “vittima”, la somiglianza tra lo sguardo narrativo fermo, analitico e lo sguardo immobile, imperturbabile della Madre, che accetta di essere “niente” per essere “qualcosa” agli occhi del Padre e della famiglia stessa.

Anche il figlio accetta compromessi per quarant’anni. Alla fine, non si ribella, semplicemente se ne va, come un fuggiasco, sparisce e finisce “la storia” ma non il suo eco. LA letteratura e “L’anniversario” sono il resoconto di quell’eco, il risultato di un set di analisi, eppure dentro la prosa limpida, qualcosa resta opaco. Questa è la strana tecnica con cui “L’anniversario” è costruito e che genera inquietudine benefica, come tutte le vere opere letterarie devono fare (rispetto a un mainstream consolatorio).
C’è una corrispondenza di dinamiche di narrazione anche con il padre: in fuga (scappato da Roma, verso il Piemonte, per un episodio rimasto opaco, una lite al lavoro, una minaccia non si sa). È un uomo fragile e impaurito che sfoga la sua frustrazione in famiglia. Tuttavia, il mistero del suo magnetismo resta in questo resoconto, in qualche modo non detto.

O meglio, sembra rivelarsi, nei capitoli centrali, molto belli, proprio nell’accondiscendenza della madre: il suo sacrificarsi per un uomo, un maschio, che è violento, perché – arriva a ipotizzare il Narratore – egli ha dentro una fragilità infinita che la Madre protegge.  IN qualche forma di dominio passivo. La madre sceglie una strana via di “forza” muta nella resa, per costringere il padre a svelarsi, nella richiesta di perdono che seguiva alla violenza, come il fragile bisognoso di amore, un riconoscimento che però era solo implicito e momentaneo, prima del prossimo scoppio d’ira.

Se mettere la ferita esposta sia verità o estrema finzione, valga l’esergo della poetessa americana Louise Gluck – anche qui siamo sempre sulla soglia tra Scrittore e Narratore: – “Ecco perché non devi credermi, perché una ferita al cuore è anche una ferita alla mente”. E quindi la ferita genera menzogna narrativa? Lo stesso Narratore si chiede a volte se non stia esagerando nel descrivere la sua sventura.
Tuttavia, Il Narratore dissemina, per creare “effetto verità”, delle spie “metaletterarie” in cui avverte che non sta scrivendo un romanzo: locuzioni come “se questo fosse un romanzo allora dovrei”, o quando volutamente omette e dichiara di non voler descrivere (“inutile soffermarsi sulla descrizione di “) e in effetti non ci sono particolare descrittivi, né topografie se non generiche (Roma, il Piemonte, il continente) né paesaggi o i corpi.

Altre tracce metaletterarie: la madre che si iscrive a lettere, mentre il padre ha la terza media. Poi però la madre viene incastrata con le maternità e manipolata fino lasciare l’università, finendo sul divano (è immagine ricorrente) tutte le sere a fare le parole crociate, mentre il padre tutte le sere “legge libri” (quindi il Personaggio-Figlio per diventare poi Narratore, da chi prende? Forse dal padre?). Il Figlio sceglierà alla fine di rendere esplicito tutto questo, in parole. Nel suo resoconto-romanzo, si concede – nonostante i molti momenti in cui scrive di non avere elementi per raccontare né per inventare, -anche la possibilità di “scorporare” l’immagine della madre dal padre, immaginando i suoi brevi momenti di libertà fuori dal matrimonio.

Il Figlio, dunque, combatte sul piano narrativo con il Padre, suo simile e contrario. Perché anche Il padre cerca di imporre, diciamo così, il proprio “romanzo” di cui si proclama tragico protagonista, da vittima – specie con il teatrale far capire che dopo quello scoppio d’ira con l’intervento della polizia, aveva deciso di uccidersi.

Anche questo è un modo del padre di prendersi nella vita familiare “tutto lo spazio” e il Narratore reagisce (ma forse fa lo stesso) prendendosi “spazio”: prima fisico, andando a vivere “per difesa” in molti posti d’Europa, ma tornando per un “obbligo di firma” a casa regolarmente. Poi rendendo definitiva la distanza in un altro continente. E’ tuttavia in un certo modo – il taglio dei legami – un gesto di violenza.
Resta quell’aver scritto il sottotitolo “un romanzo”. Segno di un processo di sdoppiamento multiplo per così dire.

Una conferma anche dopo che si torna a parlare dell’ultimo incontro e Bajani (o il Narratore-figlio) ci consegnano in una frase la vertigine di questa scorporazione di sé, del meccanismo della psiche, che non sembra potersi arrestare,  apoteosi e fallimento insieme della letteratura: “Ogni ricostruzione che ne posso fare è materia da romanzo, non solo perché richiede che l’immaginazione porti sulle spalle l’esperienza, ma perché quel pranzo avvenne dentro la finzione”.  Nulla garantisce che tutta la vita seguente, non sia rimasta dentro quella giostra di finzione, di non detto, di fallimenti psicologici. Neppure la letteratura garantisce. Sembrano temi pirandelliani o proustiani, se si vuole. Anche in quei casi, tuttavia, c’era una materia “di vita” bruciante, come nei “Sei personaggi” pur con il loro meccanismo teatrale di scatole cinesi.

La vita fatta in famiglia dal Narratore-figlio è stata come piena di “allucinazioni”, scrive nel suo resoconto. Chi vive – aggiunge – “potrebbe non tenerne conto”. Oppure – ed è quello che ha fatto, se stiamo leggendo il libro  – può “unire quei punti di luce abbacinante” che sono queste allucinazioni, tracciare “linee di collegamento” (la scrittura). Ma a cosa serve?
Se la violenza – come su tutti Primo Levi sapeva – è dentro tutti gli umani, allora “uno dei modi per esprimerla era la distruzione” spiegò un giorno l’analista al Narratore però aggiungendo: “ma l’altro, più importante e per così dire virtuoso, era la precisione”.
Di questa esattezza Bajani fa trova una sua forma di letteratura che si sottrae, per quanto può al “letterario”, così come il figlio tenta di sottrarsi lla famiglia. E di questa esattezza è figlio questo virtuoso romanzo.

 

Commenti
2 Commenti a “Tra romanzo e autofiction. “L’anniversario” di Andrea Bajani”
  1. Rossana ha detto:

    eco al singolare è parola femminile.

  2. Marina ha detto:

    Esco dal libro, (autobiografico o no, non me ne importa) insoddisfatta. Non lo definirei un romanzo; una relazione, forse, una testimonianza resa.
    Tutta la mia capacità di immedesimazione è volta alla Sorella. È da lei che vorrei sentir raccontare la storia. Appena citata, qui e là, sembra l’unica persona viva. La scrittura nobilmente cristallizzata è ammirevole.

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