Tutto ovunque, tutto in una volta
di Gianfranco Di Fiore
“L’intrattenimento come dolore era un’idea che mi giungeva del tutto nuova”, così scrive Nick Hornby, raccontando di un celebre match giocato tra Arsenal e Stoke City, il 14 settembre del 1968, all’interno di quello che sarà per sempre ricordato come il suo romanzo più acclamato e discusso: Fever Pitch. Non che prima del 1997 non erano stati scritti articoli, poesie, romanzi e saggi e racconti sul calcio: Galeano, Pasolini, Sartre, Montalban, Soriano, Saba, Camus, Borges e Alfonso Gatto, questi sono soltanto alcuni dei grandi intellettuali del passato che hanno sentito l’obbligo, più che la necessità, a un certo punto della vita, di attraversare nella scrittura quel largo corridoio verde – e in inverno fangoso – che unisce lo stadio da calcio all’anima. Tutti loro, spesso trascinando al di fuori del mondo fisico e della stessa fisicità il gesto atletico e il suo racconto, e con esso le manifestazioni antropologiche e folkloristiche del mondo del pallone, avevano già squartato l’animale (calcio), lo avevano spellato, spezzato e dissanguato e poi avevano osservato – tra le macerie sanguinose di questo gioco – tutti quei fenomeni, quelle manie, quei brandelli di racconto che lasciavano echeggiare sul manto erboso, quanto sui divani delle case private, il canto utopico della sovversione, al tempo stesso privata e sociale, locale e internazionale, mitizzando luoghi e situazioni, spegnendo le luci sul vero teatro della vita per lasciare accese unicamente quelle che illuminavano i prati verdi, allestiti sul grande palcoscenico calcistico.
Dalla sconfitta per 2-1 del Brasile nella finale dei mondiali, al Maracanà di Rio, contro l’Uruguay, il 16 luglio del 1950, con circa 200mila brasiliani auto-deportatisi allo stadio, speranzosi di poter morire di gioia, passando dalle prime icone calcistiche degli anni ’60 come Pelè, Bobby Moore, Yashin, Charlton, Eusebio e persino Pak Doo-Ik, fermandosi a navigare i canali creativi della mitica Olanda di Cruijff e del calcio totale, diversi scrittori si erano spinti in un’infantile eppure determinante ricerca di senso analogico, applicata al gioco del calcio, essendo stati abbagliati da quell’inutile rotolare di un pallone tra le gambe pelose e dure di certi eroi-calciatori che – campionato dopo campionato, gol dopo gol erano arrivati a sfiorare la sacralità negli anni ’80 con figure come Maradona e Platini.
Tutto sembrava già scritto, dalla famosa Mano de Dios durante Mexico ’86, le narrazioni mitiche sul pallone si erano rincorse e affastellate senza posa, i cronisti più preparati quanto gli spettatori più sprovveduti sapevano ormai quasi tutto del calcio, la carta stampata e le redazioni delle tv avevano intuito da tempo le distorsioni sociologiche e psichiche che ruotavano intorno a questo particolare fenomeno sportivo. E allora ci si chiede perché, quale sia la necessità di un ennesimo libro sul calcio, perché oggi vale ancora la pena pubblicare narrazioni ibride che guardano al fenomeno calcistico sempre e ancora con la stessa passione e curiosità? E quindi perché Corrado De Rosa pretende da noi lettori e appassionati di calcio attenzione e fiducia? Semplice, perché “Quando eravamo felici” non è un libro sul calcio, non è un racconto dei e sui calciatori, non è un’accattivante novella che inquadra il gioco del pallone nel suo abito domenicale ma si tratta di un saggio psico-filosofico sull’irrazionale politico, uno straordinario trattato sulla natura (in)umana, laddove l’irrazionale sostituisce esattamente ciò che Aristotele definiva forma e natura profonda dell’Essere (la razionalità), e il politico incarna nella declinazione più estensiva e assimilabile il concetto di città e di cittadino, di ciò che appartiene allo Stato e che fonda lo stato delle cose; De Rosa riscrive in poco più di trecento pagine una nuova e pur sempre antica filosofia della politica, rimescolando categorie e attributi, il suo racconto definisce un solo Essere gettato nel mondo e questo Essere non ha più bisogno di alcun utilizzabile per definirsi pratico e umano; tutti i personaggi che troviamo in questo infinitesimale racconto di vita e di morta morale sono loro stessi utilizzati dal sistema, dalla grande comunicazione politica e non; leggendo “Quando eravamo felici” mi tornava in mente “La mia battaglia” di Karl Ove Knausgard, e non esistono al mondo narratori più diversi di Corrado De Rosa e il norvegese eppure c’erano dei punti in comune: una rara capacità di tenere insieme lo studio e la conoscenza del sé, il coraggio di scandagliare fino all’osso fenomeni e concetti e dimensioni che appaiono o troppo intime o troppo collettive, troppo private o troppo sociali, ma che sulla pagina – tra le mani di chi sa porre la forma al servizio dell’analisi e della comprensione – diventano al tempo stesso liquide e puntuali, questioni politiche e sociali, economiche e culturali, domestiche e sportive che riguardano ognuno di noi, come singolo, e tutti noi che partecipiamo al campionato più difficile e privo di senso che è la vita, dentro e fuori lo sport: l’intrattenimento che diventa dolore, come scriveva Nick Hornby.
Corrado de Rosa firma un’ellissi scritta in forma di picture-in-picture, un’equazione a più incognite il cui grafico continuamente si annoda, intorno agli assi cartesiani di quella che appare una voragine geo-sociologica che attira tutto a sé, tutto a fondo, un gorgo melmoso dentro al quale precipitano Craxi e Tangentopoli, la dittatura argentina e le basette di Menem, la fragilità delle ginocchia di Roberto Baggio e la furia della famiglia Hussein, la brasiliana nazionale jugoslava illuminata da Stojkovic e i programmi di sistematizzazione di Nicolae Ceaușescu. Non è pertanto un libro, questo di Corrado De Rosa, ma una lente coraggiosa e uniformante che tiene insieme l’Irpinia terremotata di Nando De Napoli e il pensiero divergente di Guilford, Cosa Nostra e il Drive-In, Kant e Diego Armando Maradona, e forse bastano le pagine in cui De Rosa racconta il mito del Pibe de oro per alzarsi dal divano, spegnere la tv e recarsi in libreria per capire quanto sia importante ricordarsi di quando eravamo felici, e che il calcio non è un gioco, non è uno sport, non è una palla che rotola sul prato verde ma è la vita, il malaffare, il dolore, le nevrosi, l’odio e la dissimulazione, la crisi dei valori e il valore della crisi, il sogno, la tragedia e la somma gioia, la politica e il politico, la guerra e la pace: tutto ovunque, tutto in una volta.