Con L’impulso Lidia Yuknavitch compone un allucinato mosaico in prosa sull’abbaglio della libertà come simbolo di un paese segnato dalla violenza, complice di soprusi e fondato sull’ipocrisia di valori vacui. Si muove tra i secoli intessendo storie di coloni, immigrati, bambini sfruttati, donne abusate, per ridefinire la storia e immaginare il futuro a partire da una dolente indagine sul corpo come emblema di una pluralità silenziosa e senza nome. Scompagina la forma romanzo per strutturare una narrazione retta su continue divagazioni, visioni sul passato e sul futuro, presagi di distruzione nelle descrizioni di paesaggi devastati dalla catastrofe climatica con un’attenzione al frammento per compiere ingrandimenti sul trauma e sulla perdita (aspetto centrale già in Cronologia dell’acqua, trad. Alessandra Castellazzi, nottetempo 2022).

Le corrispondenze tra figure immaginarie e reali e le incursioni etnografiche basate sui primi studi americani sostanziano il racconto della deriva della natura umana. Il primo corpo con cui si apre il romanzo è quello arrivato a pezzi, lavorato e assemblato per diventare la Statua della Libertà, donata dalla Francia al popolo degli Stati Uniti e realizzata da Frédéric-Auguste Bartholdi con la collaborazione di Gustave Eiffel. Quella personificazione della Libertà che innalza una fiaccola al cielo e tiene una tavola recante la data della Dichiarazione d’indipendenza fu immaginata prima con le catene spezzate tra le mani, poi nascoste ai suoi piedi. Un aspetto interpretato dall’autrice come assenza di audacia e contraddizione in relazione ai diritti non ancora raggiunti per le donne e allo sfruttamento del lavoro degli immigrati impiegati al porto di New York per l’assemblaggio e la collocazione dell’opera.

Allora avremmo dovuto capire, nei nostri corpi, che le nostre condizioni erano cucite in maniera imperfetta – che la guerra aveva aperto una ferita eterna. Che alcuni di noi non sarebbero mai stati considerati appieno, che i nostri diritti erano ancora schiacciati ogni giorno. Che i bambini venivano ridotti in polvere ovunque, nelle fabbriche. Che eravamo esclusi dalla legge anche se noi, i corpi, stavamo costruendo i mezzi di trasporto del paese. […] Noi avremmo potuto essere nati da lei, ma piccole crepe cominciavano ad apparire nella storia, così come nei materiali del suo corpo e nelle nostre fatiche.

Il primo imponente corpo a essere costruito collettivamente si scopre al contempo un’utopia per la compromissione originaria che il suo significato subisce. Yuknavitch ispeziona la contraddizione originaria, l’ipocrisia celata negli ideali nazionali, nella meccanizzazione americana che genera una finzione di libertà e poi squarcia corpi di donne e bambini i cui pezzi disconnessi “si cercavano al di sopra delle brutalità e dell’assenza, e poi sparivano nelle fogne”. Individua la falla e la usa come strumento di osservazione sociale di ogni epoca, per rendere politica una narrazione che assomma a sé new weird, trattato filosofico, distopia, analisi antropologica. La prosa febbrile e poetica si nutre di imponenti allegorie, sinestesie, metafore, si muove tra dimensioni diverse nel tempo e nello spazio, tra visioni aeree e acquatiche per amplificare il reale e renderne abbacinante la critica.

La ricognizione fisica e sensibile segue nei continui salti temporali le deformazioni del paesaggio nel predominio degli elementi e riconosce odori che diventano vibrazioni, colori cupi, indistinguibili dallo stato d’animo che ne accompagna la visione.

Il simbolo della libertà tornerà nel futuro, sommerso dall’acqua per gli effetti della crisi climatica. E quando della costa orientale non sarà rimasto quasi più nulla e l’acqua avrà invaso ogni cosa, l’unica voce dissonante si mostrerà quella di una portatrice, Laisve, capace di usare segni e portare oggetti in modo diverso, indomita nel sovvertire il tempo. Nell’intricato groviglio di storie che si innestano alla principale emerge per frammenti il passato doloroso della giovane che ha il dono di viaggiare in epoche diverse e di scorgere le intersezioni tra vicende lontane.

Entro complesse architetture narrative che sovrappongono storie generate da suggestioni animali, vegetali, materiali, legate agli elementi e strutturate secondo un andamento ondivago per richiamare, al contempo, una ripetizione infinita e una trasformazione continua, la poetica di Yuknavitch si definisce nella sospensione tra realtà e irrealtà, non solo attraverso l’agire di una portatrice ma grazie alla presenza di creature antropomorfe, custodi di verità imperscrutabili. Tale scelta non si limita a sostanziare la natura fantastica delle pagine tra fanciulle d’acqua che si gettano in aria come idee sospese, balene che inghiottono bambine che vivono una dimensione rinnovata dall’assenza del tempo e tartarughe parlanti che illuminano il cammino, ma mostra un disegno preciso nel groviglio di storie. Concepire intermediari tra il terreno e l’etereo, tra il passato e il futuro, permette di rintracciare un senso nell’assurdo entro un’idea di salvezza possibile nell’eversione, grazie a figure che per la loro natura inumana sono dirompenti nel significato metaforico del loro messaggio e nella precisa valenza sociale della loro azione come critica radicale al sistema.

La lotta per la libertà è il fulcro della narrazione, si rivela predominante anche nelle pagine dedicate alla corrispondenza immaginaria tra l’ideatore della Statua della Libertà Frédéric-Auguste Bartholdi, e Aurora, personaggio concepito dall’autrice per simboleggiare l’emancipazione da ogni vincolo sociale e morale, fondamentale nel dare forma a un confronto per smantellare stereotipi.

Ci serve una nuova storia di libertà che inizi con il corpo di una donna priva di figli e del desiderio ciclopico di un pene maschile che entra ed esca dal buco che è lei. Ci serve una riconnotazione di genere dalla portata colossale.

Le lettere che i due si scambiano spaziano da Darwin a Mary Shelley, dalle possibilità del corpo in relazione al superamento di preconcetti e limiti nella sessualità all’immaginazione di un cambiamento radicale che ponga al centro il benessere infantile, per contrastare sfruttamento e violenza. L’esplorazione fisica identifica nella dimensione sessuale lo spazio ideale per favorire l’affioramento di storie lontane, capaci di “guarire i corpi”.

La libertà è il corpo di una donna. Il paradosso divorante, rigenerante, del suo corpo. Ogni legge ogni aspirazione ogni viaggio compiuto da un uomo fallisce al cospetto del suo corpo.

Con l’esasperazione fantastica Yuknavitch amplifica il reale nel definire la devastazione dell’individuo nel subire raid, nel vedere rivoluzionata ogni certezza, nel doversi rassegnare alla perdita rifugiandosi nei vaneggiamenti. Nella narrazione di uno sfaldamento che pare ineluttabile si staglia la descrizione dell’immaginario infantile nell’insieme di “elaborati habitat di aria, terra e mare uniti da ponti come ragnatele tra mondi”, e dell’amore come unica possibilità di creare significato nel mondo.

L’opera è uno studio sul male, una riflessione sulla radice di ossessioni che attestano la natura misera dell’essere umano, inesorabilmente dipendente dalle “cose morte”, che porta con sé traumi che non riesce a elaborare, legati a storie del passato, a mondi precedenti di cui rimane memoria solo negli alberi. A tale immobilità l’autrice contrappone il dinamismo spaziale e temporale di chi si sente perseguitato da altri corpi, da storie di famiglia cariche di un dolore irrisolvibile e che in virtù di tale conoscenza sensibile può esaltare in modo collettivo la sofferenza per dare un senso alla perdita di legami, di linguaggi, di identità, per rendere “la memoria sopravvissuta testimone dei crimini contro l’umanità”.

Yuknavitch immagina una dimensione alternativa dove sogno e passato si sovrappongono, dove è possibile rintracciare ferite remote e raggiungere il dolore attraverso il piacere perché ritenuti “un’epoca a sé stante”. L’impulso è un personale e fantastico manifesto di libertà che scardina visioni precostituite in favore di un flusso universale e salvifico di parole scollegate dalle regole del tempo e dello spazio, in una connessione rinnovata con la terra e l’acqua per generare un nuovo inizio fondato sullo sguardo dell’infanzia, la necessità di ribellione e la celebrazione dell’immaginazione.

Lo spazio tra l’infanzia e la non più infanzia: immaginatelo come il tutto. Tenetelo aperto il più a lungo possibile.

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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