Una artista del digiuno. Su “La verità che ci riguarda” di Alice Urciuolo

di Marco Marino

Digiunare. Sarebbe interessante provare a fare del nuovo romanzo di Alice Urciuolo, La verità che ci riguarda (66thand2nd, 18 euro) un compendio in forma di vocabolario, affidarsi soprattutto ad alcuni verbi per riuscire a dire qualcosa di un libro che fin dal titolo ci coinvolge direttamente. Questi verbi dovrebbero avere tutti un connotato «mistico», aggettivo che in questo caso non sarebbe sinonimo di «religioso», ma intenderebbe etimologicamente «qualcosa di chiuso» (dal verbo greco myo). Tutti i personaggi del romanzo, a partire dalla sua protagonista, Milena Cervi, tengono chiuso qualcosa. Milena comincia dalle labbra, si rifiuta di mangiare, pratica un costante digiuno che getta i suoi genitori in una profonda crisi. Il digiuno di Milena è la prima aberrazione di fronte a cui ci pone Urciuolo: non ha a che fare con la fede o con la fame, ma più con l’esperienza del pieno e del vuoto, della felicità e del dolore.

Quando la piccola Milena sente sua madre dire che sarebbe davvero potuta morire, se avesse continuato la sua scelta, una consapevolezza nuova comincia ad abitarla: in una pagina bellissima, apre i cassetti della credenza, fa il conto delle calorie dei biscotti, alla fine decide di prendere un pezzo di focaccia e di mangiarlo. Ma quella consapevolezza non è la consapevolezza della guarigione, infatti confessa a se stessa: «Non potevo dirmi guarita soltanto perché avevo ripreso a mangiare: il dolore si stava semplicemente spostando altrove, avrebbe trovato altri modi, più subdoli per manifestarsi, ma in quel momento nessuno di noi poteva saperlo, in quel momento anche io credevo che ormai il peggio fosse passato» (p. 47).

Pregare. Un altro verbo che bisognerebbe esplorare riguarda la preghiera. E questo ci permette di evocare una figura centrale del romanzo, che si chiama Tiziano Valentini, profeta di un’eresia moderna, a capo della Chiesa della Verità di cui la madre di Milena si fa adepta. Anche qui si potrebbe facilmente confondere l’aspetto mistico con qualcosa di religioso (d’altronde, nel Nuovo Testamento, preghiera e digiuno coincidono di continuo, come in Luca 2:37 e 5:33) e invece torna sempre più forte l’idea del chiudere e del chiudersi. In questo caso, la chiusura che la madre di Milena vive, e che la comunità di adepti della Chiesa della Verità vive, è quella degli occhi: atto tipico della preghiera, per concentrarsi e provare a visualizzare lo spirito che entra dentro di noi, la chiusura degli occhi a cui invita Tiziano è la distanza dal mondo, la progressiva perdita di coscienza dalle cose terrene, il puro affidamento, e in qualche modo l’amore.

La madre di Milena è convinta che sia stata l’intercessione di Tiziano a guarire sua figlia. Inizia a finanziare in modo cospicuo la comunità, inizia ad allontanarsi da casa, fino a lasciarla e vivere nel suo negozio. Quello che le basta, la pienezza che la appaga, è la Chiesa della Verità. Urciuolo racconta che quel lasciarsi andare alla balia dell’altro è una forma d’amore, una forma tossica e deleteria, che ti chiude nel tuo mondo piuttosto che aprirti al mondo degli altri. Lo scrive luminosamente attraverso la storia di Sesa Vellucci, una delle prime seguaci, conquistata dalle parole confortanti di Tiziano («Ti penso e prego sempre per te») e da queste svuotata sia spiritualmente che economicamente. La donna, però, trova il coraggio di intentare una causa contro quell’uomo, e quando gli avvocati del santone gli chiedono in che modo si sentisse manipolata, dal momento che aveva scelto liberamente di aderire a quel culto, Sesa Vellucci risponde: «È impossibile guarire da una cosa che non riconosci come una malattia» (p. 178).

Guarire, amare. Come possiamo notare, ritorna l’idea di guarire come principio di amore: è naturale e spontaneo amare chi ci guarisce; allo stesso modo, è naturale e spontaneo sentirsi male per l’assenza di amore. Perché la guarigione ha dei tratti comuni all’amore: l’affidarsi, lasciando che l’altro ci riconosca per quello che siamo, per il male che portiamo dentro, e ci dia l’unguento che ci salva; la gioia del sentirsi vivi, del sentire che il mondo ci appartiene ancora grazie al nostro guaritore; la convinzione di non ammalarsi più, finché il nostro guaritore ci starà accanto.

Eppure, ne La verità che ci riguarda, il paradosso apocalittico di fronte a cui ci pone Alice Urciuolo è proprio questo: per quanto sia naturale amare chi ci guarisce, quell’amore non è amore, ma soltanto una momentanea dipendenza. E tutto ciò che è dipendenza non può tradursi in sentimento. Perché nasconde una debolezza, una fragilità, che non si sana, che non diventa mai forza. L’amore, invece, è forza. È la forza che ci permette di reagire, e sconfiggere, il dolore. Questa lezione Milena, i suoi genitori, Sesa Vellucci la portano con loro e ce la restituiscono con il sacrificio (altro vocabolo religioso?) delle loro esistenze.

 

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