“Racconto storie per dimostrare che ero destinata a sopravvivere, pur sapendo che non è vero. Le mie storie non sono parabole, non contengono nessun personaggio indimenticabile da Readers’s Digest, nessuna polemica femminista, nessuna denuncia in stile Queer Nation. Non sono qui per far contento nessuno. Sono qui per rivendicare la mia vita, la morte di mia madre, le nostre sconfitte e i nostri trionfi, per dar loro un nome, per me.”

È assoluta la furia di Dorothy Allison, il dolore esposto e la ferocia dichiarata evocano nello spazio del racconto il tentativo di sgravarsi dal peso del vivere e rivendicare la propria natura. Ritenuta tra le voci più significative della letteratura sudista accanto a Flannery O’Connor, William Faulkner e Carson McCullers, raggiunge il successo con La bastarda della Carolina nominato al National Book Award. È il suo esordio nel 1988, Trash, a contenere i temi fondanti della sua intera produzione poetica e in prosa: un’indagine sull’identità mossa dalla personale eredità della violenza. La scelta dell’editore minimum fax di riscoprire Trash (la prima uscita italiana nella traduzione di Margherita Giacobino è del 2006 per Il dito e la luna), e di proporlo solo dopo La bastarda della Carolina (trad. Sara Bilotti, 2018) e il memoir per il teatro Due o tre cose che so di sicuro (trad. Sara Bilotti, 2019), consente di affinare la consapevolezza del lettore sui motivi dominanti di Allison, sul suo modo di assegnare alla parola esatta, onesta, l’incarico di cristallizzare accadimenti minimi, emblematici.

“Sono white trash, una bianca povera, questo è certo”. La rabbia e il desiderio di rivalsa esplodono in pagine che immortalano un’infanzia violata, una fame implacabile, nello sconforto di essere parte integrante di una miseria umana inalterabile. Usare la scrittura per attuare emersioni dall’orrore richiede l’adozione di una finzione, la necessità di costruire menzogne per esasperare la realtà.

In Trash si consuma il confronto dell’individuo con un trauma che fa presagire un degrado senza rimedio nel tratteggio di un’umanità negata. Anche nelle pagine più luminose, la narrazione di una formazione individuale risente di una dilagante malinconia, il rimpianto per aver creduto nella possibilità di emancipazione. Ancor più che per la memoria dei soprusi – la violenza sessuale subita dal patrigno dall’età di cinque anni – la voce della donna minata nel corpo e nello spirito si incrina nel rivivere il disincanto, la perdita delle illusioni provata nei confronti di quelle figure che parevano incarnare una forza incorruttibile e che per questo avrebbero dovuto salvarla, a partire dalla figura materna. Affama i tuoi desideri, le diceva sua madre. L’amore nei suoi confronti è soffocante, si nutre di risentimento per non essere stata liberata e per averle insegnato l’omertà. Una salvezza che non può trovare spazio in un contesto atavico, reso anzitutto attraverso il modo in cui è stato vissuto dalle figure famigliari femminili.

Nel rievocare i luoghi terribili e meravigliosi della sua crescita, che odorano di “erba bagnata e tagliata, mele verdi spaccate in due, merda di neonato e bottiglie di birra, trucco scadente e benzina”, Allison delinea un clima asfittico dove non è contemplata alcuna possibilità di cambiamento. Le vessazioni diventano un meccanismo interiorizzato e accettato implicitamente, al punto da perdere la cognizione di sé e annullare i limiti di quel che si è disposti ad accettare per sopravvivere.

Zia, come mamma, capiva tutto, non si aspettava niente, e guardava alla propria vita come a una tremenda storia di quelle che i preti raccontano nella predica della domenica. Era la prospettiva che tutte quelle donne avevano in comune, era il loro punto di vista, quello che io non potevo assolutamente accettare. Io credevo, credevo con tutta me stessa che quel fatalismo nascesse dalla morte, la morte era il seme e il frutto di quel torpore paralizzante. Ed era la mia rabbia che più di ogni altra cosa mi aveva allontanata da loro, e loro da me, la mia rabbia imprevedibile, irriflessa.

Una remissività che dilaga nell’assenza di speranza: l’unica via per contemplare uno stravolgimento passa per le fantasie di morte e distruzione.
Reinventare la realtà diventa in tale ottica il solo strumento di disubbidienza. La scelta di non aderire a una rappresentazione fedele del dramma si rivela anzitutto un modo di esorcizzarne il peso nel presente e portarlo fuori da sé, oggettivarlo e trasformarlo in immagini per condurre chi legge a interrogarsi sul concetto di giustizia, sullo spazio lasciato al perdono.

Allison usa l’esperienza del dolore per forgiare la propria immaginazione. Demolire e ricostruire una nuova versione della propria vita diventa un esercizio di volontà per provare a concepire se stessa come un reduce che sceglie di fronteggiare il tormento del passato e smettere di ascoltare le voci che la esortavano a fuggire.

Leggere oggi Trash suggerisce di esaminare le contraddizioni razziali e di classe nel condizionamento sociale e politico nel presente. La valenza letteraria che investe le pagine di Allison risiede nel modo di usare un’intima esperienza di dolore per definire un’evoluzione privata e collocarla nel tracciato di esperienze di emarginazione radicate nella cultura americana, al fine di indagarla da una prospettiva personale, senza pretese di coerenza.

Aspetti approfonditi in chiave critica nel saggio White Trash. Storia segreta delle classi sociali in America (trad. Pietro Cecioni, minimum fax 2021) dove Nancy Isenberg delinea la complessa storia dell’identità di classe risalendo al periodo coloniale americano e all’influenza generata dalla concezione britannica di povertà.

Conosciuti all’inizio come waste people poi come white trash, gli americani marginalizzati furono stigmatizzati per la loro incapacità di essere produttivi, di possedere terre o immobili, o di produrre figli sani e capaci di scalare la società – il sentimento di elevazione sul quale si basa il sogno americano.

Quanto sostenuto da Isenberg in merito alla tensione inquietante tra ciò che “gli americani insegnano a pensare che il paese prometta – il sogno della mobilità sociale verso l’alto – e la meno appetibile verità, ovvero che le barriere di classe rendono praticamente sempre irraggiungibile questo sogno” trova una traduzione narrativa nelle pagine di Allison.

In Trash l’aspetto dominante risiede nell’incapacità di coltivare il proprio incanto, l’illusione presto svanita di trovare nell’altro – la figura della madre che per estensione diventa l’adorata e detestata patria – una idea di salvezza, di liberazione e emancipazione dalla barbarie.

La stessa raffigurazione della malattia e dei patimenti di una madre suggeriscono l’impossibilità di un reale riparo, l’insensatezza del vivere, la convinzione che l’entità ultraterrena possa manifestarsi solo nella provvisoria sospensione del dolore. “Dio è ogni minuto in cui il dolore non ti mangia viva, ogni respiro che non è un rantolo”.
Allison individua nella forma breve la misura esatta di un sentimento, di un’attitudine, di un desiderio presto consumato, o portato sino allo stremo. Calibra un’esistenza sulla base di un privato tentativo di rigenerazione dal male. Il tempo del racconto assegna profondità a un luogo che pare cristallizzato nel ricordo, sonda le pulsioni, si arrende all’indefinitezza di incontri destinati a non generare cambiamenti, traccia la sospensione di relazioni dominate dalla dipendenza nei confronti dell’altro nella paura di un desiderio “troppo violento, troppo poco civilizzato, troppo pericoloso”.

Il graduale processo di affermazione della propria identità sessuale legato in parte al contesto sociale di appartenenza si fonda sul tentativo di sgravarsi, negli anni, dalle imposizioni e dall’immobilità. Una consapevolezza che arriva anche grazie alle vicende, osservate o ascoltate, delle donne della sua famiglia, definite “misurate, mascoline, asessuate, generatrici di bambini, di fardelli e di disprezzo” (Due o tre cose che so di sicuro). Sono le storie di quelle figure dimenticate, smarrite, divenute foto senza nome in una vecchia scatola di latta nella sala da pranzo, a contribuire alla composizione di un potente ritratto della condizione femminile negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta.

È una rabbia antica quella descritta da Allison, che non si esaurisce con una privata vicenda di abusi infantili ma diventa corale. L’urgenza di una liberazione può essere compresa solo accogliendone la traduzione fisica: la necessità di fare pace con la violenza che allaga il desiderio potrà placarsi solo quando il desiderio non vibrerà più “insieme al furore”.

Trash è il ritratto di una voracità implacabile, costantemente associata al fardello dell’infanzia. La fame che narra Allison è il ricordo del pacco di biscotti ripieni di lardo e formaggio preparati dalla madre per la scuola stretti al petto per ricordarle chi fosse; è la frenesia di ingurgitare ogni succo della sua amante per fondersi con lei.

Quando sono affamata mi tremano le mani, e affamata lo sono sempre stata. Non di cibo: ho mangiato abbastanza grasso di biscotti da bastarmi per una vita intera.

Il modo di raffigurare la dimensione sessuale rivendica una natura insolente, ingorda, a tratti si confonde con la brama di essere amata, e subisce una evoluzione che passa per la rabbia di una crudeltà segretamente invocata, come in una sorta di catarsi. La ricerca non si riduce all’urgenza di un appagamento ma si lega a un desiderio di incertezza nel provare l’ebrezza del mistero, in una sorta di tentativo di tornare all’innocenza e assolversi da colpe indotte. Riconoscere il proprio desiderio significa anche trovare nelle fantasie adulte un mezzo di compensazione per attuare tardivamente una ribellione e affrancarsi da quanto subito nell’infanzia.

Sono le intermittenze emotive dell’infelicità amorosa, le fugaci eccitazioni che incendiano le pagine più erotiche, le esplorazioni fisiche, i sussulti e la frustrazione del fallimento a rendere Trash il manifesto della passione, dell’ossessione e del dolore in Dorothy Allison.

Galleggio. Sono venuta così forte che le mie ossa sono diventate di cemento. Sono immobilizzata dal loro peso.

 

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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