Uomini e topi. “Rattatata” di Alfredo Speranza
di Naima Bolis
«Immagina di togliere dalla nostra vita i grandi e i piccoli fatti che l’hanno segnata: la scuola, un viaggio, la macchina nuova, il matrimonio, un lavoro. Eventi e cose così poco importanti in realtà, che non trovano un grande spazio nella nostra memoria, per non dire nel cuore. E togli i gesti ripetuti, le abitudini cieche, l’offesa degli impedimenti quotidiani: l’inutilità del fare e rifare, dell’arrivare a sera misurando quanto tempo s’è perso, ché tutto va in pula e si dimentica presto. Che resta? Le storie nostre e quelle degli altri. La vita è le storie in cui siamo o che ascoltiamo.»
Rattatata è un romanzo corale, metaletterario, a tratti allegorico, in cui i personaggi abitano luoghi periferici, di margine, di passaggio, e segnano talvolta un confine che non è soltanto geografico. Grazie alla voce narrante dello Scrittore, tante piccole storie e vite si muovono tra Roma e l’America, in uno spazio anacronistico che in alcuni momenti diventa ogni città e che, come in un errore della memoria, sfuma i contorni di ciò che viene raccontato.
La trama e la struttura di questo romanzo sono inserite in un sistema complesso, difficilmente ascrivibile a uno schema lineare: è un romanzo «orbicolare», come viene definito dallo stesso Scrittore.
Le vicende dei personaggi talvolta si accompagnano per mano l’una dentro l’altra, mantenendo salda la connessione anche di fronte a flashback e digressioni; altre volte, i protagonisti abbandonano il lettore tra luoghi e volti non riconoscibili, per poi riprenderlo dopo giri disorientanti e riportarlo a quelle vite che ha già incontrato, in qualche modo sempre riconnesse.
Le storie parlano di migrazione, di sradicamento, talvolta anche di snaturamento: in relazione alla propria casa, o alla propria condizione, oppure ancora a una volontà resa inattuabile dalle circostanze o dall’inettitudine.
Ci sono delle vite che durano dalla nascita alla morte e altre che si fermano prima che arrivi la fine. Ce ne sono di lunghissime, e altre che sbocciano per poi spegnersi presto o chiudersi dentro uno scrigno, un’abitudine, una stanza, che sarà la loro prigione.
Fatta eccezione per lo Scrittore, che ha una responsabilità quasi didascalica nel suo tenere insieme tutta la struttura, nel giocare con i piani metaletterari dei suoi romanzi nel romanzo, non è facile stabilire una gerarchia fra i personaggi, e nemmeno fra le loro vicende.
Così, gli abitanti di quei luoghi di margine scorrono come sulle rotaie trascurate di una stazione dismessa, e allo stesso tempo rispondono al senso di una cosmogonia ordinata: ci sono Lidia e Faustina, le anziane «proprietarie» di Porto Giordano, a cui la vita ha lasciato infermità e un futuro sempre identico a sé stesso, al punto di sembrare già esaurito; sono legate a loro le storie di Bruno e Pryma, e il destino che li ha portati a trovare l’amore a Porto Giordano; vivono lì anche Carina e Bacchisio, che erano emigrati a Coney Island e che si sono sentiti spaesati quando l’hanno dovuta lasciare.
C’è poi il Villino degli Afflitti, la casa editrice in cui lo Scrittore incontra l’Editore, Mariella e tutti insieme frequentano il bar del Pedrelli, un altro crocevia di storie.
Ci sono Sax e Piano, e poi soltanto Sax, che escono dalle pagine del secondo romanzo dello Scrittore e che offrono al pubblico la loro suonata malinconica, da personaggi di carta che non possono modificare la loro sorte.
Il Chilometro, un altro margine, è il secondo microcosmo all’interno del quale si muovono altre vite, così simili a quelle di Porto Giordano da trovare un punto d’incontro nel vialetto della Clinica del professor Onorato, dove fra gli altri si incrociano i destini smemorati della vecchia Anne e della giovane Beatrice.
Nel romanzo di Alfredo Speranza ogni personaggio è l’inconsapevole portavoce di una scelta, che sia cosciente, inconscia o che arrivi imposta dall’esterno, e diventa emblema di un dolore piccolo, di quelle istanze dell’animo umano considerate minori, o marginali, proprio perché spesso destinate fin dall’inizio a non poter essere soddisfatte.
Anche in questo senso i personaggi sono sradicati: sono espropriati del loro sentire, schiacciato dalla gerarchia, arbitraria, di un «ordine delle cose» e della costante (e spesso autoimposta, oppure culturale) sottostima del bisogno e del benessere.
Anche lo Scrittore è, in qualche modo, uno sradicato:
Mio padre mi chiamava meschinello, che stava per sempliciotto, pigro, irresoluto, inadatto all’esistenza com’è veramente, e alla stizza accompagnava un evidente fastidio per la mia poca e triste figura. Poi avrebbe cambiato appellativo ridacchiando cattivo: scrittore. Lui, un guerriero col volto da pugile e l’addome a botticella, che avanzava piegato in avanti, sempre all’attacco, non si capacitava di avere un figlio che inciampava nelle cose del suo teatro, e che, anzi, ci andava a sbattere, e che amava star chino per ore sui libri: “E stai dritto, cazzo! Ma com’è che t’è presa questa mania delle favole, con tutto quello che c’è da fare in azienda?”
Forse, tutto avviene proprio in una trasfigurazione del suo ruolo di narratore, di strumento che presta sé stesso alla narrazione e che ne asseconda il moto: in molti punti le storie danno infatti l’illusione di sfuggire alla pagina, di rendersi indipendenti da tutto il resto, moltiplicando i livelli entro i quali si muove la finzione e insinuando la percezione di un delicato realismo magico.
A racchiudere le orbite entro il rigore del ritorno, c’è Porto Giordano:
E c’è questo posto, un’isola dentro Roma, che si chiama Porto Giordano: tre palazzine e una corta stradina che corre per tutta la sua lunghezza, tra la tangenziale alle pendici di Monte Mario e il Lungotevere Flaminio. Ha la forma di una mandorla ed è leggermente sotto il livello del fiume, invisibile dalle due strade dove scorre un traffico ininterrotto. Unico accesso è un corto svincolo a gomito che dal Lungotevere attraversa un vecchio cancello arrugginito seminascosto da rovi e da canne.
È uno «spazio per uomini e ratti»: le vicende degli uomini si incrociano e sovrappongono con l’epopea dei ratti che lo infestano, in uno scambio di testimone ben cadenzato che in alcuni punti crea snodi, ganci, ribaltamenti di prospettiva.
Il romanzo comincia dalla Ratta e ritorna sulla Ratta: questa bestia, che rappresenta un popolo su cui incombe la catastrofe di un’inondazione, è sola contro la crudeltà cannibale del destino della sua specie, dove il margine del libero arbitrio si assottiglia sul crinale delle disgrazie incontrastabili e della ciclicità della storia, che lascia poco margine di riscatto.
La società dei ratti è governata dal Topo Magno, quasi un totem, che simboleggia bene la crudeltà fagocitante della sorte: non può essere sconfitto, perché alla sua morte un altro membro della specie prenderà il suo posto; non ci sarà alcuna memoria a cercare di sovvertire questa legge.
Già in questo, il destino dei ratti sembra essere trasfigurazione di quello di molti uomini; anche qui, la migrazione, lo strappo, è ciò che li tiene su un binario parallelo:
La tribù dei ratti ha intanto raggiunto l’altro lato della tangenziale e le bestie cominciano ad arrampicarsi sulla scarpata di Monte Mario. E sono i curdi che tirano carretti, gli albanesi con i carrelli rubati ai supermercati, i siriani con i giubbotti di salvataggio e le borse strette al petto, i messicani alla guida di Ford scassate, i rumeni che si tengono per mano. E sono Serena e Luisa, Carmela e Luigi che si intruppano su treni e corriere per andare in Belgio nel 1951. Valigie di cartone e spago, abiti troppo leggeri, e le bambine che piangono di stanchezza e sgomento. La gente li guarda infastidita, guarda le scarpe sporche del padre e i capelli unti e scomposti della madre. E sono Serena e Luisa, Carmela e Luigi che arrivano in Belgio e poggiano valigie e stanchezza in un appartamento di due stanze, bagno e cucina, dove vive un’altra famiglia.
È sempre impressionante come gli animali, e in particolare i topi, siano così simili all’essere umano sia nelle dinamiche sociali, sia nelle situazioni esasperate e drammatiche: è dove prevale l’istinto, talmente rifiutato nel caso degli uomini da dover essere sublimato in inconscio collettivo, in archetipo, talvolta in epica.
L’epica dei ratti, una specie odiata, da sterminare, da temere, metafora utilizzata per designare un’umanità infima, vigliacca e moralmente degradata, diventa allora l’epica degli emarginati, dei privati della loro casa e delle loro radici, di chi è colpevole di dover scappare, o di chi è semplicemente un rifiutato.
Non tutti odiano i ratti a Porto Giordano: sembra infatti che queste bestie, e in particolare la Ratta, riescano ad avere affinità con le persone che hanno qualche «anomalia», genialità, malattia o nevrosi, che spesso coincide con un’ipersensibilità interpretata come bizzarria.
Ragionando sul tema del margine, del limite, ancora una volta i personaggi del romanzo si confermano essere un elogio a quest’aspetto umano, comune, ancora troppo schiacciato da istanze di pretesa normalizzante che poco hanno a che fare con la vita, con la realtà.
Speranza governa con maestria ogni tassello del suo mosaico: la scrittura è armoniosa, leggera nella sintassi e misurata nella scelta delle parole e del registro, che tiene in equilibrio regionalismi, accenti, dialettismi e modi di dire senza mai debordare nell’eccesso o nel difetto. La precisione della lingua alleggerisce la struttura complessa degli intrecci, senza mai perdere in coerenza e senza che il filo del gomitolo s’ingarbugli in forzature o artificiosità.
Con le sue suggestioni, che riportano alla tradizione del romanzo di borgata, Rattatata non ha pretesa di celare una morale sterile, perché non c’è.
Mio padre non è stato quello che aveva sempre detto di essere, quello che per tutta la vita ha preteso di essere. Nessuno di noi lo è. Era stato il Capitano di una nave piccola e forse insignificante che però era stata la sua vita e quella del suo mozzo fedele, affondato nella stessa deriva.
Forse, in Rattatata si può trovare un avvertimento, un promemoria; un’apologia della vita per quella che è, e per tutto ciò che ne rimane, fino alla fine.