Pubblichiamo un pezzo uscito sul Messaggero, che ringraziamo. (fonte immagine)

L’alba del fenomeno della sparizione forzata in Colombia ha una data e porta il nome di una donna. Era il 9 settembre 1977, quando un battaglione dell’intelligence di Stato, in ossequio alla dottrina della Sicurezza nazionale applicata a ogni forma di dissidenza, sequestrò all’aeroporto di Barranquilla la batteriologa e militante dell’ELN Omaira Montoya che aveva trent’anni ed era al terzo mese di gravidanza, disperdendone le tracce.

La sparizione forzata si pone il fine di occultare il posto in cui è nascosta la vittima. I propositi dei rapitori sono specificatamente politici. Si confondono le informazioni sul destino degli scomparsi. Secondo l’Istituto Nazionale di Medicina Legale la sorte di Montoya è toccata a 37.067 donne con responsabilità diffuse dalle forze militari dello Stato agli altri attori della guerra civile. Il momento più critico per la quantità delle sparizioni risale al quinquennio 2000-2005 e in precedenza negli anni Ottanta.

Oggi nel Paese centoventimila famiglie attendono di scoprire dove siano i propri cari, che risultano desaparecidos, e vivono nel limbo di un’assenza indefinibile. Secondo lo studio più organico, diffuso nel 2018 dal Centro Nacional de Memoria Historica, durante il conflitto armato tra il 1958 e il 2018 si stima siano 86.000 le persone scomparse forzatamente, 32.000 quelle sequestrate e 17.000 reclutate con violenza nelle fila delle varie milizie e dei corpi militari.

Il conflitto armato colombiano, lungo mezzo secolo e tutt’altro che concluso, si combatte spesso sul corpo delle donne che continuano a essere uccise, perché si schierano in prima linea nella difesa dei diritti umani e dei territori, soprattutto nelle zone rurali, governati dai cartelli del narcotraffico e dagli interessi economici delle industrie estrattive illegali come quella dell’oro. La pandemia ha contribuito a far saltare il precario disequilibrio sociale colombiano con il 42% della popolazione che vive in stato di povertà con le diseguaglianze più feroci dell’America Latina.

Le donne, che da cinque anni sostengono l’implementazione dell’accordo di pace del 2016 tra il governo colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – FARC lottando per condizioni di vita più eque, sono nel mirino. Negli ultimi cinque anni sono cadute 146 costruttrici di pace a causa di omicidi premeditati. In un recente agguato, teso da un gruppo armato, la leader indigena María Bernarda Juajibio, sindaca del Resguardo del Cabildo Kamentsá ‘Biya’, è stata assassinata insieme alla nipote di un anno e mezzo nel villaggio di La Esmeralda, a Orito. Un mese dopo è accaduto a Sandra Liliana Peña Chocué, governatrice della riserva indigena La Laguna-Siberia SAT Tama kiwe e madre di due figlie. Una leader che aveva sfidato a viso aperto i narcotrafficanti che infestano la regione strategica del Cauca per la produzione della cocaina.

Le donne rifiutano il destino della vittima e sono protagoniste del difficile processo di costruzione della pace. Luz Marina Monzón Cifuentes è una di loro. Per vent’anni ha difeso le vittime delle violazioni nei tribunali colombiani e nel Sistema Interamericano di Giustizia per i diritti umani. Lei è un punto di riferimento in America Latina della Commissione Internazionale sulle persone scomparse (ICMP). Ora Monzón è al vertice dell’Unità di Ricerca dei Desaparecidos (UBPD), che ha un mandato ventennale nel Sistema Integrale di Verità, Giustizia, Riparazione e Non Ripetizione, creato nell’ambito dell’accordo di pace con l’intenzione di mettere per la prima volta le vittime al centro di un percorso inedito di riconoscimento delle perdite subite e di riconciliazione attraverso l’accertamento della verità e l’applicazione della giustizia riparativa.

La missione dell’UBPD è dispiegata in tutto il Paese con piani regionali e non è vincolata ai processi giudiziari. Nell’Istituto Nazionale di Medicina Legale è stata istituita la banca dati genetica, che raccoglie i campioni di DNA dei famigliari degli scomparsi, necessaria per l’identificazione dei resti umani rinvenuti nelle fosse comuni e in altri luoghi. «La situazione dei desaparecidos non riguarda solo i parenti – osserva Monzón –. È una questione di Stato. Molte donne sono state vittime delle sparizioni forzate e al contempo sono le più tenaci nella ricerca dei propri cari. Non si arrendono e non si fermano neanche davanti alle minacce». Nell’ultimo decennio il coraggio di un gruppo di madri ha scosso il Paese dalla rassegnazione e dal rischio dell’oblio indifferente.

Nell’avanzamento della ricerca di verità e giustizia hanno un ruolo fondamentale le Madres de los llamados “Falsos Positivos” de Colombia (Mafapo): 6042 madri cercano di ritrovare i figli e di ricostruire esattamente che cosa sia successo. Dal 2002 al 2008, durante il mandato presidenziale di Álvaro Uribe, le forze militari e di polizia dello Stato colombiano hanno ucciso almeno 6.402 civili che sono stati presentati alla nazione come guerriglieri, morti dunque in combattimento. Sono stati presentati come un risultato positivo della politica di “Sicurezza democratica” contro i gruppi fuorilegge, quando in realtà non avevano nulla a che fare né con le FARC né con altre formazioni militari. Da ciò deriva la dicitura “falsi positivi”. A marzo una rappresentanza dell’associazione Mafapo è stata ascoltata in modo congiunto dalla Giurisdizione speciale per la pace e dalla Commissione per la Verità. Come ha detto la commissaria Alejandra Miller Restrepo, queste donne insegnano alla Colombia, e non solo, che cosa significhi tatuarsi il dolore e l’amore sul corpo.

Le parole di una madre, Doris Tejada, lasciano il segno: «Per qualunque persona è difficile immaginarsi di fronte a una fossa nella quale giacciono impilati molti corpi, uno sovrapposto all’altro, e sai che devi muoverli e vederli da vicino, uno a uno, per incontrare chi hai amato. Affrontare faccia a faccia così la morte è qualcosa che nulla può cancellare dalla mente, riemerge costantemente come un incubo. Nel mio caso il dolore è ancora più forte, perché ho dovuto confrontarmi spesso con questo incubo senza ricevere il corpo di mio figlio, senza conoscere la verità, senza sapere dove si trovi. Ora ho paura che svaniscano le possibilità di incontrarlo, perché potrebbero costruire sopra il luogo, dove è possibile che sia stato sotterrato».

La settantatenne Doris e il marito Dario hanno parlato con Óscar Alexánder, il quinto di sei figli, per l’ultima volta il 31 dicembre 2007. Óscar è stato assassinato il 16 gennaio 2008. Da tredici anni non consentono di ritrovare i suoi resti. Nel 2011 il Cuerpo Técnico de Investigación della Procura della Nazione ha informato la famiglia che il figlio era morto in guerra a El Copey, Cesar. Era diventato da venditore di capi di abbigliamento, che provava a lavorare a Cúcuta, un supposto guerrigliero. Il volto di Óscar appare tra i tessuti della piccola sartoria domestica nella loro casa di mattoni e Doris, come le altre madri, lo ha tatuato sul braccio destro. Nulla potrà riparare il dolore, ma vogliono rompere la congiura del silenzio e restituire la dignità alla storia di Óscar che aveva ventisei anni.

L’impegno coinvolge diverse generazioni di donne per la concretizzazione dell’accordo di pace de L’Avana. Naydú Cabrera Reyes, giovane avvocatessa della Giurisdizione speciale per la pace, descrive così le implicazioni personali del processo: «Come funzionaria pubblica appartengo all’unità che va nei territori a parlare con le vittime. Ho potuto conoscere quindi più da vicino le realtà locali distanti da Bogotá e credo che questo mi abbia cambiato la vita. Il processo è frustrante, non posso mentire. Constatare la quantità di vittime e di problematiche che ci sono, l’ambiente politico così complesso in cui viviamo è stato sconfortante. Questo non è solo un lavoro ma una missione: restituire con la verità la dignità alle vittime».

 

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gabrielesantoro@minimaetmoralia.it

Gabriele Santoro è giornalista professionista dal 2010. Ha lavorato per Adnkronos, gli esteri di Rainews24 e Tv2000. Dal 2009 collabora con Il Messaggero. Scrive per il venerdì di Repubblica, Minima&moralia, Il Tascabile – Treccani e l’Osservatorio Balcani – Caucaso. È autore del saggio inchiesta «La scoperta di Cosa nostra. La svolta di Valachi, i Kennedy e il primo pool antimafia» (Chiarelettere, 2020), della guida narrativa «111 luoghi di Roma che devi proprio scoprire» (Emons, 2022) e di «Tutti i colori del rosso» (Feltrinelli, 2024)

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