Il romanzo di formazione musicale firmato dagli Arctic Monkeys
di Silvia Ingusci
Disgraziatamente, Alex Turner non possiede una bruttezza iconica e incontestabile come quella, per esempio, di Serge Gainsbourg o di Adrien Brody: di un uomo obiettivamente riconoscibile come brutto che ha, appunto, il grande vantaggio di possedere un tratto distintivo, che, se da un lato lo estromette dall’esclusiva comunità dei belli, dall’altro lo separa anche dalla massa informe dei non-belli, ovvero da quella pletora di volti scialbi e dimenticabili che incontriamo tutti i giorni in metropolitana.
Quella del frontman degli Arcitc Monkeys è una bruttezza del tutto ordinaria, tanto da causare qualche remora a essere chiamata, senza mezzi termini, bruttezza. Si tratta piuttosto, molto più prosaicamente, di mancanza di bellezza: la normale umanità di un paio d’occhi leggermente sporgenti, di una corporatura media, delle guance segnate dall’acne e del lungo naso inglese.
Con quel suo aspetto così comune, Alex Turner avrebbe potuto frequentare il mio liceo, o lavorare in una tabaccheria di Sheffield. Anzi, probabilmente è quello che avrebbe fatto, se a quattordici anni non avesse scelto di passare metà della sua giornata in un garage ammuffito a metà tra casa sua e il negozio di articoli per la pesca dietro l’angolo, a farsi sanguinare i polpastrelli sulle corde una chitarra e a scambiare audiocassette di Iggy Pop coi suoi amichetti sfigati che lo raggiungevano con la merenda preparata dalle rispettive madri.
La domanda che mi sono sempre posta con curiosità antropologica è quando un ragazzo smette di essere un tipo del tutto ordinario e diventa improvvisamente un figo. Qual è il momento in cui il nostro cervello smette di ragionare secondo un primitivo schema di attrazione fisica, e si converte a una complessa fascinazione mentale che solo in un secondo momento si trasforma in desiderio sessuale? Nel caso specifico, Alex Turner sembra essere il noumeno del ragazzo che mi sarebbe piaciuto al liceo, ovvero il teppistello col ciuffo negli occhi che suonava le cover degli Oasis e dei Blur nella boy-band locale, oltre a qualche timido pezzo di propria stesura.
Ogni fan degli Arctic Monkeys ha visto decine di volte il video di I bet you look good on the dancefloor cantata live su un palco scadente, in cui un Alex Turner ventenne dice “don’t belive the hype” prima di iniziare a cantare con la voce incerta di un ragazzo-non ancora uomo (stonando in più punti, per la verità). Una scena totalmente normale: sei un adolescente incazzato, fumi nel bagno della scuola, ascolti i Nirvana tutto il giorno con quel vago senso di insoddisfazione esistenziale. Chiunque abbia avuto 15 anni tra la fine degli anni ‘90 e i primi 2000, ha assistito a quel delirante fenomeno che sono state le boyband inglesi, i cui membri vestiti in coordinato hanno fatto impazzire i fan (le fan) con canzoni d’amore e una forte presenza scenica. Gli Arctic Monkeys delle origini hanno attinto a piene mani dall’universo brit-pop degli anni ‘90, se non proprio quello dei pettinati Backstreet Boys, almeno dalla loro controparte della alternative, i Blur in primis, ma anche gli Oasis e gli Strokes.
Ma mentre la scena alt-rock degli anni ‘90 si dissolveva, e con esso anche molte delle sue band più rappresentative, gli Arctic Monkeys hanno avviato la lenta metamorfosi la cui estrema propaggine è l’album uscito il 21 ottobre, The Car.
Mentre gli anni dei piccoli adolescenti insoddisfatti aumentano, Alex Turner passa da Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not (2006) a Suck it and see (2011) a Do I wanna know (2013): la musica degli Arctic Monkeys si colora di sonorità nuove, più sofisticate, la voce acerba di Turner si addolcisce, così come si mitigano i nostri furori adolescenziali quando ci lasciamo alle spalle quel periodo turbolento e brufoloso fatto di silenzi ostinati e tagli di capelli sbagliati, quando perdiamo la purezza intatta e grezza dell’adolescenza e iniziamo a concepire le note medie, a comprendere che il mondo è più complicato di come appare a un ragazzino di sedici anni che vuole dare fuoco al sistema.
Questo percorso verso una crescita artistica è anche, e soprattutto, la parabola personale e universale di ciascuno di noi, l’occasione per guardare noi stessi in retrospettiva, come se quei vecchi ragazzi di Sheffield fossero la proiezione di ogni ex-adolescente dei primi duemila giunto al turning point della sua vita, orientato a questo crepuscolo morale pieno di stile, che si dissolve in una serie di sonorità tenebrose, oscure, imprevedibili. La tempesta elettrica di Humbug (e degli ormoni) si è dissolta in una bonaccia, e l’adolescente fluorescente è diventato un trentacinquenne illuminato da luci soffuse che indossa dolcevita sotto completi color cachi, in una malinconica sala da ballo decorata in stile anni 70.
L’estetica gioca infatti un ruolo sempre più importante nella musica degli Arctic Monkeys, suggellando ogni giro di boa stilistico, a partire dalla non-estetica dei primissimi brani, fino alla minuziosa cura formale che contraddistingue Tranquillity Base Hotel + Casino (2018). The Car (2022) si dirige risolutamente in questa direzione: è un disco dal tono sofisticato, con un retrogusto un po’ blues che ricorda i Doors e Johnny Cash, e quegli echi sinistri a là Timber Timbre, dove la voce di Turner, sensuale ed elegante come mai prima d’ora, modulata senza virtuosismi, flirta languidamente con gli archi e il pianoforte. Un raffinato gioco intellettuale con sé stessi, in cui l’amarezza per l’inesorabile trascorrere del tempo si stempera in un personaggio sofisticato e altero, malinconico e dinoccolato, che si tiene stretto il proprio travestimento da viveur retro-futurista col pretesto che questo non sia nient’altro che una posa, un strumento per scrivere di canzoni («And I’m keeping on my costume / I’m calling it a writing tool», dice in Body Paint). Sì, forse con qualche rimpianto per l’ormai perduta giovinezza (anagrafica tanto quanto musicale), ma con l’evidente compiacimento della propria eleganza tutta “adulta”: un’auto-consapevolezza e una lucidità che rimarcano quella che lo stesso Turner ha definito “la piega terrestre” che ha preso questo nuovo momento degli Arctic Monkeys.
D’altronde, quando nell’esordio di Star Treatment avevamo sentito: «I just wanted to be one of The Strokes / Now look at the mess you made me make», Alex Turner e soci sembravano dirci che sì, è esistito per tutti quel periodo della vita in cui siamo stati delle rockstar (d’accordo, per alcuni più che per altri), ma non c’è nulla di terrificante nell’abbracciare il crepuscolo della propria divinità, il decadimento fisico e morale, la crisi e la ricostruzione, i fallimenti di ogni epoca della nostra vita. Turner ci chiede di guardare al pasticcio che gli abbiamo fatto combinare (abbiamo? Si riferisce al pubblico come a una sorta di forza maieutica?), a che generale ammorbidimento, a che cedimento muscolare, a che imborghesimento prima d’ora inimmaginabile si è avviata la musica degli Arctic Monkeys negli ultimi quattro-cinque anni. Perduto, non ha che sé stesso e le proprie velleità, e, come prosegue sempre in Star Treatment, lo vediamo fare autostop con nient’altro che una valigia monogrammata. Insomma, sì, un adulto, ma tutt’altro che arrivato a destinazione, piuttosto un viandante, un esploratore, sospeso come in un’opera teatrale di Samuel Beckett ambientata in una moderna periferia industriale inglese.
Una specie di romanzo di formazione musicale, insomma, che non sappiamo ancora come andrà a finire.
Ecco perché guardiamo alla parabola di Alex Turner con una sorta di piacere voyeuristico, come se fossimo spettatori della nostra stessa personale epopea di crescita, e mentre lui passa dall’essere un ragazzino con l’acne e il taglio di capelli di Liam Gallagher a incarnare un perfetto dandy contemporaneo che sorseggia mollemente Martini Dry dopo pranzo, a noi sembra di vedere il riflesso noi stessi, truci ragazzini e poi adulti disillusi. Ci chiediamo allora se l’arte rispecchia davvero la vita, se è vero che la musica parla di noi come abbiamo sempre creduto, e forse, alla fine, ci sentiamo anche un po’ meno soli.
Molto interessante sia il pezzo che l’evoluzione musicale degli Arctic Monkeys. Solo un appunto: gli Strokes non hanno molto a che fare con la scena brit pop degli anni ’90, primo perché sono degli anni zero e poi perché sono americanissimi di New York.
Scusate ma io l’ho trovato autoreferenziale, con delle inesattezze e banale