
Pubblichiamo un pezzo uscito su Linus, che ringraziamo.
Quando fate queste passeggiate letteralmente
viaggiate nel tempo lungo linee di associazione.
William Burroughs
Poiché abbiamo imparato a non essere tronfi,
consideriamo le stelle una grande famiglia.
Wystan H. Auden, Lettere dall’Islanda
Il file in cui ho messo insieme questi appunti l’ho chiamato “il niente”. Alcune estati fa ho tradotto M Train di Patti Smith. All’inizio del libro parlava di scrivere del niente. Diceva: “È molto più facile parlare del nulla”. Mi sono detta, usiamo questo niente. Scrivere in un file che si chiama il niente è come scrivere nel niente, non hai limiti e ti muovi sicuro. Prendo questi appunti muovendomi a caso nel suo mondo, ascoltando canzoni, leggendo interviste, guardandone altre su YouTube, guardando concerti su schermi minuscoli, altri dal vivo immensi, soprattutto aprendo e richiudendo libri, quelli che ha scritto, quelli che ha amato, quelli di cui parla quando la intervistano, quelli che cita nelle canzoni o nelle fotografie. Parlo al telefono. Faccio pellegrinaggi.
Il primo modo con cui ci avviciniamo ai nostri eroi sta nell’avvicinarsi alle loro opere. Quelle dell’eroe, e quelle amate dall’eroe. Se l’eroe è un artista (arte in senso lato, estesissimo e aperto) avvicinarsi è facilissimo. Nel mondo di Patti Smith ci sono molte delle mie persone preferite: Roberto Bolaño, Sam Shepard, Jim Carroll. Un’evidenza che non va confusa con la pura coincidenza. E poi: Giovanna D’Arco, Nabokov, le farfalle, il Chelsea Hotel. William Burroughs. La prima volta che sono andata a New York ho dormito al Chelsea Hotel. Andavo lì per un fine settimana, per vedere – già adulta da un po’ – com’era fatta la città. Ho dormito in una suite grandissima dalle pareti viola e le cornici dorate agli specchi.
Sono nata e cresciuta negli anni settanta. La mia era una famiglia di abitudinari della musica. Ascoltavamo ogni giorno gli stessi dischi, gli stessi cantanti, le stesse canzoni. Da una parte quelli di mio padre: Pink Floyd, Queens, Fabrizio De André soprattutto. Dall’altra quelli di mia madre: Beatles, Beach Boys, Lucio Battisti. Il punk nella mia infanzia semplicemente non c’era. Da dove sia arrivato e quando non ho nessuna memoria. Non mi ricordo di avere scoperto Patti Smith. A un certo punto ho solo cominciato ad ascoltarla. Era come se fosse lì da sempre.
Da qualche anno mi capita di sognare che mia madre è Patti Smith e viceversa. Per un po’ l’ho considerata una cosa mia, che capita solo nei miei sogni. Poi ho letto un romanzo la cui protagonista sognava più o meno la stessa cosa e ho pensato che avere Patti Smith per madre, o padre, o comunque genitore, deve essere parte di un qualche immaginario condiviso. Su un taxi a Milano, l’autore del romanzo mi ha detto: non credo debba essere granché avere Patti Smith per madre. Nel sogno della ragazza del romanzo, Patti Smith le dice qualcosa come: devi decidere, o salvi te o salvi gli altri. Nel mio sogno si dimentica di svegliarmi (o forse lo fa apposta) e io perdo la mia seduta di psicanalisi. “Tanto è inutile, non guarisci”, mi dice. Da sveglia mi sono chiesta se me lo dice proponendo l’arte come alternativa per guarire. In altri sogni mi dice: scrivi.
Una volta, mentre la intervistavo al telefono, ho chiesto a Patti Smith se non trovasse anche lei che nelle serie tv le detective donne sembrano sempre più intelligenti dei detective uomini. Che ti importa? mi ha risposto. Basta che siano detective. Forse non ha detto esattamente così, ma il senso era quello. Un modo per dire che la separazione del mondo in uomini e donne non è molto interessante. Poi infatti abbiamo parlato dei Detective selvaggi di Roberto Bolaño.
Bolaño ci unisce e ci divide. L’ho letto anni prima di sapere che anche lei lo amava, così quando ho scoperto che era tra i suoi scrittori preferiti l’avevo già letto tutto. Di Bolaño Patti Smith ha fotografato una sedia. Al telefono, nella stessa intervista di prima, le ho chiesto perché proprio la sedia. Ha risposto: perché scriveva al computer, nessuna macchina da scrivere, e i computer sono meno belli da fotografare delle macchine da scrivere, così ho scelto la sedia. Nell’intervista Patti Smith mi ha parlato anche della sedia di suo padre, che tiene nella sua stanza, e di quella di Jim Carroll, nella sua stanza del Chelsea Hotel. Si sedeva ai suoi piedi e lo ascoltava leggere le sue poesie. Dovresti scrivere una storia sentimentale delle sedie, le ho detto.
Susan Sontag e Roberto Bolaño sono i primi nomi che mi vengono in mente alla parola pellegrinaggio. Per come la vedo io, il pellegrinaggio è una faccenda che ha che fare più con l’arte che con Dio. Diciamo che è un fatto più spirituale che religioso. Quello di Susan Sontag quattordicenne da Thomas Mann, quello di Bolaño ragazzino da Alejandro Jodorowski – lo descrive nel racconto Carnet di ballo, ma non precisa l’età che aveva quando si sono svolti i fatti raccontati, sono io che lo immagino adolescente. Sontag quattordicenne amava La montagna incantata e si era lasciata convincere dal fidanzatino dell’epoca ad andare a prendere un tè a casa di Mann. Il secondo è andato da Jodorowsky perché gli insegnasse a diventare un regista. Entrambi sono tornati a casa sconfitti, la prima dalla noia di Mann e dal fatto che non parlasse “come un libro ma come la recensione di un libro”, il secondo in lacrime perché ferito da aspettative troppo alte. Due episodi nella vita di altri che mi hanno sempre tenuto alla larga dai pellegrinaggi a casa di eroi amati e ancora in vita.
Per anni mi sono tenuta abbastanza alla larga da Patti Smith. Avevo paura di incontrarla. La ascoltavo dal vivo e su cassetta, vinili e cd, alcune canzoni le ho imparate a memoria, leggevo i suoi scrittori e libri preferiti, ogni tanto la disegnavo ricopiando le sue foto con la bic o i pennarelli. Con gli anni mi sono presa di coraggio e un paio di volte sono andata a salutarla nei backstage e camerini, rimanendo perlopiù zitta. Un altro paio di volte l’ho intervista. La prima intervista l’ho fatta di persona, per una radio dove lavoravo, all’Auditorium di Roma, una delle interviste che rilasciava per promuovere un disco o un tour, non mi ricordo, il genere d’intervista che intervistato e intervistatore odiano fare perché si ripetono, annoiano tutti, non sono mai memorabili. La seconda è stata al telefono, una mattina di gennaio non so più di quale anno, felice epilogo di un ragionamento interiore di una giornata cupa. All’epoca mi svegliavo spesso di malumore e per migliorare le cose avevo deciso di intervistare Patti Smith. Dopo un rapido scambio di email con il suo tour manager avevo ottenuto un appuntamento telefonico per il venerdì successivo e il numero di telefono di casa sua. L’intervista è stata così bella che terminati anche i saluti ho ricopiato il numero su un foglio di carta e l’ho appeso in camera da letto. Un incrocio tra un numero di emergenza e un santino souvenir.
L’idea del pellegrinaggio associato ai propri artisti o scrittori preferiti è al centro di un lavoro della fotografa Annie Leibovitz. Il lavoro si chiama Pilgrimage e raccoglie foto di oggetti appartenuti a varie celebrità che hanno influito in misura minore e maggiore sulla sua formazione. Per quelle foto Leibovitz è letteralmente partita in pellegrinaggio sulle tracce di Emily Dickinson, Martha Graham, Ralph Waldo Emerson, Thomas Jefferson, Eleanor Roosvelt, Robert Smithson, Georgia O’Keeffe, Annie Oakley, Ansel Adams, visitando due dozzine di siti storici (musei, case museo, studi e simili) in America e Inghilterra. Nelle foto non ci sono persone, solo oggetti, stanze e paesaggi. Non è il lavoro più famoso della Leibovitz, ma probabilmente è il suo più personale e spirituale. Da anni Patti Smith con le sue Polaroid fa la stessa cosa: fotografa oggetti appartenuti alle persone che in qualche modo hanno ispirato la sua arte, e prevalentemente fa le sue foto durante pellegrinaggi privati nelle case, musei, studi di quelle persone. Anni fa, in un camerino dopo un concerto, le ho dato una polaroid fatta da me alla statua di bronzo di Giovanna d’Arco che c’è a Parigi a Place des Pyramides. Mi ha detto: è una polaroid, sei sicura di volermela dare? Le ho detto: sì, sei Patti Smith.
Un esempio di come può andare un pellegrinaggio lo descrive Victor Bockris in Con Burroughs. Il capitolo si chiama “Céline” e racconta di un viaggio fatto a Parigi nel 1958 da Allen Ginsberg e William Burroughs per andare a conoscere Céline. Bockris racconta di come Allen gli diede alcuni libri (Urlo, le poesie di Gregory Corso, La scimmia sulla schiena) e di come Céline “diede ai libri uno sguardo privo di interesse e quindi li posò come per non riprenderli più”. A parlare è Burroughs, che aggiunge: “Non aveva la minima idea di chi fossimo”. Poi racconta varia brillante aneddotica riguardante l’incontro – Céline che dice: “Porto con me i cani quando vado al villaggio per via degli ebrei. Il postino distrugge le mie lettere. Il farmacista non vuole prepararmi le ricette…” E su alcuni colleghi scrittori, da Beckett a Sartre e Simone De Beauvoir: “Ogni anno c’è un nuovo pesce nello stagno letterario”. Burroughs conclude dicendo: “Era come se ci fossimo introdotti in un romanzo di Céline”.
Patti Smith e William Burroughs si volevano bene. Forse Burroughs era la sua persona preferita, sicuramente una delle preferite. Per ragioni diverse nel tempo è diventato anche una delle mie. Quando sono triste a New York vado davanti il Bunker, sulla Bowery, e mi siedo sul gradino davanti alla porta. Fino a qualche anno fa sul citofono qualcuno aveva scritto “Billy” con il pennarello. Poi lo hanno cancellato.
Patti Smith al telefono, spiegandomi la fisica dei nostri eroi: “Ci sono grandi stelle e pianeti, ma anche stelle minuscole, ed esistono tutte quante, e non sono meno reali della terra. Ti sembrano irraggiungibili ma questo non significa che non siano vere”.
Photo credits © Lynn Goldsmith, 1977
È nata a Bolzano e ha vissuto ad Algeri e Palermo. Abita tra Roma e New York, dove traduce e scrive di libri, cinema e fumetti per La Repubblica, Il venerdì e D. Ha tradotto, tra gli altri, Charles Bukowski, Tom Wolfe, Jacques Derrida, A.M. Homes, Douglas Coupland, James Franco, Lillian Roxon e Lena Dunham, e ha tradotto e curato la nuova edizione italiana di Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll (minimum fax, 2012). Insieme a Daniele Marotta è autrice del graphic novel Superzelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald (minimum fax, 2011), pubblicato anche in Spagna, Sudamerica, Stati Uniti, Canada e Francia.