Little Steven: il rock and roll, la grandezza e la lunga strada verso casa

di Fabrizio Coppola

“A volte la vita non va come avevamo immaginato, e quindi ci imbarchiamo in un viaggio, un viaggio alla ricerca di noi stessi, di ciò che ci manca e di un posto che possiamo chiamare casa. E poi, magari decenni dopo, scopriamo che quel posto era sempre stato con noi, e che avremmo potuto raggiungerlo senza muoverci di un millimetro. Questo non vuol dire che il viaggio sia inutile, anzi, è necessario. È un viaggio di scoperta di se stessi.”

Questo mi risponde Little Steven, storico collaboratore del Boss e chitarrista della E Street Band, attore e attivista politico, quando gli chiedo di spiegarmi un po’ meglio l’episodio di cui scrive nell’ultimo capitolo della sua autobiografia, pubblicata in Italia da Il Castello nella traduzione di Sara Boero. In quel capitolo il nostro racconta della volta in cui a Londra, il giorno dopo aver girato un cameo per l’ultimo film di Scorsese, The Irishman, era volato a Londra per una tappa del suo tour solista. E quella sera Paul McCartney era salito sul suo palco per un duetto. In quel momento Steven Van Zandt aveva avuto un’epifania: era finalmente a casa, accanto all’incarnazione vera e propria di tutto ciò che lo aveva trasformato nell’uomo che era, una casa che in qualche modo era sempre stata con lui.

È strano conoscere gli eroi della propria gioventù, anche se nel caso di Little Steven l’uomo si sovrappone perfettamente al personaggio – e lo sguardo in tralice e il ghigno imperscrutabile che abbiamo imparato ad amare nelle foto che lo ritraevano sul palco accanto al suo amico Bruce gli si dipinge sul volto anche se non sta impugnando una Stratocaster. Con indosso un’ampia camicia patchwork multicolore, un paio di jeans e stivaletti di cuoio marrone, oltre al sempiterno foulard a coprire il capo, Little Steven si sottopone con una certa gioia al fuoco di fila delle domande rivoltegli da Niccolò Vecchia, Claudio Agostoni e da me per questa chiacchierata sul palco dell’Arci Bellezza trasmessa in diretta da Radio Popolare.

Chiudo per un attimo gli occhi e ritorno a quel periodo tragico e glorioso che passa per adolescenza, quando ho trascorso un’infinità di pomeriggi chiuso nella camera che condividevo con i miei due fratelli ad ascoltare un sacco di musica – ero un adolescente disadattato, ipersensibile e solitario. In particolare in quel periodo Springsteen e la E Street Band mi erano arrivati addosso come un treno in corsa – il Boss contava quattro e il mio cuore andava in pezzi. E quando alla fine di quei lunghi e solitari pomeriggi affollati di voci di musica mia madre chiamava dall’altra parte della casa per dire che la cena era pronta, io nicchiavo la prima volta, rispondevo con un “Arrivo” poco convinto la seconda e capitolavo la terza: in quei casi, se il brano non era ancora terminato, mi avvicinavo allo stereo Phillips che possedevamo allora – due posti cassetta, piatto e lettore cd – e sussurravo: “Scusate”, come un fedele costretto ad abbandonare la cerimonia prima della fine. Poi mi costringevo finalmente a premere il tasto Stop.

“Ho visto i Beatles, i Rolling Stones, Jimi Hendrix quattro volte… So riconoscere la grandezza quando me la trovo davanti agli occhi. Offro il mio supporto, cerco di rendermi utile. E anche se personalmente magari non raggiungerò mai quei livelli in campo artistico, aspiro sempre alla grandezza, ho un’etica del lavoro rigidissima e metto l’asticella sempre molto in alto.”

Sentire un uomo che nel corso di una vita a dir poco rocambolesca ha avuto modo di lavorare ai più alti livelli dell’industria discografica, televisiva e cinematografica, oltre ad aver davvero contribuito a cambiare davvero il mondo con le sue campagne politiche, esprimersi in questo modo e con una simile umiltà è una lezione da mandare a memoria e da portare sempre con sé.

Steve si gode gli applausi, l’abbraccio a distanza del sempre caloroso pubblico italiano. Poi tutto finisce, ci saluta con una stretta di mano, gli sussurro un “Grazie” e poi lo osservo abbandonare il palco scortato dai suoi assistenti. Io resto lì, un po’ inebetito, a rimuginare sulle circostanze della vita. E sul fatto che all’improvviso, in una tranquilla domenica di ottobre, si rifanno vivi tutti i sogni che avevi sognato, affiancati da quelli che stai sognando adesso e da quelli che sognerai. E ti senti finalmente a casa, la casa da cui non ti eri mai allontanato ma che hai impiegato quasi una vita e decine di migliaia di chilometri per raggiungere.

 

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