Un glorioso fallimento. Trent’anni dopo.
di Fernando Rennis
Ricorre in questi giorni il trentennale del fallimento della Factory Records, un cortocircuito culturale britannico a cui sono bastati quattordici anni di attività, più di settanta artisti e trecento dischi pubblicati, per esercitare un’influenza ancora viva. Non solo in campo prettamente musicale.
La storia dell’etichetta e i suoi protagonisti sembrano usciti dalle penne dei migliori sceneggiatori hollywoodiani e, invece, si tratta di persone cresciute in una Manchester post-bellica che, elettrizzate dal deus ex machina Tony Wilson e dal suo innamoramento per la filosofia situazionista, ci hanno regalato gli Happy Mondays, i New Order, i Joy Division. Già, i Joy Division…di seguito un estratto da “Un glorioso fallimento. L’eterno presente della Factory Records” pubblicato nel giugno 2022 da Arcana edizioni.
Io me la ricordo bene la prima volta che ho ascoltato unknown pleasures dei Joy Division: ho resistito dieci minuti. Un maelstrom vorticava attorno a me, fino a inghiottirmi. Da dove arrivava quella musica? Come facevano dei ventenni a concepire suoni e testi così profondi?
Ci tornai presto in quel non-luogo lovecraftiano; una terra desolata che univa piaceri sconosciuti a suggestioni letterarie, pulsioni recondite a una voce ipnotica che ti cantava dietro le spalle. Una terra di mezzo in cui vagavo turbato dalla sensazione di “orrendo che affascina”, che Edmund Burke usa per descrivere il sublime, e abbandonato all’unheimlich – ciò che risulta “stranamente familiare” – di cui parla Freud. Tempo dopo Mark Fisher mi illuminò: i Joy Division “colgono lo spirito depresso dei nostri tempi” ed esprimono “in termini catatonici il nostro presente, il loro futuro”.
Chi aveva avuto l’ardire di far uscire questa roba? Cominciai a scavare e feci la conoscenza di una Manchester postindustriale che pullulava di energia lisergica, di un gruppo di visionari troppo impegnati a fabbricare arte per prendere sul serio la vita e, soprattutto, scoprii tanta musica. Un sound eterogeneo, strano, sperimentale, a volte incomprensibile, sempre affascinante: un intero catalogo da navigare in lungo e in largo. Dentro c’erano il reggae, il post punk, il jazz, la dance, il funky. C’era il freddo dei Joy Division e il sound psicotropo degli Happy Mondays, lo sperimentalismo dei Cabaret Voltaire e il synth pop degli Orchestral Manoeuvres in the Dark. E poi quelle copertine degli album così evocative si incastravano alla perfezione con la musica che contenevano, come pezzi di un puzzle architettato da chissà quale sciamano metropolitano.
Quando continuai a scavare mi imbattei in una storia unica, in cui il supremo concetto dell’arte per l’arte s’intreccia con l’ambizione di ridefinire il mainstream e l’avanguardismo penetra nel pop, lasciandosi ibridare in un campo neutro dove gli errori diventano opportunità. Una storia affascinante che proviene da un periodo lontano anni luce dalla società iper-digitalizzata dei giorni nostri, ma ricco di musica che guardava al futuro.
L’epopea dell’etichetta britannica Factory Records, nella quale confluisce anche la storia del club Haçienda, è molto più di una semplice successione di fatti. In essa convivono gli estremi dell’esperienza umana: il fallimento, l’estasi, la morte, l’edonismo. I suoi dischi hanno fatto storia, le sue grafiche sono finite ovunque; è riuscita, almeno per una stagione, a fare di una città industriale dell’Inghilterra settentrionale il centro del mondo, al pari di Londra e New York.
La Factory ci ha messo quattordici anni a chiudere i battenti – quasi un miracolo se si pensa alla gestione passionale ed economicamente scellerata dei suoi soci – ma le sono bastati pochi mesi per conquistare l’eternità.
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