Una nuova rubrica a cura di Anna Toscano, a cadenza quindicinale. Dieci domande a poetesse e a poeti per cercare di conoscere i loro primi avvicinamenti alla poesia, per conoscere i loro albori nella poesia, quali siano stati i primi versi e i primi autori che li hanno colpiti, in quale occasione e per quali vie, e quali i primi che hanno scritto. Per scoprire di un autore o di una autrice di cui amiamo lo scrivere in versi gli inizi nella poesia. Dieci risposte per capire che tipo di fede sia la poesia, dieci piccoli quadri che rimarranno per sempre con noi lettrici e lettori.

Qual è la poesia che hai incontrato, e quando, che ti ha fatto pensare, per la prima volta, che fosse qualcosa di fondamentale?

Ero un bambino che pensava soltanto a giocare a pallone: pomeriggi interi trascorsi tra dribbling, corner, fuori gioco, magliette strappate e la paura che arrivasse un vigile urbano. In questo universo biografico all’improvviso si è affacciata la poesia. La scoperta della sua potenza, in terza elementare, fu un terremoto. Lessi per la prima volta “Davanti a San Guido” di Giosuè Carducci e rimasi folgorato da alcuni versi, che mi risuonavano nella mente come una presenza magica e che non mi abbandonavano più. “Sette paia di scarpe ho consumate / di tutto ferro per te ritrovare: / sette verghe di ferro ho logorate / per appoggiarmi nel fatale andare. / Sette fiasche di lacrime ho colmate / sette lunghi anni di lacrime amare: / tu dormi alle mie grida disperate / e il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.”. E mi sono accorto che si trattava di una lingua speciale, perché non riuscivo a riassumerla. Ci ho provato mille volte a casa con mia madre e mio padre. Descrivevo la situazione in termini generali, con il ritorno del Carducci nel luogo natale, i cipressi, la nonna Lucia, la lingua toscana. Ma era una descrizione inerte e non convinceva nessuno. Il prodigio avveniva solo nella pronuncia della poesia ad alta voce, con quegli endecasillabi cadenzati, quelle rime, quelle quartine strettamente connesse, quelle assonanze immediate. Così la imparai a memoria e imparai anche a recitarla. Ogni poesia che ci è cara si fa imparare a memoria, evento spontaneo e amoroso: le sue parole entrano in noi “par coeur” e decidono di restare.

Qual è il primo autore o autrice che ti è rimasto/a in mente come poeta?

Sicuramente Eugenio Montale. Quello per Carducci fu un trasporto legato a una sola poesia, per quanto memorabile. Con Montale c’era invece un’adesione profonda alla sua parola petrosa, innanzitutto, e poi al suo ateismo severo e al suo intero universo esistenziale: l’uomo ubriaco d’angoscia che si sente assediato dal nulla, la carrucola che porta a galla un antico amore, la casa dei doganieri dove il suo sorriso era ancora lieto. Ringrazio la sorte di essere stato favorito in questo incontro (siamo nel periodo delle medie) da un’antologia coraggiosa che includeva anche poesie di La bufera, compresa quella tragica e meravigliosa intitolata “Due nel crepuscolo”, dove gli amanti, quasi posseduti da un sortilegio, rimangono immobili, uno di fronte all’altro, senza più nessun contatto, smarriti nella propria solitudine.

C’è stata una persona o un evento nella tua infanzia, o giovinezza, che ti ha avvicinato alla poesia? Chi era? Come è accaduto?

No, è stata una ricerca solitaria, quasi ascetica, che mi portava a trascorrere intere giornate tra i libri della Hoepli, posseduto anch’io da un sortilegio. Nessuno doveva accompagnarmi o darmi indicazioni: era necessario, come in un duello rusticano, che non ci fossero spettatori.

Quali sono i primi libri di poesia che hai cercato in una biblioteca o in una libreria?

Ho trascorso una buona parte della mia vita alla Biblioteca Sormani di Milano. In quella grande sala silenziosa, durante gli anni della scuola media, ho letto e riletto le opere degli autori che sentivo fratelli, autori spesso legati al tema del ritorno e delle sue rivelazioni: Francesco Petrarca, Torquato Tasso, Giacomo Leopardi, Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud, Dino Campana, Cesare Pavese, partendo dal mondo greco-latino e in particolare dai tragici e dal grande poema filosofico di Lucrezio, il De rerum natura, che già allora mi ero ripromesso di tradurre.

Il primo verso, o la prima poesia, che hai scritto e che hai riconosciuto come tale: quando è stato, e in quale circostanza?

Ho stracciato tutti i miei tentativi poetici precedenti al 1967, ossia scritti durante la scuola media e la quarta ginnasio. Da quell’anno in poi invece ho cominciato a custodire dentro un vaso sacro i miei versi, partendo da un breve testo con rime e assonanze che qui ripropongo. Questo testo aprirà un libro di prossima pubblicazione nella collana Stampa 2009 di Maurizio Cucchi che raccoglie tutta la mia opera “giovanile”, una settantina di poesie, ed è appunto il primo in ordine cronologico: l’ho scritto nel febbraio del 1967, quando una bella calciatrice apparve all’improvviso nel cortile dell’Istituto Gonzaga di Milano, dove facevamo ogni sabato le nostre partite settimanali e dove vedemmo un pomeriggio questa creatura lieve e fiabesca, che peraltro giocava molto bene a pallone e sembrava la giovane antenata di Barbara Bonansea, torinese come lei e amante come lei dei dribbling funambolici:

Canzoncina per una bella ala sinistra

Aveva i calzettoni abbassati e la maglietta bianconera
e noi restammo di stucco: una bella, una vera
ragazza nella squadra avversaria!  Sì, una ragazza
con i capelli a caschetto e un guizzo velocista,
un bel sorriso da folletto nel nostro Istituto
maschile per eccellenza. Non era lei a farci paura,
ma un’oscura presenza, un’eco di rose e di sussurri,
di unghie rosse, di spose, di veli, erano quelle vorticose
onde di un sangue ignoto e lontano, era il vuoto
che irrompeva nel cortile salesiano, era la vita!   (1967)

Quando poi i versi sono arrivati copiosi, quali sono stati i tuoi pensieri?

Purtroppo non mi succede mai che i versi arrivino “copiosi”. Devo andare a snidarli uno per uno, operare un lavoro di ricerca, pedinamento e persuasione, convincerli che è il momento giusto per entrare nell’opera, a volte devo minacciare i più riottosi, quelli che si sono barricati nei loro nascondigli e devo gridare che non c’è tempo da perdere, che tutto si gioca in questa partita e questa partita è una finale. I versi, dicevo, non arrivano mai copiosi. Quella che poteva diventare copiosa è la tenuta dell’ispirazione, la necessità di non desistere prima di avere compiuto il poema, fosse anche un poema lungo e travagliato. Sembra proprio una gara di fondo in cui occorre cadenzare il passo, mantenere il giusto ritmo e proseguire verso il traguardo lontano: allora anche il pensiero trova la sua andatura, confluisce nell’armonia della falcata e a volte può addirittura sentirsi felice.

Quando hai avuto tra le mani le tue prime poesie pubblicate, cosa è accaduto?

Il libro per me è sacro – in questo mi sento discepolo di Mallarmé – e quando una parola poetica entra a farne parte, diventa immutabile. Non solo: la parola pubblicata arresta la continua metamorfosi che ha vissuto per giungere fino a lì, la giostra vorticosa delle varianti e delle precisazioni, la ricerca instancabile della forma migliore. Porta dentro di sé tutto questo cammino e lo fa splendere nella sua tappa finale. Il fatto poi di uscire in una collana diretta da Giovanni Raboni – poeta e persona che stimo profondamente – conferiva al libro in questione, Somiglianze (1976) un accento ancora più definitivo, come se quei versi non fossero soltanto una testimonianza di chi ero stato in precedenza ma anche una profezia di colui che in futuro sarei diventato.

La poesia per te è più di una fede o quasi una fede?

La poesia per me è una fede, certamente, ma nel senso del sostantivo fides, che indica la lealtà e il restare sempre fedeli alla parola data. E a sua volta La parola data è il titolo del libro dove raccolgo le mie principali interviste e allude a una promessa che non può e non deve essere tradita, un patto giurato, un’alleanza assoluta tra noi e la poesia. Venire meno a questo patto significa togliere verità a tutto ciò che stiamo dicendo, che abbiamo detto e che diremo.

La poesia inizia?

Sicuramente la poesia inizia. Non dobbiamo cancellare il senso di questo debutto, non dobbiamo consegnare la poesia a un tempo indifferenziato e privo di scadenze, un tempo edenico che annulla la dimensione tragica della parola, cioè il suo destino di vivere nel segmento che unisce l’inizio alla fine, il primo verso a quello conclusivo. Ancora una volta mi appello all’etimologia della parola “inizio” e al suo legame antico con il verbo ineo, che significa “entrare”, “varcare la soglia”. Ecco il primo verso di una poesia è ciò che varca la soglia del silenzio, apre la porta attraverso la quale una parola poetica entra nell’universo e ci consente di esistere.

La poesia finisce?

Per la stessa ragione la poesia deve finire, deve conoscere la propria conclusione e viverla profondamente. Se la parola poetica non fosse impregnata di finitudine, diventerebbe parola qualunque, parola quotidiana e senza pathos, parola comune in grado di protrarre all’infinito la sua voce e la sua eco, come da una puntata all’altra del programma in corso, come un talk show televisivo o un salotto di amabili conversazioni senza necessità e senza ferita.

 

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Autore

a.toscano@minima.it

Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Un’ampia parte del suo lavoro è dedicato allo studio di autrici donne, da cui nascono articoli, libri, incontri, spettacoli, corsi, conferenze, curatele, tra cui Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza e Con amore e con amicizia, Lisetta Carmi, Electa 2023 e le antologie Chiamami col mio nome. Antologia poetica di donne vol. I e vol. II. Molto l’impegno per la sua città, sia partecipando a trasmissioni radio e tv, sia attraverso la scrittura e la fotografia, ultimi: 111 luoghi di Venezia che devi proprio scoprire, con G. Montieri, 2023 e in The Passenger Venezia, 2023. Fa parte del direttivo della Società Italiana delle Letterate e del direttivo scientifico di Balthazar Journal; molte collaborazioni con testate e riviste, tra le altre minima&moralia, Doppiozero, Leggendaria, Artribune, Il Sole24 Ore. La sua sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, 2018; liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti fotografici sono apparsi in guide, giornali, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali. www.annatoscano.eu

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