Nuovo appuntamento per la rubrica a cura di Anna Toscano, a cadenza quindicinale. Dieci domande a poetesse e a poeti per cercare di conoscere i loro primi avvicinamenti alla poesia, per conoscere i loro albori nella poesia, quali siano stati i primi versi e i primi autori che li hanno colpiti, in quale occasione e per quali vie, e quali i primi che hanno scritto. Le altre puntate sono qui.
Qual è la poesia che hai incontrato, e quando, che ti ha fatto pensare, per la prima volta, che fosse qualcosa di fondamentale?
Montale senz’altro. Quando avevo ventun anni è finito un lungo rapporto d’amore, il tipico rapporto adolescenziale o tardoadolescenziale. Mi sono leccato le ferite leggendo per intero Le occasioni e soprattutto La bufera e altro. Ho imparato a memoria L’estate delle Occasioni, con quel finale sibillino «Occorrono troppe vite per farne una» in cui, pur non capendolo bene, forse anzi proprio per quell’aura di mistero, m’immedesimavo. Per la prima volta ho capito il valore anche terapeutico del leggere la poesia e subito dopo ho capito anche il valore terapeutico dello scrivere versi: cosa che facevo già da tempo però più come vezzo, per sentirmi poeta, che come esigenza irrefrenabile. Da quel momento in poi è diventato, forse, anche un rifugio.
Quale il primo autore o autrice che ti è rimasto/a in mente come poeta?
Qui è un po’ più difficile scegliere. Certo all’inizio c’era molto Leopardi, nella memoria e nel gusto, forse anche i sonetti di Foscolo, con i quali pure era possibile identificarsi negli anni della scuola. Ma la modernità è arrivata con Montale, Saba, Ungaretti, Quasimodo, prima nelle antologie, letti a distesa negli anni dell’università. A certi attacchi, poniamo «Tindari, mite ti so…», come si fa a non abbandonarsi? Però forse quello che più mi ha cambiato la vita secondo me è stato Fortini.
C’è stata una persona o un evento nella tua infanzia, o giovinezza, che ti ha avvicinato alla poesia? Chi era? Come è accaduto?
Sì. Avevo sedici anni e facevo lunghe gite in moto con alcuni amici. A un certo punto si è aggiunto un ragazzo biondo, coi capelli lunghi, che si chiamava Marco e di cui sono divenuto compagno inseparabile per qualche mese. A un certo punto mi dice che scrive poesie. Mi ha sorpreso. Gli ho chiesto di farmele leggere. Per la verità non mi sono piaciute, però credo sia venuta da lì come una scarica elettrica perché poco tempo dopo, non ricordo quanto, ho cominciato anch’io a far versi. In soffitta devo avere ancora un faldone di quei testi: oggi certo illeggibili, da vergognarsi, ma è stato comunque un inizio.
Quali sono i primi libri di poesia che hai cercato in una biblioteca o in una libreria?
I primi che ho comprato sono stati tutti i libri di Montale nello Specchio Mondadori. Ne sono diventato un lettore compulsivo. Poi ho cominciato con i francesi: Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, Valéry. Credo di averci capito poco o nulla e non per questioni linguistiche perché avevo la traduzione a fronte, ma li ho letti negli anni Settanta come se fossero dei miei coetanei, assimilandone i contenuti a quelli di Montale con poca prospettiva storica. Mi piacevano soprattutto le immagini, un po’ come quelle dei testi di Bob Dylan. Poi ho comprato Il Canzoniere di Saba e lì ho cominciato a usare la poesia anche per viaggiare a ritroso nel tempo … ah e tra gli stranieri anche Rilke, trovato ai remainders nella vecchia traduzione di Errante. Ma forse più di tutti ha contato un regalo fattomi da un mio amico filosofo: l’antologia Oscar Mondadori delle poesie di Fortini curata da Mengaldo. Quello mi sembrò subito un linguaggio poetico meno aulico e più moderno, più adatto a dire quello che provavo anch’io.
Il primo verso, o la prima poesia, che hai scritto e che hai riconosciuto come tale: quando è stato e in quale circostanza?
Oddio, ricordo con orrore il canzonierino d’amore scritto tra i sedici e i diciassette anni. Viceversa i primi versi che mi sono piaciuti davvero sono arrivati tardi. Fino a trentacinque-quaranta anni mi sono considerato un poeta della domenica. Invece dopo i quaranta ho cominciato a non vergognarmi più dei miei testi. Ma la svolta è stata quando ho conosciuto Alessandro Fo e mi ha convinto a pubblicarne qualcuno. Avevo già quarantacinque anni, feci una scelta per la rivista «Caffè Michelangiolo» diretta da Graziano Parri, a cui le poesie piacquero molto. La intitolai Epigrammi accidentali. Per esempio c’era un breve testo dedicato a Mila che diceva: «Il tuo nome ha una grazia rara / in russo sai? vuol dire cara».
Quando poi i versi sono arrivati copiosi, quali sono stati i tuoi pensieri?
Mi rendevo conto che non potevo più farne a meno, che mi erano necessari come l’aria che respiravo. Però non sono stato mai un poeta prolifico. A momenti i testi vengono giù a grappoli, per lunghi intervalli invece nulla. E quando vengono non sempre mi piacciono. Leggi e rileggi, ne cestino molti. Ma a volte mi riconosco in ciò che sono andato scrivendo e allora provo un grande senso di gratificazione perché di quel me stesso che scompare giorno dopo giorno almeno qualcosa mi rimane.
Quando hai avuto tra le mani le tue prime poesie pubblicate, cosa è accaduto?
Per la prima volta non potevo più nascondermi. Amici, colleghi, conoscenti erano venuti a sapere che ero un poeta. Io invece non mi consideravo tale. Mi dicevo che un poeta è anche uno che ha una vita da poeta, io ero tutt’al più uno che aveva pubblicato una raccolta di poesie. Ma insomma ormai ero allo scoperto e pian piano ho dovuto cominciare a pensarmi anche io come un poeta, magari part-time. Dopo ancora è venuto il Premio Viareggio…
La poesia per te è più di una fede o quasi una fede?
No, né l’una né l’altra cosa. Si tratta piuttosto di una necessità, spesso impellente, di fermare qualcosa di me che altrimenti se ne andrebbe per sempre. Ecco, più che con il concetto di fede per me la poesia ha a che vedere con la memoria, con il mito del nemico tempo. In questo senso posso considerarla quasi una religione.
La poesia inizia?
Se ti riferisci all’inizio di una poesia, sì: è come lo scoccare di una scintilla, che magari non sempre provoca un incendio: a volte assomiglia più a un fuoco fatuo, come diceva Sbarbaro. Altre volte invece innesca in effetti un fuoco che divora.
La poesia finisce?
Sì, ma qui viene il difficile. Valéry diceva «Il primo verso me lo dà Dio, il resto ce lo metto io». Ma di quel resto il più difficile da metterci è proprio il finale: chiudere, sì, credo sia la parte più difficile di una poesia.
Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Un’ampia parte del suo lavoro è dedicato allo studio di autrici donne, da cui nascono articoli, libri, incontri, spettacoli, corsi, conferenze, curatele, tra cui Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza e Con amore e con amicizia, Lisetta Carmi, Electa 2023 e le antologie Chiamami col mio nome. Antologia poetica di donne vol. I e vol. II. Molto l’impegno per la sua città, sia partecipando a trasmissioni radio e tv, sia attraverso la scrittura e la fotografia, ultimi: 111 luoghi di Venezia che devi proprio scoprire, con G. Montieri, 2023 e in The Passenger Venezia, 2023. Fa parte del direttivo della Società Italiana delle Letterate e del direttivo scientifico di Balthazar Journal; molte collaborazioni con testate e riviste, tra le altre minima&moralia, Doppiozero, Leggendaria, Artribune, Il Sole24 Ore. La sua sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, 2018; liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti fotografici sono apparsi in guide, giornali, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali.
