La Scapigliatura e il 6 febbraio di centosessant’anni fa
di Rossella Farnese
Se la cultura italiana, in contrapposizione alla frammentazione storico-politica della penisola, è stata per secoli il collante dell’identità nazionale, dal De vulgarieloquentia ai Promessi Sposi e se la letteratura romantica, nell’accezione tutta italiana di questa etichetta, dando voce alle istanze di modernizzazione e di unificazione ha assegnato agli intellettuali il duplice ruolo di cantori dei sentimenti del popolo e di guide ideologiche, tuttavia, raggiunta l’unità ma delusi gli ideali risorgimentali, sviliti dalla burocrazia e in un paese ancora nei fatti diviso, i letterati smarriscono la loro funzione e traducono nella loro opere questa crisi di identità, questa nuova condizione di separazione tra la coscienza del proprio ruolo e le mutate esigenze imposte dalla società. Tra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento, in particolare a Milano e a Torino, trova così un humus fertile quel movimento eversivo letterario e politico-sociale, noto con il nome di Scapigliatura, tentativo italiano in minore delle esperienze del Dandysmo e del Maledettismo d’Oltralpe.
Più che di scuola, per la Scapigliatura, che deriva da “scapigliare” cioè “spettinare, metafora di una vita ribelle e disordinata, si può parlare di un gruppo di amici, scrittori e artisti uniti da un’inquietudine esistenziale e da una forte insofferenza verso il conformismo e la società borghese.
Per capire meglio cosa si intendesse allora con questo termine possiamo leggere la definizione che ne dà un membro stesso del gruppo, Cletto Arrighi, pseudonimo di Carlo Righetti, avvocato e giornalista milanese, in un romanzo pubblicato nel 1862 intitolato appunto La Scapigliatura e il 6 febbraio: «In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui di ambo i sessi, fra i venti e i trentacinque anni, non più; pieni d’ingegno quasi sempre, più avanzati del loro tempo; indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; irrequieti, travagliati […] turbolenti, i quali – o per certe contraddizioni terribili tra la loro condizione e il loro stato – vale a dire tra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca […] o anche solo per una certa particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere […] meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia sociale, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte le altre […] vero pandemonio del secolo; personificazione della follia che sta fuori dai manicomii; serbatoio di disordine, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti; – io l’ho chiamata appunto la Scapigliatura».
La Scapigliatura è dunque una categoria sociale, un gruppo di individui giovani che conducono una vita sregolata su modello della bohème parigina – che si era diffusa anche in Italia con il successo del romanzo di Henri MurgerScenes de la vie de bohème (1848) che ispirò anche La bohème di Giacomo Puccini (1905) – e che rifiutano la società borghese industrializzata dedita all’utile economico e sorda al richiamo dell’arte – quell’arte che undici anni dopo, nel 1873, nella Prefazione a Eva Giovanni Verga identifica con il «cancan litografato sugli scatolini dei fiammiferi» e osserva, condividendo il medesimo fervore polemico degli Scapigliati: «Viviamo in un’atmosfera di banche e di imprese industriali e la febbre dei piaceri è l’esuberanza di tal vita».
Gravitante attorno ad alcune riviste quali in particolare «Cronaca Grigia», fondata dallo stesso Arrighi nel 1860 e da lui diretta fino al 1882 e il «Figaro» diretto da Arrigo Boito ed Emilio Praga, ma anche il «Piccolo giornale» di Ugo Igino Tarchetti, la «Palestra letteraria artistica» di Carlo Dossi e Luigi Perelli, la «Rivista minima» di Antonio Ghislanzoni, la Scapigliatura prima di essere un movimento artisitico-letterario organizzato è stato un fatto di costume che si è tradotto spesso in vicende biografiche brevi e bruciate dall’alcool e dalla droga, come nel caso di Ugo Igino Tarchetti e di Emilio Praga.
Secondo Dante Isella infatti gli Scapigliati si sono limitati all’ «importazione di un rinnovato campionario di temi “maledetti”», centrale e con un chiaro rimando all’antitesi baudelairiana tra Spleen e Idéal è il tòpos del dualismo, per citare il titolo della lirica-manifesto di Arrigo Boito che afferma «Son luce ed ombra; angelica/farfalla o verme immondo» e continua con un’allusione al piccolo uomo artificiale del Faust di Goethe «O creature fragili/ dal genio onnipossente/ Forse noi siam l’homunculus/ di un chimico demente». Un dualismo declinato non solo come contrasto tra Bene e Male, tra Terra e Cielo, tra Realtà e Ideale ma anche, soprattutto in Emilio Praga, espressione della condizione di alterità dell’artista rispetto alla società e in Ugo Igino Tarchetti come antitesi tra Vita e Morte simboleggiata nel contrasto tra Clara, donna bella e solare, e Fosca, donna isterica la cui patologia psicofisica è oggetto di uno studio clinico nel suo romanzo più noto del 1869 che prende il titolo proprio da questo personaggio.
E centrale non solo il dualismo di Baudelaire, attraverso cui conoscono in traduzione Edgar Allan Poes, scrittore statunitense dell’immaginazione allucinata, ma anche l’irrazionale e il macabro, propri del Romanticismo tedesco di E.T.A. Hoffmann e di Heinrich Heine.
Se la Scapigliatura è una parentesi letteraria tutto sommato provinciale e che si esaurisce nel giro di un ventennio come rielaborazione tematica di repertori romantici e simbolisti francesi ed europei, tuttavia forse è la figura di Carlo Dossi quella che risulta la più originale e novecentesca. Estraneo ai canoni dell’artista maledetto, Dossi, funzionario ministeriale e diplomatico durante il governo Crispi, era consapevole che in arte ogni rivoluzione si fa sul piano dello stile.
Dossi punta sull’aspetto fonico delle parole, sul potere simbolico del suono, sulla fusione tra musica e poesia, come afferma in L’Altrieri (1868): «è impossibile imprigionare – salvo che dentro un rio di musica – certi pensieri che tra loro si giungono non già per nodi grammaticali ma per sensazioni delicatissime e il cui prestigio sta per l’affatto nella nebulosità dei contorni». Dossi lavora inoltre sulle scelte lessicali accostando termini di varia provenienza, dialettalismi, forme stranieri, latinismi ma anche neologismi in un vero e proprio pastiche, che consentono di collocare Dossi in quella “linea lombarda” che arriva fino alla prosa espressionista di Carlo Emilio Gadda. Inoltre anticipa di qualche decennio Luigi Pirandello, perché l’originalità della lingua di Dossi è funzionale alla sua poetica dell’umorismo, che considera il carattere generale della letteratura moderna e traccia una storia della letteratura umoristica da Rabelais a Sterne fino al poeta dialettale Carlo Porta e a Manzoni, suo punto di riferimento imprescindibile per la complessità narrativa e la rivoluzione linguistica, a differenza della restante poesia scapigliata, il cui impulso eversivo si esercita invece contro Manzoni e quell’«estenuata prosa pietistica dei manzoniani», come spiega Isella, e contro gli «stanchi clichés patriottico-moralistici del tardo romanticismo» ad esempio di Prati e Aleardi.
Il rifiuto di Manzoni è sintomatico di una profonda frattura generazionale, è il rifiuto della tradizione lirica sette-ottocentesca da parte della nuova generazione di artisti e letterati, è un anti-manzonismo irrequieto che trova voce nella lirica programmatica Preludio nella raccolta Penombre (1864) di Emilio Praga che di Manzoni dice «Casto poeta che l’Italia adora,/ vegliardo in sacre visïoni assorto/ tu puoi morir!… degli anticristi è l’ora!» sottolineando così l’insofferenza nei confronti della monumentalizzazione cui Manzoni era stato consacrato e la fine del tempo della religiosità manzoniana, è infine il rifiuto di una paternità letteraria da parte di una generazione che vuole scandalizzare e provocare il pubblico, che considera suo “nemico”, l’ipocrita lettore della poesia introduttiva di Lesfleursdu mal, e che già canta il tedio esistenziale, la monotonia, l’ennui di Baudelaire: «O nemico lettor, canto la Noja, / l’eredità del dubbio e dell’ignoto, / il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boja, / il tuo cielo e il tuo loto».