“Filosofeggiare in versi è stato ed è ancora voler giocare alla lotteria secondo le regole degli scacchi”: Paul Valery e la “scrittura di potenziamento della mente”
Pubblichiamo, ringraziando l’editore, alcuni passaggi dal libro Paul Valéry “Ciò che scrivo non è scrivere” (modelli di pensiero, problemi di poesia) a cura di Andrea Franzoni (Argolibri, 2024, il libro è stato realizzato in sinergia con la casa editrice Industria&Letteratura) che riunisce per la prima volta in Italia tre quaderni di Paul Valéry: il primo, Ego scriptor, è stato già tradotto per Adelphi (Quaderni, vol. 1, 1986), mentre gli altri due Poésie, e Poїetique, sono inediti in Italia. Scrive Andrea Franzoni nella sua introduzione: “Il testo qui tradotto appartiene a quella scrittura di potenziamento della mente che Valéry operava ogni giorno, dal 1894 al 1945, tra le quattro e le sette del mattino circa: compilò così 261 quaderni di vario formato, cui una prima edizione apparve in 29 volumi negli anni ’60, per il Centre National de la Recherche Scientifique. Il titolo che abbiamo scelto viene da questa particolare forma testuale, che non appartiene né all’aforisma, né al diario, né alla poesia, né alla filosofia, ma che passa tra tutte queste discipline con sguardo distaccato, di creatore e osservatore della creazione. […] Tutti e tre i quaderni trattano di poesia. Del fenomeno poetico umano o di quello linguistico combinatorio. Della poesia pura e dell’arte del rifiutare, scomporre e collegare armonici di suono e di senso. L’espressione delle osservazioni di Valéry è una forma ibrida tra “poesia in nota” e “annotazione di un vento poetico” limpido, ma che passa velocemente. La sintassi di questi quaderni è tra gli elementi a mio avviso più peculiari e importanti di questa scrittura. Trattini, virgole e a-capo muovono il concetto che l’autore esprime in un respiro non normalizzato né continuo, innaturale direi, letterario, avvolto di un’intenzione che muove la frase, molto spesso, verso un’esposizione maggiore, intenzionale, di alcuni concetti o parole: e da quest’esposizione deriva un’idea del senso – un senso inteso come ritmo”.
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Ogni dispositivo poetico si basa su un fatto matematico avviluppato. (1902. Senza titolo, II, 703.)
Filosofeggiare in versi è stato ed è ancora voler giocare alla lotteria secondo le regole degli scacchi. (1913. P 13, V, 151.)
Fondo e forma – Vecchia questione –
Ma l’arte dei versi, la sua pratica mostra le «idee» come una specie di materia.
Relativamente, si accorda. Le idee diventano materia nel momento in cui le si lavora senza alterare (per esempio) l’immagine principale. Ora, lo scopo di questo lavoro è che queste idee siano in grado di soddisfare delle condizioni autonome – tale metro – tale rima – tale tono, tale funzione all’interno di un discorso (da cui esse potrebbero essere estrapolate per servirne altri –) tale funzione in qualcun altro.
Si lavora per renderle non-arbitrarie, localizzarle, associarle ad altre idee. E in fondo per farle diventare 1) il percorso pseudo-naturale di un individuo, il pensiero artificiale – 2) elementi di memoria e attenzione. Bisogna farne qualcosa di chiaramente pensabile. Un eccitante. Un catalizzatore. Fornire al contempo il pungolo e il movimento di chi si sveglia. (1915. Senza titolo, V, 668.)
L’abitudine di meditare libera alla fine dal potere della scrittura e dalla sua smania. Tutto appare una perdita di tempo – Tutto ciò che scriviamo somiglia a quelle migliaia di inezie intellettuali che bisogna sconfiggere per riuscire a pensare in modo puro ed esatto – prima di trovare tale pensiero o tale modo – ingenuo, necessario; arduo e spontaneo – semplice e faticoso – che sta al di sopra di tutto. Anche se questo stesso modo viene proprio dalla volontà di scrivere o fissare. (1920. C 10, IV, 427.)
La letteratura non è mai stata il mio obiettivo. Ma, qualche volta, lo è stato scrivere modelli di pensiero. Progetti per un’immaginazione o per una relazione. Messinscene psicologiche, modi per rappresentarsi qualche sistema. (1910. E 10, IV, 620.)
W Non è lontano ormai il tempo in cui potremo fare un’opera d’arte decidendo sin dall’inizio che essa dovrà soddisfare p + q condizioni simultanee, le p formali e le q significative.
A) formali, ovvero lunghezza, tono, strumenti o elementi
B) concessi o divieti enumerati, – condizioni convenzionali – cambiare o ripetere – tali effetti, – distribuzioni dei massimali e dei minimali – ovvero il reale –
B) significative, ovvero l’immaginario, le cose, il soggetto, il riassumibile, la parte cui si dovrà credere, imitativa, e queste condizioni distinte, indipendenti trasformate in dipendenti dall’abilità e dalla volontà che sono propriamente Arte – ben definite, rapportate a un soggetto-campione, corpo e possibilità. Si farà un calcolo per renderle dipendenti e raggiungere così l’apparenza desiderata. Perché fare un’opera d’arte consiste nel costruire un’apparenza. (1924-25, X, 658-659.)
La poesia (come arte) comincia non appena la parte fisica del linguaggio viene chiamata a combinarsi con quella significativa, in un effetto.
E non solo la parte fisica o sensibile del linguaggio ma anche quelle proprietà che esso possiede a titolo intrinseco, – ovvero le relazioni tra le significazioni che possono formare dei sintagmi o che si organizzano al di là di ogni specifica applicazione e operando sul dizionario in maniera sistematica – (le prime, d’altronde, sono evidenti, le altre, molto nascoste –). Si ottiene così un deposito, un tesoro implicito di sostituzioni. Ecc. il linguaggio «comune», strumento pratico – viene inserito, applicato, solo attraverso imprevisti personali, specifici. La circostanza lo genera; lo utilizza, lo annulla… come mezzo e organo di gesti automatici o volontari, che hanno un «obiettivo» o una necessità locale – – Ma il sistema delle possibilità del linguaggio – ecc.
Da notare come la matematica abbia questo in comune con la poesia e con la musica: che in essa il fondo diventa l’atto della forma. La «verità» dipende da condizioni formali. «L’esistenza» non è che la non-contraddizione – questa una condizione. (1932. Senza titolo, XV, 881.)
Poeta – La mia opera non viene da un bisogno – è il lavorio mentale ad essere in me bisogno – (a cominciare dallo stimolo). Ciò che mi stimola – mi stimola a questo stesso lavoro e non al suo prodotto – (se non fosse che l’idea di prodotto è, in quanto scopo, condizione del lavoro – ma non la sola né la principale). L’opera, dunque, è ai miei occhi applicazione. Mentre per la maggior parte delle persone, essa è il capitale dell’istante.
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Dunque, la Grande Opera è per me la conoscenza del lavoro in sé – della trasmutazione – mentre le opere sono applicazioni locali, problemi particolari. – Problemi nei quali, a titolo di condizioni indeterminate, rientrano le caratteristiche dell’Altro = l’idea che mi faccio dell’azione esterna delle opere. (1933. Senza titolo, XVI; 744.)
Ego
Sono più che altro un inventore di idee – o di prospettive. Ed è questo, in fondo, che fa anche la mia «poesia» – Non che io vi inserisca volutamente delle «idee». Al contrario, non voglio che ci siano – perché un’idea che mi interessa mi sembra richiedere un trattamento del tutto diverso e mi stimola e spinge a uno stato diverso, una composizione nuova dove virtualmente inserirla, e che non sono «poetici». Ma se, anche solo minimamente, entro in una forma e una linea di canto, concepisco l’avvenire di questo germe in quanto poema, sotto forma di problemi – o serie di problemi – e qui le «idee» intervengono – come soluzioni.
– – – Qualche parola, come un arco di curva, si propone – Si tratta di tracciare una curva che passa per dei punti fissi – rime ecc. « Mignonne, allons voir si la rose » 1– – ?? E poi? Qui un andare e venire dal dizionario delle rime, più o meno mentale, e il senso nascente e l’intenzione, e il movimento o ritmo.
– L’idea della costruzione del poema o delle opere mi eccita, mi esalta più di ogni altra opera, – e questo (nota bene) quanto più l’immaginazione si rende indipendente dalla persona e dalla personalità del costruttore. Non c’è qualcuno che fa. Sonnambulismo di chi è attento – vale a dire di chi si trasforma tramite una conservazione (1941-1942. Senza titolo, XXV, 373.)
Io penso avendo troppa coscienza della qualità di pensiero del mio pensiero, con un’appercezione della natura mentale del mentale troppo rapida per impelagarmi in una finzione concreta o astratta, romanzo o storia o metafisica, al punto da impegnarmi in un’opera lunga e sostenuta in uno di questi generi, che richiedono invece che si perda la percezione delle uguali possibilità di sviluppo, e quella degli intrecci che si propongono in ogni momento.
La mia immaginazione si oppone ogni momento a qualsiasi immagine, e la mia libertà di formulare si oppone ad ogni formula. È qualcosa che dapprincipio ho coltivato in me attraverso il lavorio dei versi, il cui segreto sta tutto nella subordinazione dei prodotti immediati dello spirito alle condizioni del linguaggio come stimolo probabile. (1943. Senza titolo, XXVII, 199.)