Il voto e i figli di Grillo

(Fonte immagine: ALPOZZI/INFOPHOTO.)

di Cesare Buquicchio

Le analisi sul voto del 24 e 25 febbraio in molti casi sono sorprendenti in modo inversamente proporzionale alla sorpresa degli stessi commentatori rispetto al risultato uscito dalle urne. Più i commentatori sono stati spiazzati da Grillo, più hanno cominciato a macinare triti luoghi comuni sulle dinamiche politiche del web, sul livello alto e/o basso di molte discussioni on line, sulla contrapposizione tra partito liquido e partito ‘radicato’, sulla necessità di apparati comunicativi efficaci in luogo di programmi affidabili e/o appetibili, ecc… Discorsi che, con alcune brillanti eccezioni, appaiono riedizioni di precedenti riflessioni e/o riadattamenti di analisi buone per (quasi) tutte le stagioni.

Non originalissima, ma degna di nota (forse solo per le inclinazioni di chi scrive) è quella dello psicoanalista Massimo Recalcati centrata intorno al tema della trasmissione della eredità, del conflitto edipico padre-figlio, della idiosincrasia di molte delle figure politiche di spicco italiane (Grillo compreso) verso l’idea della serietà, della responsabilità, del passaggio di testimone collaborativo e virtuoso dalla propria generazione alla generazione successiva.

Come si veste Grillo

Una lettura della politica, e soprattutto delle difficoltà della sinistra non solo italiana, attraverso le lenti di Freud e dell’Edipo da lui codificato e di quelle di Lacan e della necessaria, indispensabile, tensione tra legge e desiderio. Esercizio che riprende molto dell’apparato concettuale che, l’altro lacaniano, Slavoj Žižek, sta applicando in modo geniale e rivelatore da oltre un ventennio alla cultura e alla politica di tutto l’occidente.

“Ma che padre è quello che si manifesta attraverso l’insulto? – scrive Recalcati a proposito di Grillo -. Si tratta di un padre che non ricalca più in alcun modo il modello edipico del Padre come simbolo della Legge. Si tratta di un padre-adolescente, di un padre-ragazzo, che parla, si esprime e si veste come fanno ì suoi figli. Si tratta di un padre che rivela sintomaticamente quella alterazione profonda della differenza generazionale che è una grande tema, anche psicopatologico, del nostro tempo. Nondimeno questo padre che si maschera con gli abiti dei figli è un padre che non vuole rinunciare ad esercitare il suo diritto assoluto di proprietà sui suoi figli. Si provi a mettere questo padre di fronte alla critica o al dissenso e si vedrà in che cosa consiste la sua pasta. Dietro ogni leader totalitario che reclamala democrazia si cela una insofferenza congenita verso il tempo lungo della mediazione che la pratica della democrazia impone”.

La stessa “sintomatologia” si poteva rintracciare in passate infatuazioni elettorali per il Berlusconi-Dorian Gray, l’eterno 35enne, ineluttabilmente giovane e in cerca di ragazze da rimorchiare. O nel goffo Monti degli wow e delle faccette su Twitter. Così goffo da far colpo, alla fine dei conti, solo su Casini, Fini e pochi altri.

Bersani e la paranoia

Diverso e più difficile da inquadrare in questi schemi il percorso di Bersani. Si potrebbe anche qui forzare un po’ sulla lettura lacaniana e incasellare tutto nei tre registri del reale (Bersani), dell’immaginario (Berlusconi) e del simbolico (Grillo). Non è un caso che il leader Pd abbia scelto il piano del realismo (tra gli intellettuali a lui vicini c’è il filosofo Maurizio Ferraris teorico del ‘nuovo realismo’), il ‘non raccontar favole’ (stilema decisamente discutibile per chi conosce il valore morale e culturale di raccontare favole in una campagna elettorale in cui promesse e ammiccamenti all’elettorato sono elementi costitutivi, il tono basso e senza eccessi verbali, il concedersi poco al chiacchiericcio televisivo. Insomma, tutto all’apparenza corretto, tutto meditato e serio, tutto teso a marcare una discontinuità con i più deteriori tic politici… E invece?

Lacan risponderebbe che il reale senza elaborazione simbolica è pura paranoia, ma qui stiamo davvero mistificando. I dirigenti democratici affermano, come sempre, che sono gli italiani a non aver capito il messaggio ‘giusto’ come l’Italia ‘giusta’ che Bersani aveva in serbo per loro. E qui, di fronte a questi consueti eccessi pedagogici e tautologici andrebbe scomodata la illuminante indagine sulla “umiltà del male” firmata dal sociologo barese Franco Cassano. Chissà se prima di scegliere quello slogan e quel profilo elettorale i dirigenti democratici avevano letto le parole di colui che era pur sempre stato scelto come loro capolista in Puglia: proprio il professor Cassano.

“Nella partita contro il bene, il male parte sempre in vantaggio grazie all’antica confidenza con la fragilità dell’uomo. Chi vuole annullare quel vantaggio deve riconoscersi in quella debolezza, invece di presidiare cattedre morali sempre più inascoltate. Senza un’élite competente e coraggiosa la politica muore. Ma questa spinta morale deve sapersi confrontare con la maggioranza degli uomini, misurarsi con la loro imperfezione, deve diventare politica. Come dimostra la figura del Grande Inquisitore, il male è un lucido conoscitore degli uomini e fonda il suo regno sulla capacità di coltivarne le debolezze. E sa adattarsi ai tempi, perché ha imparato a cambiare spalla alle sue armi: una volta esaltava la sottomissione, oggi offre con successo e su tutti i canali dosi crescenti di volgarità ed esibizionismo. Se vogliono far crollare questo potere, i migliori devono smettere di specchiarsi nella loro perfezione. Da sempre i Grandi Inquisitori usano questo sentimento di superiorità per isolarli da tutti gli altri, per ridicolizzarne l’esempio e renderli innocui. Chi spera negli uomini deve inoltrarsi nella zona grigia dove abita la grande maggioranza di essi, e combattere lì, in questo territorio incerto, le strategie del male” si legge nel volume edito da Laterza.

Difficile non associare a queste immagini contrapposte la storia degli ultimi 20 anni e, in sedicesimo, la sfida dell’ultima campagna elettorale. Tra una inverosimile promessa di restituire l’Imu e una altrettanto inverosimile aspettativa di cancellare di colpo l’evasione fiscale in un Paese così malato di allergia alle tasse. Da una parte le evidenti debolezze pubbliche e private di Berlusconi e, dall’altra, la presunta e ostentata superiorità morale delle schiere di antiberslusconiani militanti da salotto. Una corsa al ribasso che in questi anni ha sacrificato ogni sfumatura e qualsiasi piacere dell’analisi e della complessità culturale e politica, ha impedito ogni dialogo e confronto tra le diverse Italie. Un retaggio i cui danni forse solo ora stiamo iniziando a percepire. E di cui, anche i successi grillini, sono figli.

Comunicare o essere?

Ma al netto di slogan, manifesti ed eccessi didattici e didascalici, non è quello della comunicazione il rimprovero che si può rivolgere al Bersani degli ultimi mesi. Certo, si potrebbe ragionare (al netto della bontà dei suoi contenuti) sulla idiosincrasia del politico di Bettola verso il discorso assertivo e la sua predilezione per frasi e atteggiamenti che ruotano intorno alla negazione: “Siamo contro le diseguaglianze”, “Non vogliamo aumentare le tasse, ma chi ha di più non può tirarsi indietro”, “Un’ora di lavoro precario non può costare meno di un’ora di lavoro stabile”, ecc… (pregevole, in proposito, l’analisi fatta anni or sono dal collettivo letterario Wu Ming. O, altrettanto efficace e persino più divertente, l’immagine creata dallo scrittore Paolo Nori per descrivere espressioni e atteggiamenti di Bersani: l’uomo del “non me lo lascian fare…”).

Allo stesso modo non si può non rimproverare l’approccio troppo dimesso al discorso conclusivo della campagna elettorale fatto all’Ambra Jovinelli il 22 febbraio (tralasciamo il confronto sulla location, con la concomitante Piazza San Giovanni gremita dai Cinque Stelle…). Alla prima frase di un discorso che dovrebbe restare nella storia (se non altro personale), Bersani dice “non facciamo retorica, parliamo di sostanza” (ma non è forse il discorso conclusivo della campagna elettorale del candidato favorito a fare il premier il momento più idoneo per un po’ di retorica, rhetoriké téchne o arte del parlar bene?). Alla seconda frase del discorso che dovrebbe dare energia e motivazioni all’elettorato, smuovere gli ultimi indecisi, attrarre e convincere i delusi, Bersani, con tono sofferente, dice “ho girato per la terza volta in pochi mesi l’Italia, sono piuttosto stanco…” (il video del discorso).

Ma forse più della comunicazione, sono i limiti strategici della visione di fondo tratteggiata dal leader Pd ad aver costruito la clamorosa “non vittoria” elettorale. L’ambiguità tra una immagine di sinistra che punta tutto sul lavoro e sulle fasce deboli della popolazione e un profilo tutto teso a rassicurare i mercati e le cancellerie europee (non è un caso se la proposta del reddito di cittadinanza, storico copyright della sinistra sia apparsa sorprendentemente più credibile nella versione avanzata da Grillo). Un legame tradizionale con il ceto impiegatizio, statale e parastatale, che in questa crisi per ora è rimasto al riparo dagli smottamenti economici, reso fragile dalla continua criminalizzazione di viene considerato “benestante”. In simmetria, uno svilimento dei concetti di merito e di tensione individuale al miglioramento, che hanno demotivato chi fatica ogni giorno per far bene il proprio lavoro e per migliorare quello che ha intorno.

Infine, è difficile, immaginare come gli elettori avrebbero potuto esercitarsi nel tenere insieme la severa critica a Monti e al “rigore” dei suoi provvedimenti economici con un gioco che puntava tutte le fiches democratiche su un buon risultato del professore per far da stampella con i suoi senatori al governo Bersani.

E ora?

E ora tocca all’autocoscienza. Il Pd ha iniziato, con la riunione della direzione del 6 marzo, replicata in piccolo nell’incontro dei nuovi parlamentari dell’11 marzo, il consueto e strabondante flusso dialettico di analisi e disamine. Così ricco e variegato da contenere in sé spesso tutto e il contrario di tutto: dal dovevamo essere più a sinistra al dovevamo fare l’alleanza con Monti prima e non dopo le elezioni (strategia quest’ultima che viene già sposata con – forse prematuro – entusiasmo se si dovrà andare a votare nei prossimi mesi).

Una settimana dopo le elezioni anche al Teatro Valle Occupato si è svolta una “seduta” di analisi elettorale. Per l’occasione Christian Raimo e gli altri organizzatori l’avevano battezzata “Tribuna Politica”. Elemento interessante di questo nuovo disordinato e spesso contraddittorio flusso di parole, è stato il manifestarsi in una delle enclavi del pensiero critico e di sinistra (rispetto al Pd) di numerose dichiarazioni di voto al Movimento Cinque Stelle. “Ho votato Sel alla Camera e M5S al Senato. Per la prima volta in vita mia posso dire di aver vinto, abbiamo fermato l’armata neoliberista Pd-Monti” diceva un intellò cinquantenne in risposta ad un ragazzo che aveva appena rintracciato nel lessico grillesco pericolosi segni del populismo secondo Laclau.

“I Cinque Stelle sono sempre stati al nostro fianco contro la Tav e per i referendum sull’acqua pubblica, per me era il voto più coerente” diceva invece uno degli okkupanti del teatro. Tra loro anche un organico al Movimento Cinque Stelle, capace per un attimo di spostare il punto di vista della discussione da Grillo Beppe, di cui pur riconosceva le ambiguità, alla realtà di un movimento che da anni aggrega migliaia di persone e ne incanala sforzi e attività, dalle raccolte firme al “presidio” in piccoli e grandi consigli comunali per “osservare” il lavoro dei politici.

È sempre una questione di padri e figli

A mio avviso sta tutta qui, nella distanza e nel contrasto tra il dire (di Grillo) e il fare (dei Cinque Stelle) l’unica reale speranza per uno sbocco sensato e “adulto” dello stallo italiano. Ma guardando anche alla soffocante immanenza di Berlusconi su ogni evoluzione della destra italiana e al solo abbozzato confronto nella sinistra tra un passato mitico e un futuro che non sia solo svendita di sé stessi ai tempi che corrono, resta di fronte a noi l’ennesima riedizione della quanto mai possibile lotta tra il padre (padrone) mai affrancatosi dalla sua adolescenza e i suoi figli consapevoli del peso della responsabilità che in ogni caso (anche solo anagraficamente) finirà per gravare sulle loro spalle.

Commenti
2 Commenti a “Il voto e i figli di Grillo”
  1. davide calzolari ha detto:

    “””diceva un intellò cinquantenne in risposta ad un ragazzo che aveva appena rintracciato nel lessico grillesco pericolosi segni del populismo secondo Laclau.””..

    .yaawn…ce la fate a non usare “francesismi”,ogni tanto?

Trackback
Leggi commenti...
  1. […] 8, 2017January 9, 2017contidaniele foto via […]



Aggiungi un commento