Amsterdamsestraatweg

di Giulia Sara Miori

Dapprima, la ragazza non aveva notato l’uomo seduto al tavolino accanto alla finestra. Il suo aspetto la colpì. Era un uomo sulla sessantina, un po’ in sovrappeso. Indossava un cappello nero e un paio di occhiali rotondi con la montatura dorata. Stava scorrendo il menu, e intanto batteva il piede a tempo sul pavimento come se avesse in testa un metronomo. La ragazza ebbe la sensazione di averlo già visto da qualche parte. Si cacciò in tasca la spugna, si asciugò le mani sul grembiule e andò al tavolo.

«Buonasera, cosa le porto?»

L’uomo alzò la testa e le fissò sfacciatamente il seno. «Una birra.»

«Alla spina?»

«Mah, non saprei…»

«Le birre in bottiglia le trova sul menu» disse la ragazza. Non aveva per niente voglia di elencarle tutte a memoria.

«Lei che cosa mi consiglia?» fece l’uomo.

«Non mi piace la birra. Comunque, la Bintang è molto popolare…»

«È vietnamita?»

«No.»

«Ma questo è un ristorante vietnamita.»

«Sì» ammise la ragazza. «Ma abbiamo anche altre birre.»

L’uomo si sistemò il papillon verde.

«Se vuole una birra vietnamita» continuò lei, «le consiglio la Saigon Red.»

L’altro annuì. Di nuovo, i suoi occhi si posarono sul seno della ragazza. Lei fece finta di niente.

«Senta» disse l’uomo dopo aver riflettuto per qualche istante. «Mi porti una birra alla spina.»

«Una birra media?»

«Sì.»

La ragazza andò al bancone, spillò la birra e la portò al tavolo.

«Ecco qua» disse. Poi spostò il menu e appoggiò la birra sul tavolo.

«Grazie» disse l’uomo. «Posso ordinare da mangiare?»

«Certo.»

Nel suo aspetto, rifletté la ragazza, c’era qualcosa che non andava. Qualcosa che la disturbava profondamente, anche se non avrebbe saputo dire cosa. In apparenza, era un uomo distinto, vestito con ricercatezza. Poteva trattarsi di un professore o di un intellettuale.

«Ho visto che avete parecchie zuppe. Ce n’è una che vale la pena di provare?»

«La Pho Bho è buona ma un po’ piccante.»

«La carne è ben cotta?»

«No… è manzo appena scottato… c’è scritto sul menu.»

L’uomo fece un sorso di birra e si pulì la bocca col dorso della mano.

«Mi sono trasferito da poco in zona» disse cambiando discorso. «Prima abitavo a Lombok…»

«Ah…»

«Ho trovato un atelier qui a due passi. L’affitto è ragionevole e il padrone di casa mi pare un tipo a posto… di larghe vedute…»

«Di larghe vedute?»

L’uomo scoppiò in una risata profonda. Mentre rideva, forse qualcosa doveva essergli andato di traverso, perché cominciò a tossire. La ragazza andò al bar, riempì un bicchiere d’acqua e glielo portò. L’uomo, però, si era già ripreso, e si stava dando dei colpetti sull’incisivo con l’anulare. La ragazza notò la fede, ma non fece alcun commento.

«Mi ha convinto, prendo la zuppa.»

«La Pho Bho?»

«Sì.»

La ragazza segnò l’ordine sul dispositivo. «Senta un po’» gli disse a un tratto. «Non è che per caso lei…»

L’uomo la fissò attraverso gli occhiali, in attesa che terminasse.

«Ho ricevuto una telefonata, poco prima di uscire di casa.»

«Una telefonata?»

La ragazza si scostò una ciocca di capelli dal viso. «Mi scusi, sa… ma ho pensato che magari…»

«Che cosa?»

«Ho pensato che potesse essere stato lei.»

L’uomo la fissò in faccia per qualche secondo ma non disse una parola. Poi tirò fuori dalla tasca un biglietto da visita e lo allungò alla ragazza. Philippe Timmermans, artist. Amsterdamsestraatweg 205, 3551 CE, Utrecht. Phone number: 0627011689. phil.timmermans@gmail.com

«Finisce tardi, stasera?» domandò l’uomo.

La ragazza scosse la testa e infilò il biglietto nella tasca del grembiule.

L’altro gettò un’occhiata all’orologio. Era uno di quegli orologi coi numeri romani. La ragazza non se ne intendeva, ma doveva essere costato parecchio.

«E dopo il lavoro, andrà direttamente a casa?» fece lui come en passant.

«È lunedì… non c’è niente da fare…»

«E lascerà le tende aperte?» Ancora una volta, lo sguardo dell’uomo si abbassò sul seno della ragazza.

«Può darsi» rispose lei. «Di solito non le chiudo. In questo paese non c’è mai il sole…»

L’uomo sorrise. Quindi fece un altro sorso di birra e tornò ad aprire il menu che la ragazza aveva riposto di lato. «Dopo la zuppa, vorrei un caffè…»

La ragazza si tolse un pelucco dalla maglietta. Poi digitò l’ordinazione sul dispositivo e sparì nello sgabuzzino. Tirò fuori il rossetto dalla borsa e si diede una passata sulle labbra.

A poco a poco, il ristorante si riempì. Finché rimase seduto al tavolo, l’uomo non la degnò di uno sguardo. Però, quando andò a pagare le lasciò una mancia generosa. «Non spenga la luce, stasera» le disse. Poi, lentamente, attraversò il locale e uscì.

 

La ragazza tornò a casa verso le undici. Il ristorante era a pochi minuti dall’appartamento. Prima di infilare la chiave nella serratura, come sempre, la ragazza si guardò attorno. La strada era deserta.

Una volta entrata, accese la luce e scostò le tende. Nel palazzo di fronte, solo uno degli appartamenti aveva la luce accesa. La ragazza indugiò un attimo sulle piante tropicali e sui quadri appesi alle pareti. Poi osservò a una a una le altre finestre, ma all’interno il buio era impenetrabile. A quel punto, senza preoccuparsi di chiudere le tende, cominciò a spogliarsi. Prima la sciarpa e il cappotto, poi il maglione e la maglietta rosa del ristorante. Ancora, i jeans e i calzini. Infine, il reggiseno nero di cotone e le mutandine bianche. Per un po’, rimase in piedi completamente nuda. Infine, si struccò gli occhi e la bocca, dando la schiena alla finestra. Si pettinò a lungo. Andò in bagno, si lavò la faccia e i denti. Quando ebbe finito, spense la luce e s’infilò sotto le coperte.

 

Il giorno dopo, quando vide l’uomo seduto al tavolino accanto alla finestra, la ragazza non si meravigliò.

«Mi scusi mi porterebbe una di quelle birre vietnamite?»

«La Saigon red?»

«Sì.»

Indossava il solito cappello, ma stavolta al posto del papillon portava una cravatta rosa.

«Sa che lei ha proprio delle belle orecchie?»

La ragazza rimase sconcertata.

«M’interessa la forma» continuò l’uomo. «Non ho mai visto delle orecchie così piccole.»

La ragazza ringraziò. Poi andò al bancone, aprì la birra, la portò al tavolo.

«Vorrei farle una proposta» disse a un tratto l’uomo guardandola negli occhi.

«Che tipo di proposta?»

L’uomo abbassò la voce. «Non mi fraintenda, non è una proposta che la riguarda direttamente. Lei farebbe solo da tramite…»

«Da tramite?»

«Tra me e la mia arte.»

La ragazza si guardò intorno nella speranza che ci fossero altri tavoli da servire, ma niente. Per essere un martedì, il ristorante era incredibilmente vuoto.

«Ho bisogno delle sue orecchie» disse l’artista.

«Mi scusi, sa, ma sto lavorando» disse lei irritata. «Da mangiare, cosa le porto?»

L’uomo non si scompose e tornò a guardare il menu. «La zuppa che ho preso ieri.»

La ragazza annuì e sparì dietro al bancone. L’uomo non le rivolse più la parola, ma le lasciò una mancia ancora più alta del giorno prima. Quando uscì dal ristorante, non la salutò.

 

Una volta a casa, la ragazza accese la luce, scostò la tenda e si spogliò. Si stava struccando quando squillò il telefono. Numero sconosciuto.

«Pronto?»

Dall’altra parte, si sentì tossire.

«Pronto?» ripeté la ragazza.

La voce dell’uomo era più profonda del solito. «Ha riflettuto sulla mia proposta?»

La ragazza rimase in silenzio.

«Le offro cinquemila euro.»

«Ma lei, come fa ad avere il mio numero?»

L’artista non rispose.

«Quanto tempo impiega solitamente a guadagnare quei soldi?» le domandò dopo una breve pausa.

«N-non lo so…»

«Con me, li guadagnerebbe in un pomeriggio…»

«Ma di che cosa si tratta, esattamente? Cioè, dovrei venire a letto con lei?»

L’uomo ansimò leggermente. A un certo punto, lei ebbe l’impressione che si fosse allontanato dal telefono, perché non si sentiva più nulla. Poi, d’un tratto, l’artista riprese a parlare. «Come le dicevo, dovrebbe soltanto fare da tramite. Sto completando una serie di ritratti femminili. Appena l’ho vista, ho capito che lei sarebbe stata l’ultima della serie.»

“L’ultima della serie” pensò la ragazza, ma non disse nulla.

«Quindi dovrei farle da modella?»

«Sì» disse l’uomo.  «Naturalmente, si tratta di una semplificazione. La parola modella per me non ha alcun significato. Ma ho bisogno delle sue orecchie per poter veicolare… quello che mi passa per la testa.»

«Se ha bisogno delle mie orecchie, allora…»

La ragazza non sapeva bene come dirlo, ma lui la intese al volo. «Ho bisogno anche del suo corpo» disse semplicemente.

«Quindi dovrei posare nuda?»

«Esatto.»

«E lei mi darebbe cinquemila euro?»

«Le darei cinquemila euro, sì.»

«E dovrei venire a casa sua?»

«Nel mio atelier.»

La ragazza rimase in silenzio per qualche istante.

«Non deve rispondermi adesso. Ci pensi con calma. Quando avrà deciso, si presenti all’atelier.»

L’artista riattaccò.

La ragazza finì di struccarsi e poi, senza chiudere le tende, si mise a letto. Però, non riuscì a riposare come si deve. Ogni minimo rumore la svegliava: ora l’abbaiare di un cane in lontananza, ora il verso di un uccello, ora le risate di un ubriaco. Quando il cielo si schiarì, si accarezzò la pelle nuda e pensò che l’idea di essere ritratta non le dispiaceva.

 

Verso mezzogiorno, la ragazza telefonò al ristorante per dire che si sentiva poco bene. Poi si vestì, prese la bici e uscì di casa.

L’Amsterdamsestraatweg era una strada molto trafficata e rumorosa. Ogni tanto, la ragazza andava lì per farsi sistemare le unghie dai cinesi. I negozi erano sporchi ma economici. Bisognava pagare in contante.

Il numero 205 era circa a metà. La ragazza parcheggiò la bici in una stradina laterale e la legò con la catena. Dopo di che, esaminò per qualche istante la porta laccata di rosso. Sul citofono, non c’era nessuna scritta. La ragazza suonò.

 

Quando la vide, l’artista non sembrò stupito. Senza dire una parola, la fece accomodare su un divano sfondato. Alle pareti, alcuni dipinti erano coperti da spessi teli neri. Sul cavalletto, una tela bianca non troppo grande era pronta per essere dipinta.

«Vuole una tazza di tè?» domandò l’uomo.

«No, grazie. Se non le dispiace, le darei subito gli estremi per il bonifico…»

L’artista disse che per lui non c’erano problemi, aprì l’app della banca ed eseguì. Il denaro fu accreditato immediatamente.

 

A quel punto, la ragazza si spogliò. L’artista l’aiutò a mettersi in posa: sul pavimento, carponi, i capelli sciolti sulle spalle ma sistemati dietro le orecchie. Ogni mezz’ora, la ragazza chiedeva di fare una pausa per muoversi un po’. L’artista a volte le dava il permesso, a volte no. Mantenere a lungo quella posizione non era per niente semplice. Durante la sessione, pareva che l’artista avesse perso tutto l’interesse nei confronti della ragazza, e che fosse catturato da qualcosa di diverso. Qualcosa che lei non poteva comprendere neanche lontanamente.

L’atelier non era riscaldato. La ragazza si disse che forse avrebbe preferito andare a letto con quell’uomo piuttosto che sottoporsi a una tortura simile. Quando l’artista le disse che avevano finito, lei si sentì sollevata.

«Almeno posso vederlo?» gli chiese.

«Non ancora. Ci devo lavorare, ma per domani conto di aver finito. Se vuole, passi pure verso le sette.»

 

La ragazza slegò la bici e tornò a casa. Per evitare di passare davanti al ristorante, allungò un poco il percorso. Quella notte dormì profondamente, ma sognò uno zoo dove gli animali andavano a far visita agli umani. Stranamente, rinchiusa in una gabbia di felini, c’era lei. Il giorno dopo chiamò al ristorante per dire che era ancora ammalata. Durante il pomeriggio, non fece praticamente nulla. Mancavano dieci minuti alle sette quando si presentò all’atelier.

L’artista la fece entrare. Era evidente che la stava aspettando.

«Immaginavo che sarebbe venuta…» disse con freddezza. «Scommetto che è molto curiosa di vedere l’opera.»

«Sì» ammise lei.

«Però si ricordi che lei è stata soltanto un tramite. Io non ho fatto niente. Mi sono limitato a dipingere quello che ho visto sul suo corpo…»

Forse la ragazza era troppo giovane per capire fino in fondo certi discorsi. Forse, nemmeno le interessavano. Lei voleva soltanto vedere il ritratto.

Allora, in silenzio, l’artista girò la tela. All’inizio, la ragazza rimase interdetta. Si domandò se per caso non si trattasse di un errore. L’artista confermò che il quadrupede ritratto sulla tela era proprio lei. Rispetto al corpo, la testa era enorme e simile a quella di un cavallo, fatta eccezione per le orecchie umane, piccole e di graziosa fattura. Un ricco piumaggio verde e rosso distraeva lo spettatore dalle mammelle gonfie di latte e dagli zoccoli.

La ragazza rimase sul divano a fissare l’opera. L’artista si era messo a pulire i pennelli.

«Vuole vedere anche gli altri quadri della serie?» le domandò voltandosi.

La ragazza annuì.

In silenzio, l’artista svelò a uno a uno gli altri dipinti. Le bestie erano a quattro zampe. Si somigliavano tutte. Quello che cambiava era la forma delle orecchie.

La ragazza era furiosa. Si alzò e si avvicinò alle opere, ma l’artista le sbarrò la strada.

«Queste sarebbero le tue modelle?»

«Sì.»

«E io?»

«Tu sei l’ultima» disse l’artista.

La ragazza stava per mettersi a piangere. Non voleva in alcun modo che lui la vedesse, così s’infilò il cappotto e si voltò per andarsene. Aveva già la mano sulla maniglia quando sentì il rumore. Immobile, tese le orecchie. Sì, non c’erano dubbi, proveniva dalla stanza accanto. Ma non era proprio un rumore… A dire il vero, somigliava a un nitrito…

La ragazza abbassò la maniglia, ma la porta non si aprì.

«Non aver paura» disse l’artista alle sue spalle.

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