Cartesio

di Anna Voltaggio

La sera del 5 marzo Bernardo Cartesio si sente triste senza motivi apparenti e indossando i pantaloni di foggia nel camerino riservato al personale, riflette su questo.

Intanto i clienti del primo turno arrivano a piccoli sciami e vengono guidati dal maître di sala.

Cartesio osserva in che ordine le bottiglie d’acqua compaiono sui tavoli e dopo qualche minuto si avvicina con la carta dei vini. Ha un portamento elegante e composto, lo sguardo che si addolcisce nonostante gli zigomi alti che lo fanno severo.

La conversazione con il signore che pareva intendersene dura qualche minuto, poi Cartesio muove verso la cantina ansioso di tornare al tavolo con il Gran Riserva V Years, soddisfatto della scelta.

Dal lungo grembiule nero spicca il bianco della camicia e il papillon di raso. Oscilla appena il tastevin d’argento quando scende le scale.

Bernardo Cartesio, che per le strade è una presenza tanto discreta da non essere quasi notata, nella luce fioca della cantina sembra un danzatore e i suoi occhi si fanno acuti quando guardano le bottiglie del Dama. Le bottiglie sono distese sugli scaffali in una geometria rigorosa, oltre 200 etichette che Cartesio ha selezionato con la cura del collezionista. “Il metodo cartesio!” dice la Signora Contini, quando con lui discute dei nuovi ordini.

L’indice e il medio scivolano lungo i tappi di sughero.

Gli capita, ma non quella sera troppo affollata di clienti, di osservare dal basso i vini rossi pregiati e immagina la sfida di stapparli in pubblico con la convinzione che tutti i segreti lì racchiusi, avrebbe saputo svelarli.

Prima di uscire sosta un istante al display dell’igrometro e aumenta la percentuale di qualche grado, poi risale le scale e ricompare al tavolo 12 mostrando il Pinot Bianco con l’aria di un prestigiatore.

— Il gioco di profumi è complesso e brillante. È un vino che incontra ottimamente la seppia.

Cartesio parla con una voce suadente alla sinistra del capotavola mentre stappa la bottiglia.

D’abitudine scandisce le sillabe e tiene alta l’attenzione quando la piccola platea abbassa lo sguardo su un cellulare o a cercare l’accendino perso nelle borsette.

Con la voce profonda, che incanta, Bernardo Cartesio racconta i profumi con un garbo senza tempo e intanto versa il Pinot Bianco a chi ha indicato il suo calice per l’assaggio. Le formule e toni che ai più superbi sembrano leziosi, affascinano chi le ascolta con un abbandono più umile.

— Le prime note sono agrodolci di mela e melone, per scendere poi in una profondità inaspettata che trova la noce e lascia al gusto un riverbero di pietra focaia.

Le mani non più giovani di Cartesio, delicate e sicure, somigliano a quelle di un pianista e la donna di fronte le osserva muoversi mentre gli altri commensali hanno già ripreso a conversare.

Fu una serata lunga al Dama, i tavoli pieni per tre turni e un paio di bottiglie rimandate indietro.

La strada per tornare gli chiede circa 20 minuti a piedi e Cartesio, che non ha la patente, è abituato a quella passeggiata notturna anche d’inverno.

La tristezza adesso si confonde con la stanchezza e nonostante qualche pensiero nostalgico su sua moglie Dora che lo aveva lasciato 10 anni prima, Cartesio dice a se stesso che un buon sonno lo avrebbe rimesso in piedi senza lasciare tracce l’indomani.

Sistema meglio la sciarpa e imbocca, poco prima di arrivare in via Sapri, un vicolo sorprendentemente largo in fondo al quale campeggia la scritta Hotel delle Poste. Cartesio si domanda spesso chi sceglie di soggiornare in quell’Hotel ai margini del centro e senza uffici intorno, dall’aspetto sconfortante e con l’insegna malmessa. Eppure, le luci delle camere sono accese e qualcuno sta entrando proprio adesso. Chissà chi dorme all’Hotel delle Poste stanotte, pensa in quel momento Cartesio stringendosi nel cappotto con i brividi di freddo.

Nell’angolo speculare alla porta d’ingresso c’è una poltrona anni Trenta, in velluto liscio color pavone, acquistata con colpo di fortuna a un mercato di strada, ed è il primo oggetto che ogni sera vede entrando e il primo in cui desidera andare. Non c’è molto nella casa, perché come spesso accade a chi è esperto di qualcosa, Cartesio non aveva mai coltivato altri interessi a parte il vino e il poco tempo libero lo passava di solito a passeggiare nei parchi.

Si versa due dita di whiskey giapponese per riscaldarsi, chiude gli occhi pensando di alzarsi poco dopo, invece Cartesio sprofonda nel sonno, seduto, con ancora il cappotto addosso.

Un colpo di tosse lo fa sobbalzare, si ritrova stranamente sudato e infreddolito. Toglie il cappotto e va dritto in bagno. Allo specchio vede un viso vecchio e pallido, i capelli più bianchi che brizzolati sono scomposti. Poggia il palmo della mano sulla fronte, scotta.

Beve un sorso d’acqua dal rubinetto. Lascia i vestiti sulla sedia e si rintana sotto il piumone.

— Non prende una febbre da sei anni – Lo rincuora la Signora Contini. – resti al caldo, mi faccia sapere come si sente domani.

I giorni di febbre sembrano non finire e dopo una settimana Cartesio è ancora chiuso in casa, mangia poco, quello che la signora delle pulizie gli ha preparato, e si forza ad alzarsi per arrivare alla poltrona e guardare qualche film.

Oscillando tra momenti in cui gli sembra di stare meglio e altri in cui torna tremante, inizia a preoccuparsi di quella febbre recidiva che lo costringe a casa.

Ha una tosse secca che a ogni colpo gli brucia la gola, dolori muscolari che non aveva mai provato e la cosa peggiore è quella pressione sullo sterno che a malapena lo fa respirare.

Il suo medico curante, il dottor Gebbia, quasi un amico, gli dice che andrà da lui in serata per fare un controllo.

— Hai preso solo tachipirina?
— E fiori di bach
— Che c’entrano i fiori di bach?
— Male non fanno, mi consolano.
— Vabbè, vabbè. I fiori di bach. – Gebbia tira fuori il misuratore d’ossigeno e lo attacca all’indice di Cartesio.
— Non è buona la saturazione. E questa tosse non mi piace.
— Che ho?
— E niente, che hai. La febbre. Ma una febbre da indagare meglio.
— Meglio come?

Gebbia rimette in borsa lo stetoscopio e guarda Cartesio con fare bonario mentre si riabbottona la camicia del pigiama.

— Ti do un antibiotico mirato e vediamo come reagisci. Gira una brutta influenza, pare che ce la siamo importata dall’India, teniamo di vista la respirazione eh? Intanto continua a bere, acqua – precisa per fare un’ironia che a Cartesio non interessa – e a prendere la tachipirina se sale sopra i 38.

Sei giorni dopo, stanco ma senza febbre, Cartesio va in cucina a preparare il caffè.

Prima di fare il primo sorso dalla tazzina fumante pensa che deve radersi e pensa che forse quella sera può tornare a lavoro.

Poi, il caffè, non gli sembra caffè.

Avvicina il naso alla tazzina e inspira. Un tanfo acido gli invade le narici.

Un altro sorso, più lungo.

Non c’è sapore di caffè, a Cartesio sembra di ingerire il liquido putrido di un frutto marcito.

Fa una doccia calda. Il corpo ha ripreso tono, si sente bene. Si sente guarito. Ripensa a quello che è appena successo e inizia a radersi. Dev’essere l’antibiotico, pensa.

Esce di casa e mentre si dirige verso il fruttivendolo all’angolo chiama la Signora Contini dal cellulare per comunicare che torna a lavoro, che va tutto bene.

Bernardo Cartesio, solitario e pacato, non aveva mai messo in discussione niente che gli fosse capitato nella vita e il mondo del vino, che abita da quando è un ragazzo fresco di diploma alberghiero, gli era costato tanta fatica e dedizione da mettere in secondo piano tutto il resto. Aveva viaggiato per mezza Europa senza vedere quasi niente, con il solo scopo di conoscere le tecniche, decifrare i sapori, imparare le sfumature fino a scandagliare e riconoscere ogni alterazione che rendeva un vino unico. Anche un matrimonio gli era costata quella carriera da sommelier, perché Dora, che aveva creduto di potergli stare accanto, un giorno si era accorta che la sua vita era già passata per metà e lei non aveva partecipato.

— Buongiorno Flavio, mi serve un’arancia dolce.

Flavio gliela tira da dietro le cassette e neanche gliela fa pagare.

La porta al naso come un cane. Inspira profondamente l’odore nuovo dell’arancia, Cartesio inizia a sudare.

Sbuccia frettolosamente: sapore agre dalle molte sfumature, potrebbe contenere sentori di mango e di spezie, profumo deciso. Questa è un’arancia. Lui invece, se fosse cieco, non la riconoscerebbe.

Cammina e infila le bucce nella tasca del cappotto. Addenta lo spicchio. Niente. Non c’è l’arancia, qualcos’altro forse, non è chiaro. Gli resta in bocca un sapore ferroso e tiepido. Cartesio sente accelerare il suo battito e istintivamente accelera il passo.

— È possibile, sì. – dice Gebbia che gli allunga un fazzoletto per lasciargli tamponare il sudore. – è raro, ma è possibile, anosmia e ageusia. Potrebbe essere un effetto temporaneo.
— Potrebbe?
— Diciamo che dovrebbe essere temporaneo. Non mi andare sotto stress, aspettiamo qualche giorno, che ti sarai rimesso completamente. Adesso ti prenoto un test, monitoriamo la situazione.
— Io ho solo il naso, il palato. Non ho altro nella vita, lo sai, sì? Non posso fare altro che questo. – e mentre lo dice ingoia compresse di fiori di Bach.

Alle 18 Cartesio entra al Dama con il passo traballante di un bambino.

Nel luogo che conosce da più tempo di casa sua, si guarda intorno come chi si è perso o come se non sapesse dove mettersi. A lui stesso pare incredibile che anche gli oggetti dell’arredo non gli sembrino più gli stessi, come se il mondo fosse solo apparentemente uguale ma in realtà diverso, impercettibilmente ma definitivamente diverso.

I capelli pettinati all’indietro, le guance lisce appena rasate e la sciarpa ancora intorno al collo, Cartesio, con lo sguardo attonito e l’andatura incerta, a guardarlo bene, pare in stato di shock. Nessuno al Dama sembra farci caso, e i camerieri indaffarati si limitano a una pacca sulla spalla di bentornato, a saluti affettuosi ma distratti.

Scende in cantina costringendosi a fare respiri profondi e distensivi, con l’idea che se non altro poteva provare, e se i sapori non fossero tornati, poteva ricordare.

Apre una bottiglia di Mille e una notte del 2017, ne versa due dita nel calice. L’odore, se fosse assente, sarebbe meglio pensa Cartesio. Invece è un odore che inganna e confonde. E non pensa più alla febbre, alla scienza che spiega le terminazioni nervose olfattive che raggiungono i lobi frontali. Cartesio crede più facilmente di essere sotto un incantesimo di magia nera. Non c’è la frutta rossa e neanche il finocchietto selvatico, Cartesio sente il ferro nel bicchiere e il palato si vela di una lamina metallica che anestetizza i pensieri.

Quando risale al piano le lampadine sono accese, i sottopiatti in ceramica iniziano a vestire i tavoli, le file di posate in bronzo opaco allineate, i calici bordati disposti in diagonale, i tovaglioli distesi sui piatti.

— Cartesio, ci pensa lei?

La Signora Contini allunga la mano come una padrona di casa che presenta il figlio prodigio e chiede a Cartesio di avvicinarsi al tavolo che, a quanto sembrava, vedeva seduti ospiti importanti.

— Il nostro depositario dei misteri del vino, vi affido a lui. Dice con una solennità che a Bernardo Cartesio sembra uno scherzo diabolico.

Dissimulando il disagio parla dei vini e della cantina, suggerisce da cosa iniziare, cammina su sentieri familiari e sicuri, tiene a bada la paura. E spera Cartesio, spera che niente si metta storto.

— Ma no, no! Proviamo qualcosa di nuovo, di sofisticato! – dice la donna, con tono squillante, facendo un lungo tiro dal bocchino d’avorio e aprendosi in un sorriso pieno di vita.
— Di sofisticato – ripete con una lentezza ombrosa Cartesio – Ma certo, vi presenterò una bottiglia unica.

Si allontana dal tavolo con la coscienza lucida di quello che sta per fare. Senza neanche togliere la divisa, Cartesio, insospettabile, afferra il cappotto e se ne va via.

Girato l’angolo, stretto in pensieri complicati che non era abituato a fare, Cartesio ha una nuova impressione di tutto e si lascia sopraffare da idee cupe e senza rimedio, chiedendosi come avrebbe fatto a vivere. Non andava meglio se cercava di razionalizzare, si angoscia pensando a come giustificare quella fuga e anche se non si fida di internet sa di aver letto che non esiste una cura.

Si trascina sempre meno convinto sui passi da fare e senza sapere perché, prende il cellulare e compone il numero della sua ex moglie.

— Bernardo! Va tutto bene?
— Va tutto bene, sto bene. Non va tutto bene. Ho avuto una febbre, violenta, lunga che non finiva mai. Ma sto bene, sono guarito. Però qualcosa non va. Non va. Dora, non sento più, non riesco a sentire più niente.
— Calmati, non mi fai capire. Mi senti? Ora, dico, mentre ti parlo.
— Sì, sì. Ti sento. Sento dalle orecchie. Non sento più il vino. Ma non solo il vino, non profuma più niente. È come se fossi nello spazio vuoto di un incubo.

Dora ci mette un momento a capire e tenta di calmare Cartesio che di nuovo, con la tachicardia, mette insieme le parole come qualcuno che non è più in se stesso.

— Cosa posso fare? Io, lo sai, sono a Parigi. Hai parlato con uno specialista? Da quanto sei in queste condizioni? Dove ti trovi adesso?
— Sono… – Cartesio alza lo sguardo da terra, gira la testa per orientarsi. – Sono sotto l’hotel delle poste. – dice. E vede, dalla finestra, il bancone del bar con due clienti seduti a bere, ognuno per i fatti suoi, e una donna di profilo che parla a un telefono pubblico, di quelli con i gettoni che Cartesio non pensava esistessero più.
— Scusa Dora – dice poi – scusa per questa chiamata. È una giornata assurda e io credo di essere stanco. Me ne vado a letto. Scusa se ti ho disturbata.
— Ma no, Bernardo. Non dire così. Fatti sentire, mi raccomando. – e poi chiude la chiamata.

Cartesio entra dalla porta girevole senza un motivo che gli è chiaro, il pavimento è di marmo venato e le suole delle sue scarpe scivolano un poco.

Alla reception un ragazzo in divisa lo saluta inchinandosi appena e gli chiede misteriosamente se ha una prenotazione o se è lì per la Sala.

— No, nessuna prenotazione. Volevo sapere se… quale Sala?

Il ragazzo indica una doppia porta nera.

— Io, vorrei solo sapere se è possibile bere qualcosa.
— Certo – dice il ragazzo, e gli mostra il bar.

La donna che parlava al telefono adesso è sparita e uno dei due uomini al bancone, accanto al quale Cartesio prende posto, gli porge un pacchetto di lucky strike morbide.

L’ultima volta che Cartesio ha dato una boccata aveva sedici anni, e istintivamente fa di no con la testa sorridendo con gentilezza, ma prima ancora che l’uomo rimetta in tasca il pacchetto Cartesio pensa che nella situazione attuale, fumare, non significa più guastare le papille gustative e in generale che niente significa più niente, e ripensandoci, allunga la mano e sfila la sigaretta che sporge.

— Ecco ci ho ripensato, grazie. Oggi fumerò.

L’uomo fa un cenno della testa che Cartesio interpreta come un’approvazione.

L’accende. Il fumo gli entra negli occhi e brucia. L’uomo ha ripreso a bere il Rum.

— Anche tu giochi? Chiede senza guardarlo.
— A cosa?
— A dadi. Qui si gioca a dadi

Cartesio ha l’aria stralunata e la prima sigaretta dopo quarantacinque anni gli dà un piacevole senso di stordimento. In bocca ha un vago senso di densità e non sentirà l’odore del tabacco sulla sciarpa.

Alzandosi lentamente pensa di dare un’occhiata dall’oblò incastonato sulla porta nera, solo per capire di che si tratta, poi se ne sarebbe tornato a casa.

Un gruppo di persone è intorno al tavolo rettangolare tappezzato di blu. I dadi rotolano energici fino a schiantarsi sul bordo opposto per poi tornare indietro. Cartesio non legge i numeri ma il banco ne annuncia ogni volta la somma 5|8|11|9|11. Non vede gente che esulta né che impreca, come si sarebbe aspettato. Osserva, invece, comportamenti che gli sembrano anomali.

Una coppia si bacia con sensualità e poi si allontana in direzione dell’ascensore che porta ai piani superiori dell’hotel.

Una figura di spalle che non distingue bene, improvvisa una danza lenta e ondeggia flessuosa muovendo le braccia mentre una musica dalle armonie orientali riempie l’aria e arriva più tenue oltre la porta dove Cartesio è fermo a guardare. Qualcuno se ne va. Qualcuno arriva.

La donna che parlava al telefono, fasciata in un vestito nero, lo affianca.

— Lei gioca stasera? – gli chiede

Cartesio non si era accorto della sua presenza, preso com’era a capire cosa stava succedendo e si sente in imbarazzo, come se fosse stato sorpreso a spiare un segreto.

— Io? No, no. Non ho mai giocato d’azzardo in vita mia.

Rimangono spalla a spalla, in piedi, davanti la porta chiusa. E si guardano negli occhi, a pochi centimetri.

La donna rimane in silenzio tanto a lungo che Cartesio si sente in dovere di continuare a parlare

— Non volevo sembrare sgarbato, solo, dico, non sono quel tipo d’uomo che sceglie la via facile. Lavoro da una vita intera.
— I dadi non sono la via facile. Direi, piuttosto, il contrario.
— Io, non saprei.
— Come si chiama?
— Cartesio, mi chiamano tutti Cartesio.

La donna sorride.

— Allora, Cartesio, la invito a dubitare di questa convinzione. Di provare i dadi per lasciare andare le illusioni e accettare la sconfitta. Così potrà vedere cosa c’è oltre.

— È stata una giornata molto lunga – dice Cartesio perché non si sente a suo agio
— Alcune giornate sono molto lunghe per essere sorprendenti. Dovrebbe entrare.
— Non ho neanche soldi da poter giocare
— Qui non servono i soldi.

Cartesio la guarda perplesso.

— E cosa allora?
— Il coraggio.

Cartesio torna a guardare oltre la porta, gli sembra che la sala, il tavolo da gioco, i dadi, abbiano acquisito una nitidezza che prima non avevano. Gli sembra, in quel momento, di avere messo a fuoco come stanno le cose.

Commenti
Un commento a “Cartesio”
  1. Pablo ha detto:

    Ma che bel racconto. Una sorpresa. E una scrittura intima ma non sentimentale.

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