Cena di famiglia
Pubblichiamo un racconto inedito di Kazuo Ishiguro nella traduzione di Dario Valentini.
Il Fugu[1] si pesca lungo la costa Pacifica del Giappone. Quel pesce aveva assunto un significato speciale per me da quando mia madre era morta mangiandone uno. Il veleno è localizzato nelle ghiandole sessuali del pesce, dentro due fragili sacche. Quando si prepara, queste sacche devono essere rimosse con cautela, poiché qualsiasi sbadataggine può far penetrare la tossina nelle carne. Purtroppo non è facile sapere se tale operazione è stata eseguita con successo o meno. La prova consiste, per così dire, nel mangiarlo.
L’avvelenamento da Fugu è tremendamente doloroso e quasi sempre fatale. Se il pesce è stato ingerito nel corso della serata, la vittima di solito viene sopraffatta dal dolore nel sonno. Si rivolta agonizzando per qualche ora e al mattino è già morta. Il piatto è diventato estremamente popolare in Giappone dopo la guerra. Finché non sono state imposte normative più severe, era di gran moda eseguire la pericolosa operazione di sventramento nella propria cucina, e poi invitare amici e vicini per il banchetto.
Al momento della morte di mia madre, vivevo in California. In quel periodo, i rapporti con i miei genitori erano diventati un po’ tesi, e di conseguenza non appresi le esatte circostanze che riguardavano il suo decesso finché non tornai a Tokyo due anni dopo. A quanto pare mia madre si era sempre rifiutata di mangiare il Fugu, ma in quella particolare occasione aveva fatto un’eccezione, essendo stata invitata da una vecchia compagna di scuola che ci teneva a non offendere. Fu mio padre a fornirmi i dettagli mentre guidava dall’aeroporto a casa sua nel distretto di Kamakura. Quando finalmente arrivammo, si era quasi alla fine di una soleggiata giornata autunnale.
‘Hai mangiato sull’aereo?’ chiese mio padre. Eravamo seduti sul tatami della sua sala da tè.
‘Mi hanno dato uno spuntino.’
‘Devi essere affamato. Mangeremo appena arriverà Kikuko.’
Mio padre era un uomo dall’aspetto formidabile con una grande mascella granitica e furiose sopracciglia nere. Ripensandoci, trovo che somigliasse a Chou En-lai[2], sebbene non penso avrebbe apprezzato il paragone, essendo particolarmente orgoglioso del puro sangue samurai che scorreva in famiglia. La sua presenza, in generale, non incoraggiava la conversazione rilassata, e le cose non erano aiutate nemmeno dal suo strano modo di esprimere ogni osservazione come se fosse quella definitiva. E così, mentre sedevo di fronte a lui quel pomeriggio, mi tornò in mente il ricordo di quando da ragazzino mi aveva colpito in testa varie volte perchè “cianciavo come una vecchia signora”.
Inevitabilmente, le nostre conversazioni fin dal mio arrivo all’aeroporto erano state interrotte da lunghe pause.
‘Mi dispiace per l’azienda’, dissi dopo che nessuno apriva bocca da un po’. Lui annuì grave.
‘In effetti la storia non è finita lì’, disse. ‘Dopo il fallimento dell’azienda, Watanabe si è ucciso. Non voleva vivere nel disonore.’
‘Capisco.’
‘Siamo stati soci per diciassette anni. Era un uomo di principi e onore. Lo rispettavo molto.’
‘Pensi che ti rimetterai in affari?’ chiesi.
‘Io sono – in pensione. Sono troppo vecchio adesso per farmi coinvolgere in nuove imprese. Fare affari di questi tempi è diventato così diverso. Trattare con gli stranieri. Fare le cose a modo loro. Non capisco come siamo potuti arrivare a questo. E nemmeno Watanabe lo capiva.’ Sospirò. ‘Un brav’uomo. Un uomo di principi.’
La sala da tè si affacciava sul giardino. Da dove ero seduto scorgevo il vecchio pozzo che da bambino credevo infestato dai fantasmi. Adesso era appena visibile attraverso il fitto fogliame. Il sole era sprofondato e gran parte del giardino era immerso nell’ombra.
‘Sono contento in ogni caso che tu abbia deciso di tornare,’ disse mio padre. ‘Spero che non sia solo una visita breve.’
‘Non so ancora bene quali saranno i miei piani.’
‘Io dal canto mio sono pronto a dimenticare il passato. Anche tua madre è sempre stata pronta a riaccoglierti – pur essendo dispiaciuta del tuo comportamento.’
‘Apprezzo la tua comprensione. Come ho detto, non so ancora quali saranno i miei piani.’
‘Adesso so che non avevi cattive intenzioni, continuò mio padre. ‘Sei stato attirato da certe – influenze. Come tanti altri del resto.’
‘Forse dovremmo lasciar perdere, come suggerisci tu.’
‘Come vuoi. Altro tè?’
Proprio in quel momento la voce di una ragazza echeggiò per la casa.
‘Finalmente.’ Mio padre si alzò in piedi. ‘Kikuko è arrivata.’
Nonostante la nostra differenza d’età, io e mia sorella eravamo sempre stati legati. Rivedermi sembrò emozionarla eccessivamente e per un po’ non fece altro che ridacchiare in maniera nervosa. Però poi si calmò un po’ quando mio padre iniziò a interrogarla su Osaka e l’università. Lei gli rispose in modo breve e formale. E a sua volta mi chiese alcune cose, ma sembrava inibita dal timore che le sue domande potessero portare ad argomenti imbarazzanti. Dopo un po’, la conversazione era diventata ancora più scarna rispetto a prima che arrivasse Kikuko. Allora mio padre si alzò dicendo: ‘Devo occuparmi della cena. Per favore perdonami se sono impegnato da queste faccende. Kikuko si prenderà cura di te.’
Mia sorella si rilassò palesemente una volta che lui ebbe lasciato la stanza. Dopo pochi minuti, stava chiacchierando a ruota libera dei suoi amici a Osaka e delle lezioni all’università. Poi all’improvviso decise che dovevamo fare due passi in giardino e uscì a grandi falcate in veranda. Ci infilammo dei sandali di paglia che erano rimasti lungo la ringhiera del porticato e uscimmo in giardino. La luce del giorno era quasi scomparsa.
‘Era da mezz’ora che morivo dalla voglia di fumare,’ disse, ‘accendendosi una sigaretta.’
‘Allora perché non l’hai fatto?’
Lei fece un gesto furtivo verso casa, e un sorrisetto dispettoso.
‘Oh, capisco’, dissi.
‘Indovina un po’? Adesso ho un ragazzo.’
‘Ah si?’
‘Però sto ancora riflettendo su cosa fare. Non ho ancora deciso.’
‘È piuttosto comprensibile.’
‘Vedi, lui sta progettando di andare in America. Vuole che lo segua appena finisco di studiare.’
‘Capisco. E tu vuoi andare in America?’
‘Se andiamo, faremo l’autostop.’ Kikuko mi agitò il pollice davanti al viso. ‘La gente dice che è pericoloso, ma l’ho fatto a Osaka ed è andato tutto liscio.’
‘Capisco. Allora di che cosa non sei sicura?’
Stavamo seguendo uno stretto sentiero che si snodava tra gli arbusti e finiva al vecchio pozzo. Mentre camminavamo, Kikuko continuava a fare tiri inutilmente teatrali dalla sua sigaretta.
‘Beh. Ho molti amici a Osaka. Sto bene lì. Non so se me li voglio già lasciare tutti alle spalle. E Suichi – mi piace, ma non sono sicura di voler passare così tanto tempo con lui. Capisci?’
‘Oh perfettamente.’
Lei fece un altro sorrisetto, poi mi superò finché non ebbe raggiunto il pozzo. ‘Ti ricordi’, disse, mentre camminavo verso di lei ‘una volta dicevi che questo pozzo era infestato?’
‘Si, me lo ricordo.’
Entrambi sbirciammo oltre il bordo.
‘La mamma mi ha sempre detto che era la vecchia ortolana che avevi visto quella notte’, disse. ‘Ma io non le ho mai creduto e non sono mai venuta fino a qui da sola.’
‘Mamma lo diceva sempre anche a me. Mi ha addirittura detto che una volta la vecchia le aveva confessato di essere lei il fantasma. A quanto pare aveva l’abitudine di prendere una scorciatoia nel nostro giardino. Immagino che avesse un po’ di difficoltà ad arrampicarsi oltre queste mura.’
Kikuko fece una risatina. Poi diede le spalle al pozzo, lanciando uno sguardo al giardino.
‘La mamma non ti ha mai davvero incolpato, lo sai’, disse, con voce diversa. Io rimasi in silenzio. ‘Mi diceva sempre com’era colpa loro, sua e di papà, per non averti educato correttamente. Mi raccontava quanto fossero stati più attenti con me, e che quello era il motivo per cui ero così brava.’ Alzò lo sguardo e in viso le era tornato quel sorrisetto malizioso. ‘Povera mamma,’ disse.
‘Già. Povera mamma.’
‘Tornerai in California?’
‘Non lo so. Vedremo.’
‘Cosa è successo a…quella? Vicki?’
‘È finita’, dissi. ‘In California non mi è rimasto granché.’
‘Credi che dovrei andarci?’
‘Perchè no? Non lo so. Probabilmente ti piacerebbe.’ Rivolsi uno sguardo alla casa. ‘Forse è meglio se rientriamo tra poco. Papà potrebbe aver bisogno di una mano con la cena.’
Ma mia sorella stava nuovamente sbirciando giù nel pozzo. ‘Non riesco a vedere alcun fantasma,’ disse. La sua voce echeggiò piano.
‘Papà è molto dispiaciuto per il fallimento della sua azienda?’
‘Non lo so. Non si riesce mai a capire bene con papà.’ Poi improvvisamente si raddrizzò e si voltò verso di me. ‘Ti ha detto del vecchio Watanabe? Cosa ha fatto?’
‘Ho sentito che si è suicidato.’
‘Beh, non è tutto. Ha portato con sé tutta la famiglia. Sua moglie e le due bambine’
‘Ah si?’
‘Quelle due bellissime bambine. Ha acceso il gas mentre tutti dormivano. Poi si è aperto lo stomaco con un coltello da cucina.’
‘Sì, papà mi stava giusto dicendo come Watanabe fosse un uomo di principi.’
‘Che cosa malata.’ Mia sorella tornò a voltarsi verso il pozzo.
‘Attenta. Ci cadrai dentro.’
‘Non riesco a vedere alcun fantasma’, disse. ‘Mi hai mentito per tutto il tempo.’
‘Ma io non ho mai detto che vivesse nel pozzo.’
‘Dov’è, allora?’
Entrambi guardammo tra alberi e gli arbusti. La luce in giardino si era fatta così tenue. Alla fine indicai una piccola radura a una decina di metri.
‘L’ho visto proprio lì. Proprio lì.’
Restammo a fissare quel punto.
‘Che aspetto aveva?’
‘Non riuscivo a vedere molto bene. Era buio.’
‘Ma devi pur aver visto qualcosa.’
‘Era una donna anziana. Se ne stava semplicemente lì in piedi, e mi guardava’
Continuammo a fissare il punto come ipnotizzati.
‘Indossava un kimono bianco,’ dissi. ‘Aveva i capelli un po’ spettinati. Appena mossi dal vento.’
Kikuko spinse il gomito contro il mio braccio. ‘Oh, sta’ zitto. Stai cercando di spaventarmi ancora una volta.’ Calpestò la cicca della sigaretta, poi per un breve momento rimase a guardarla perplessa. Ci calciò sopra degli aghi di pino, poi ancora una volta fece quel sorrisetto. ‘Andiamo a vedere se la cena è pronta,’ disse.
Trovammo mio padre in cucina. Lui ci lanciò una rapida occhiata, poi continuò quello che stava facendo.
‘Papà è diventato un vero chef da quando deve cavarsela da solo,’ disse Kikuko con una risata. Lui si voltò e guardò freddamente mia sorella.
‘Non è certo un’abilità di cui vado orgoglioso’, disse lui. ‘Kikuko, vieni a darmi un mano.’
Per alcuni istanti mia sorella non si mosse. Poi fece un passo avanti e prese un grembiule appeso a un cassetto.
‘Mancano solo queste verdure da cucinare,’ le disse. ‘Il resto va solo tenuto d’occhio.’ Poi alzò lo sguardo e mi fissò in modo strano per alcuni secondi. ‘Immagino che tu voglia dare un occhiata alla casa,’ disse alla fine. Mise giù le bacchette che impugnava. ‘È passato molto tempo dall’ultima volta che l’hai vista.’
Mentre lasciavamo la cucina lanciai uno sguardo indietro verso Kikuko, ma lei era di spalle.
‘È una brava ragazza,’ disse piano mio padre.
Seguii mio padre di stanza in stanza. Avevo dimenticato quanto grande fosse la casa. Un pannello scorreva e si apriva ed ecco un’altra camera. Eppure i locali erano tutti spaventosamente vuoti. In uno dei vani le luci non si accendevano e rimanemmo a fissare le pareti spoglie e il tatami alla pallida luce che proveniva dalle finestre.
‘Questa casa è troppo grande perché un uomo possa viverci da solo,’ disse mio padre. ‘La maggior parte di queste stanze non mi serve a molto, adesso.’
Ma infine mio padre aprì la porta su una stanza piena zeppa di libri e carte. C’erano fiori nei vasi e foto alle pareti. Poi notai qualcosa su un tavolino basso nell’angolo della stanza. Mi avvicinai e vidi che era un modellino di plastica di una nave da guerra, di quelle che costruiscono i bambini. Stava appoggiato su qualche foglio di giornale; sparsi intorno c’erano alcuni pezzi di plastica grigia.
Mio padre rise. Si avvicinò al tavolo e sollevò il modellino.
‘Da quando l’azienda ha chiuso,’ disse, ‘ho un po’ più tempo a disposizione.’ Rise di nuovo, in modo piuttosto strambo. Per un attimo la sua faccia sembrò quasi gentile. ‘Un po’ più tempo.’
‘Pare strano in effetti,’ dissi. ‘Sei sempre stato così occupato.’
‘Forse troppo.’ Mi guardò con un accenno di sorriso. ‘Forse avrei dovuto essere un padre più attento.’
Io risi. Lui continuò a contemplare la sua corazzata. Poi alzò lo sguardo. ‘Non avevo intenzione di dirtelo, ma forse è meglio che lo faccia. Sono convinto che la morte di tua madre non sia stata un incidente. Aveva molte preoccupazioni. E alcune delusioni.’
Entrambi fissammo la corazzata di plastica.
‘Di sicuro,’ dissi alla fine, ‘la mamma non si aspettava che io rimanessi a vivere qui per sempre.’
‘Ovviamente non capisci. Non capisci cosa devono passare alcuni genitori. Non solo devono perdere i loro figli, ma anche perderli per cose che non capiscono.’ Si rigirò la corazzata tra le dita. ‘Queste piccole cannoniere qui avrebbero potuto essere incollate meglio, non credi?’
‘Può essere. Ma io penso che vada bene così.’
‘Durante la guerra ho passato un po’ di tempo su una nave come questa. Ma avrei sempre voluto finire in aviazione. Pensavo: se la tua nave viene colpita dal nemico, puoi solo sbracciarti in acqua sperando in una cima di salvataggio. Mentre in aereo – beh – c’è sempre l’arma finale.’ Rimise il modellino sul tavolo. ‘Suppongo che tu non creda nella guerra.’
‘Non particolarmente.’
Lanciò un’occhiata alla stanza. ‘Ormai la cena dovrebbe essere pronta’, disse. ‘Sarai affamato.’
La cena era in attesa in una stanza poco illuminata vicino alla cucina. L’unica fonte di luce era una grande lanterna appesa sopra il tavolo che gettava nell’ombra il resto della stanza. Ci inchinammo a vicenda prima di metterci a mangiare.
Ci fu poca conversazione. Quando feci alcuni commenti educati sul cibo, Kikuko ridacchiò. Il suo nervosismo di prima sembrava essere tornato. Mio padre non parlò per diversi minuti. Alla fine disse:
‘Deve essere strano per te, tornare in Giappone.’
‘Sì, è un po’ strano.’
‘Forse sei già pentito di aver lasciato l’America.’
‘Un po’. Non così tanto. Non ho lasciato molto. Solo qualche stanza vuota.’
‘Capisco.’
Lanciai un’occhiata dall’altra parte del tavolo. La faccia di mio padre sembrava granitica e
minacciosa nella penombra. Mangiammo in silenzio. Poi il mio sguardo colse qualcosa in fondo alla stanza. Da principio continuai a mangiare, ma poi le mie mani si fermarono. Gli altri se ne accorsero e mi guardarono. Io continuai a fissare l’oscurità oltre la spalla di mio padre.
‘Chi è quella? In quella fotografia laggiù?’
‘Quale fotografia?’ Mio padre si voltò leggermente, cercando di seguire il mio sguardo.
‘Quella in basso. La signora anziana col kimono bianco.’ Mio padre posò le bacchette. Guardò prima la fotografia e poi me.
‘Tua madre.’ La sua voce era diventata molto dura. ‘Non riconosci la tua stessa madre?’
‘La mamma. Cerca di capire, è buio. Non riesco a vedere molto bene.’
Per qualche secondo nessuno parlò, poi Kikuko si alzò in piedi. Tirò giù la foto dal muro, tornò al tavolo e me la porse.
‘Sembra molto più vecchia’, dissi.
‘È stata scattata poco prima della sua morte’, disse mio padre.
‘È stato il buio. Non riuscivo a vedere bene.’
Alzai lo sguardo e notai mio padre che tendeva la mano. Gli passai la fotografia. La guardò intensamente, poi la tenne alzata verso Kikuko. Obbedientemente, mia sorella si alzò di nuovo in piedi e riportò l’immagine alla parete.
C’era una grossa pentola rimasta chiusa al centro del tavolo. Quando Kikuko si fu seduta di nuovo, mio padre si protese e sollevò il coperchio. Una nuvola di vapore si è alzò e si arricciò verso la lanterna. Lui spinse appena la pentola verso di me.
‘Devi essere affamato,’ disse. Un lato della sua faccia era immerso nell’ombra.
‘Grazie.’ Mi allungai in avanti con le bacchette. Il vapore quasi scottava. ‘Che cos’è?’
‘Pesce.’
‘Ha un odore molto buono.’
In mezzo alla zuppa c’erano strisce di pesce che si erano quasi arricciate a formare delle palline. Ne presi una e la deposi nella mia ciotola.
‘Prendine pure quanto ne vuoi. Ce n’è in abbondanza.’
‘Grazie.’ Ne presi ancora un po’, poi spinsi la pentola verso mio padre. Lo guardai mentre portava diversi pezzi nella sua ciotola. Poi entrambi restammo a guardare mentre Kikuko si serviva.
Mio padre si inchinò leggermente. ‘Devi essere affamato’, disse ancora una volta.
Si portò alla bocca un po’ di pesce e cominciò a mangiare. A quel punto scelsi anch’io un pezzo e me lo misi in bocca. Mi sembrò morbido e piuttosto carnoso al contatto con la lingua.
‘Molto buono’, dissi. ‘Che cos’è?’
‘Pesce e basta.’
‘È molto buono.’
Mangiammo tutti e tre in silenzio. Passarono diversi minuti.
‘Ne vuoi ancora?’
‘C’è n’è abbastanza?’
‘Ce n’è in abbondanza per tutti.’ Mio padre sollevò il coperchio e ancora una volta il vapore si alzò. Tutti ci avvicinammo e ci servimmo.
‘Ecco qui’, dissi a mio padre, ‘mangia tu quest’ultimo pezzo’.
‘Grazie.’
Quando finimmo di mangiare, mio padre allungò le braccia e sbadigliò con aria sodisfatta. ‘Kikuko’, disse. ‘Prepara il tè, per favore.’
Mia sorella lo guardò, poi lasciò la stanza senza dire una parola.
Mio padre si alzò.
‘Andiamo nell’altra stanza. Fa piuttosto caldo qui.’
Mi alzai in piedi e lo seguii nella sala da tè. La grande finestra scorrevole era stata lasciata aperta, facendo entrare la brezza del giardino. Per un po’ restammo seduti in silenzio.
‘Papà’, dissi alla fine.
‘Sì?’
‘Kikuko ha detto che Watanabe-San ha portato con sé tutta la sua famiglia.’
Mio padre abbassò gli occhi e annuì. Per alcuni momenti sembrò immerso nei suoi pensieri. ‘Watanabe era molto devoto al suo lavoro,’ disse alla fine. ‘Il crollo dell’azienda è stato un duro colpo per lui. Temo che possa aver indebolito la sua capacità di giudizio.’
‘Credi che quello che ha fatto – sia sbagliato?’
‘Ma certo. Tu la pensi diversamente?’
‘No, no. Ovviamente no.’
‘Ci sono altre cose oltre al lavoro.’
‘Sì.’
Ripiombammo nuovamente nel silenzio. Il verso delle locuste entrava dal giardino. Guardai fuori nell’oscurità. Il pozzo non si vedeva più.
‘Cosa pensi di fare adesso?’ chiese mio padre. ‘Vuoi restare in Giappone per un po’?’
‘Ad essere onesti, non ho pensato tanto avanti.’
‘Se desideri restare qui, voglio dire in questa casa, saresti il benvenuto. Ammesso che non ti dispiaccia vivere con un vecchio’
‘Grazie. Ci penserò.’
Guardai ancora una volta fuori nell’oscurità.
‘Ma certo,’ disse mio padre, ‘questa casa è così triste adesso. Sicuramente te ne tornerai presto in America.’
‘Forse. Non lo so ancora.’
‘Lo farai, poco ma sicuro.’
Era un po’ di tempo che mio padre sembrava studiarsi il dorso delle mani. Poi alzò lo sguardo e sospirò.
‘Kikuko dovrebbe completare i suoi studi la prossima primavera,’ disse.
‘Forse vorrà tornare a casa, allora. È una brava ragazza.’
‘Magari lo farà.’
‘Le cose miglioreranno allora.’
‘Sì, ne sono sicuro.’
Restammo di nuovo in silenzio, aspettando che Kikuko portasse il tè.
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[1] Fugu: Un tipo di pesce palla estremamente velenoso, considerato da alcuni una prelibatezza. [N.d.t]
[2] Chou En-lai: Zhou Enlai: Primo capo di governo della Repubblica Popolare Cinese [N.d.t]