Dalla Francia arrivano sempre cose buone

Foto di Natalie Grainger su Unsplash

di Laura Scaramozzino

L’uomo si sfrega la base del collo. Il freddo è una raggiera che diparte dalla fronte e si disperde nella luce artificiale del soggiorno. Si abbandona contro lo schienale del divano. Sotto le dita, il tessuto vinilico si sbriciola e gli rimane appiccicato ai polpastrelli.

Afferra la felpa scura, appallottolata di fianco, e se la avvolge a mo’ di turbante intorno alla testa calva. Chissà che cosa penserebbe Norma, se lo vedesse. La camicia da notte informe, le caviglie nude e la testa coperta. Da un paio di notti non fa che sognarla. Il sogno si ripete pressoché identico con qualche minima variazione. È notte, sono immersi nell’acqua fino al mento. Si tengono aggrappati entrambi a un asse di legno galleggiante. Tutt’attorno, il mare si distende a perdita d’occhio, nero come un cielo senza stelle. L’unico suono nel buio è lo sciabordio delle onde. La luna diffonde un chiarore esiguo e la pelle di Norma è pallida, come la pancia di un tonno. I capelli hanno perso il loro biondo posticcio. Scolorano in un castano stinto che ricorda la corda sfibrata di un ormeggio. L’uomo vorrebbe parlarle, nuotare o baciarle le labbra bianchicce. Non si salveranno, il silenzio che li avvolge è un silenzio di lutto e ricapitolazione interiore. Eppure non muoiono. Si consumano nel tempo indefinito dei sogni e acquisiscono, man mano, la trasparenza di un organismo monocellulare.

A dirla tutta, Norma non è il suo nome. L’uomo non sa come si chiami e non le ha ancora rivolto la parola. La incontra ogni settimana nella sede del Museo di Arte Moderna, seduta su una poltroncina rossa, in prima fila. Indossa golfini di cashmere color pastello. I riccioli biondi da cherubino in carne.

Si è iscritto a un ciclo di conferenze, intitolato: psicanalisi, inconscio e desiderio. Il promotore è un professore con gli occhiali spessi e le labbra sporgenti. Il maestro del professore, che lui cita con enfasi ossessiva, ha un nome che ricorda un profumo francese. A lui piace quel nome e gli piace la voce stentorea, cantilenante del professore. Dalla Francia arrivano sempre cose buone, inoltre: scioperi a oltranza, grandi idee e un modo tutto particolare di conferire carnalità allo spirito.

L’uomo sospetta che Norma si sia invaghita del professore. Forse perché a ogni conferenza si presenta con il rossetto sanguigno e un golfino sbottonato sul décolleté. Del resto, potrebbe sbagliarsi. Di tanto in tanto Norma osserva le riproduzioni di Emilio Vedova, sulla parete di fronte, con lo stesso sguardo liquido e tremolante.

Sua madre gli diceva sempre: «Diffida delle donne che mettono passione ovunque. Sono le più volubili».

L’uomo si alza dal divano e produce uno schiocco secco. La camicia da notte della madre è piena di pallini. Fiocchetti azzurri gli penzolano sul petto scarno. «Quando crepo, devi buttare via la mia roba» lo aveva ammonito con un indice grassoccio puntato contro «Nessun’altra dovrà indossarla. Brucia tutto. Il fuoco è una soluzione valida per molte cose».

Solleva la camicia da notte sui fianchi e la lascia ricadere di colpo. Lancia un’occhiata al tavolo rotondo al centro del soggiorno. Quasi ogni pomeriggio la madre si chinava, grugniva e lo lucidava con un panno giallo. Quando era un bambino, lui lo aveva macchiato con un pennarello e la madre lo aveva rinchiuso nello stanzino delle scarpe per mezz’ora. Lo stanzino emanava un odore sintetico. Era troppo buio, là dentro, un buio che non aveva mai sperimentato. Denso al punto che lo si poteva tastare. Il bambino si era messo a piangere, la madre aveva aperto la porta e lo aveva abbracciato. «Siamo solo noi. Dobbiamo darci una mano a vicenda».

Lui e la madre sono sempre vissuti in quel minuscolo appartamento. Mattonelle di graniglia color senape. Cucinino angusto con le piastrelle bianche. Lampadari, anni Ottanta, opacizzati da un vapore perenne. Nella camera da letto, il parquet è marcito per via dei troppi lavaggi. Ruvidi e frettolosi.

L’uomo procede nel buio, attento a non incespicare fra le commessure scheggiate del legno. Si butta sul letto matrimoniale e allunga una mano verso l’abatjour incassata nel mobile. La casa sarebbe rimasta la stessa in eterno, lo sapeva, rivelando via via lo sgretolio del truciolato. Al pensiero, l’uomo ricorda i bastoncini di liquirizia che succhiava da bambino.

Anche stanotte dorme poco o niente e quando cede al sonno, si ritrova immerso nell’acqua con Norma, che perde colore e consistenza a ogni secondo che passa. Il silenzio sciabordante dapprima lo calma, poi lo terrorizza. Se Norma scomparisse del tutto, lui che cosa farebbe?

Il mattino dopo si trascina al supermercato. Sente ancora il peso del turbante in testa.

I colleghi sistemano gli scaffali con lentezza pachidermica o, alla cassa, passano i prodotti sul nastro come fossero blocchi di granito. Sui banchi del reparto ortofrutta, le mele appaiono troppo verdi e i peperoni troppo rossi. Ogni dettaglio è un pungolo che lo trafigge. Dalle voci acute dei clienti agli stridii delle casse. Non vede l’ora di rifugiarsi nel tepore vellutato del Museo di Arte Moderna. Quella sera ci sarà l’ultima conferenza. L’uomo avrà una sola occasione per parlare con Norma.

Finito il turno, l’uomo entra nel bar di fronte al supermercato e ordina un espresso macchiato caldo. Ai tavolini ci sono pochi clienti, tutti con l’aria spenta e le facce illividite da una luce glaciale. Un vecchio con la pancia debordante, e l’espressione di un rospo, sorbisce un bicchiere di birra ghiacciato. Due donne sui sessanta parlottano fitto e annuiscono in continuazione, i cappuccini intatti e i baci di dama mangiucchiati per metà abbandonati sui piattini.

Finito il caffè, l’uomo va alla fermata e prende l’autobus stracolmo di ragazzi sghignazzanti, stretti nei giubbotti che sembrano sacchetti della spazzatura drappeggiati.

Il professore sostiene che i giovani, in molti casi, abbiano perso il desiderio. Che vivano una vita senza fuochi interiori. Priva di gioia. A lui sembra che di energia ne abbiano fin troppa e che la disperdano mettendosi insieme e confondendosi l’uno con l’altro. Sua madre lo dissuadeva dall’avere degli amici. «Concentrati su te stesso. E su di noi. Dicono che il tre sia il numero perfetto, ma non è così. Guarda me e te, non sprechiamo tempo, non ci stanchiamo troppo. Diamo l’uno all’altra tutto ciò che serve».

L’uomo nutriva il sospetto che sua madre si credesse immortale. Non aveva mai accennato al fatto che un giorno lo avrebbe lasciato solo. In balia di un desiderio nuovo che non avrebbe saputo come gestire.

A casa si prepara un toast bruciacchiato e riflette sulla serata che lo attende. Se arrivasse sul presto troverebbe un posto libero accanto a Norma. Le siederebbe vicino e, se il professore toccasse argomenti interessanti, le bisbiglierebbe cauto qualche parola nell’orecchio. Forse lei lo respingerebbe con il palmo della mano piccola. O lo guarderebbe con divertita curiosità.

Ora indossa la camicia bianca, la cravatta e un completo grigio. Si guarda nello specchio del bagno. La pelle del volto è diafana, come fosse stato a lungo sott’acqua. Dev’essere per via delle piastrelle azzurre. Riflettono una luce smorta. A sua madre piacevano tanto. «Il blu e l’azzurro sono i colori della profondità» gli diceva spesso, dandosi un tono.

Esce di casa con una certa fretta. Osserva distratto la chiesa che si trova dall’altra parte della strada: un cubicolo di mattoni erosi dall’umidità. Tra qualche ora, il giardino di fronte vedrà la comparsa di qualche prostituta annoiata o di un gruppetto di quindicenni con i ciuffi ingellati. L’uomo li ha spiati, qualche volta. È sceso dall’autobus e li ha visti seduti in fila sullo schienale della panchina. Le gambe magrissime e i piedi grandi. Si spartivano una canna. Urlavano, ridevano e abbozzavano discorsi osceni.

L’unica ragazza con cui era stato, di nascosto dalla madre, lo aveva mollato dopo tre mesi. Non era stato in grado di fare sesso con lei. In mezzo alle gambe aveva un mollusco dormiente. Lei aveva aspettato che facesse qualcosa, ma lui non aveva fatto niente. Quando due persone stanno bene, non dovrebbe costare troppa fatica stare insieme. Una mattina si erano visti in un bar vicino alla stazione. Le aveva dato appuntamento in quel locale per via delle torte esposte in vetrina. Grandi e ricche di strati. Come piacevano a lei.

La ragazza aveva raschiato la fetta di torta con una forchettina. «Non ti lascio per quello che pensi, ma perché sei del tutto passivo. Come se non ti importasse. Il punto è che non puoi dare niente a nessuno. Non ce la fai».

L’uomo è convinto che con Norma sarà diverso. È piena di vita e da lui non pretenderà nulla.

Imbocca il sottopasso della metropolitana e corre giù per gli scalini, intorpidito dalla cupa luce sotterranea. C’è parecchia gente a quell’ora. Molti tornano dal lavoro. Alcuni indossano completi simili al suo. Altri, giacche sportive su camicie sgargianti. Anche se non dovrebbe, scruta un paio di ragazze sedute al fondo del vagone. Rispetto a Norma, appaiono dimesse. Sottili e contegnose. Gli sguardi vuoti.

Superata la stazione, scende alla fermata e rabbrividisce. Avrebbe dovuto mettere una giacca più pesante. In superficie, la città appare più fiacca del solito, nella luce del crepuscolo. L’uomo non ama quella zona. Oltrepassati i portici, e i bar storici frequentati dalle vecchie con le chiome azzurrine, l’uomo costeggia i palazzi ottocenteschi adibiti a uffici di avvocati e notai. Attraversa il corso, in fondo al quale s’intravedono le colline. Villette chiare si susseguono nelle vie interne. I cancelli, e le foglie sbiadite dei bagolari, celano alla vista i giardini curati e i padroni degli edifici. Questi ultimi, silenziosi al punto che l’uomo dubita esistano per davvero.

Il Museo di Arte Moderna, costruito su due piani, ha l’aspetto di un istituto di correzione o di una piscina modesta. L’uomo percorre l’ingresso porticato e ha l’impressione di finire nello stanzino in cui la madre lo richiudeva per punizione.

Entra in biglietteria e mostra il pass all’addetta: una ragazza con la coda di cavallo e la forfora sulle spalline della giacca scura. «Sono un po’ in anticipo, posso entrare?»

La ragazza gli rivolge un’occhiata indifferente e gli restituisce il pass. «Prego, vada pure».

L’uomo tira dritto verso la sala delle conferenze. Il museo, nella sua veste serale, ha l’aria di un teatro destinato a performance estreme. Proiezioni di videoarte da fruire tra il sogno e la veglia.

La sala è semivuota. C’è una sola spettatrice che fissa il palco. Porta un paio di occhiali scuri che la fanno assomigliare a un’attrice degli anni Cinquanta.

L’uomo sente il cuore sotto la lingua e si fionda verso poltroncina accanto alla sua. «Siamo i primi, a quanto pare».

La donna annuisce e continua a fissare il palco. O almeno così pare, dato che porta le lenti scure e tende il collo in avanti.

«Peccato che sia l’ultima conferenza. Mi piace l’approccio del professore».

La donna apre la borsetta che tiene sul grembo e afferra un pacchetto di fazzolettini. «Ci sono i suoi libri, ma non sono la stessa cosa».

«Vero, però, come si dice, la psicanalisi non è soltanto un bel discorso. Ci dà delle indicazioni. Ci spinge all’azione, giusto?»

Norma scuote i ricci e si passa un fazzolettino sotto le lenti extralarge. «Lei ha pure ragione, sa?»

Anche questa sera lei è abbagliante. Indossa un golfino verde acido e una longuette bianco ghiaccio. Il fatto che porti un paio di ballerine, invece del tacco alto, lo rassicura. Potrebbero fare una lunga passeggiata sul lungofiume, più tardi.

L’uomo non si presenta. Per tutta la durata della conferenza, vorrebbe che la donna continuasse a chiamarsi Norma.

La sala inizia ad affollarsi. Affluiscono alcune coppie intorno ai sessant’anni. C’è qualche spettatore solitario: un tizio con la giacca di velluto a coste e una cinquantenne con i capelli crespi e una gonna lunga fino ai piedi.

Il brusio si diffonde rapido e Norma stringe con forza il fermaglio della borsetta. L’uomo si allunga di lato e le bisbiglia: «Mi piacerebbe invitarla per un caffè, dopo la conferenza. Potremmo dirci le reciproche impressioni».

Norma si copre le labbra scarlatte con la mano e ridacchia. «Non ho mai capito una cosa» sussurra complice.

«Che cosa?»

«Perché le persone offrano sempre il caffè. Non piacerà mica a tutti. Io odio il caffè, sa?»

«Che cosa le piace?»

Si stringe nelle spalle. «Mi faccio ispirare dal momento».

Il chiacchiericcio in sottofondo si smorza. Il professore fa il suo ingresso. Le luci si spengono in sala e fioriscono sul palco. Il professore avanza con passo esitante, allontana un ciuffo dagli occhi e offre uno sguardo grato alle sedie occupate.

«Finalmente» esulta Norma stringendo i pugni.

La conferenza è una ripetizione interminabile dei soliti concetti. Poco male, ricorderanno meglio ogni cosa e ne parleranno con precisone durante il loro primo appuntamento.

Trascorse due ore esatte, il professore chiude l’intervento e ringrazia tutti con tono grave. Gli applausi ne accompagnano l’uscita di scena. L’uomo si aspetta che Norma lo insegua o provi a intercettarlo mentre scende dal palco e si avvicina all’uscita. Invece resta seduta, sospira e si rivolge all’uomo: «Una volta ho fatto l’errore di parlare con il mio cantante preferito».

L’uomo le sorride. «E che cosa è successo?»

«Era noiosissimo» ribatte lei sbuffando «Non assomigliava per niente alle cose che scriveva e cantava».

«Le conferenze, però, le mancheranno».

Con l’indice, Norma caccia via i grumi di rossetto agli angoli delle labbra. «S’intende. Le va di uscire di qui?»

Si alzano e sgusciano via dalla sala ancora mezza piena. L’uomo con la giacca di velluto a coste abbraccia la donna con i capelli crespi. Un gesto da amici di lunga data o da vecchi compagni di scuola.

Fuori dal Museo l’aria è sferzante nella notte. Si è formato un crocicchio di persone che commentano la conferenza ad alta voce o fumano una sigaretta dietro l’altra. Norma è più alta di quanto credesse, ma meno robusta. Il seno sovrabbondante e la faccia tonda lo inteneriscono più che eccitarlo. «Allora, dove le piacerebbe andare?»

Norma si aggiusta le stanghette degli occhiali e corruccia il labbro. «Perché non andiamo al mare? Il professore approverebbe questi colpi di testa».

L’uomo si stringe nella giacca leggera e respinge un brivido. «Ci vogliono almeno tre ore per arrivarci e, purtroppo, domani lavoro».

«Senta, perché non viene a casa mia e facciamo prima? Ho voglia farmi un bagno. La vasca mi può pure bastare, sa?»

L’uomo, alquanto sorpreso, scruta Norma e il suo volto impenetrabile. «Mi sta invitando a casa sua?»

Norma gli sfiora un braccio con la mano. «Su, dai, venga. Mica vorrà essere pregato».

«Ha la macchina parcheggiata da qualche parte? Io sono venuto in metro».

«Non si preoccupi» fruga nella borsetta e, nonostante gli occhiali scuri, agguanta il cellulare «Chiamo un taxi».

Mentre aspettano, Norma lo afferra per il braccio e gli si stringe contro. L’uomo si rilassa e pensa che il momento delle presentazioni potrebbe anche non arrivare mai.

Sul taxi lei gli lascia il braccio e preme la fronte contro il finestrino. L’autista ha i capelli ricci e lunghi sulle spalle. Sembra un ventenne svampito. Li osserva dallo specchietto retrovisore e all’uomo, chissà perché, non spiace.

Norma abita in una zona un tempo popolare e ora molto ambita da piccoli galleristi e studenti fuori corso. Lungo le vie strette e acciottolate si trovano minuscole botteghe artigiane e studi d’arte. Le case sembrano cadere a pezzi, ma sono tutte ristrutturate. Sotto l’appartamento di Norma, sorge un’osteria con le volte a botte e i mattoni a vista. È ancora aperta. Attraverso i vetri appannati, l’uomo nota il via via di una cameriera slanciata e in maniche corte.

Salgono gli scalini in pietra e arrivano al secondo piano. L’uomo non resiste alla tentazione e sbircia la traghetta sotto il campanello: P. Righetti e N. Ferraro. Si morde il labbro e segue Norma che apre la porta di casa e lo invita a entrare con un cenno.

Il soggiorno è minuscolo e dà su un balconcino con la ringhiera in ferro battuto. Norma svanisce in cucina senza dire una parola. L’uomo la sente armeggiare sotto lo scroscio dell’acqua. Dopo un paio di minuti, lei si affaccia con due bicchierini in mano. Ha ancora gli occhiali addosso. L’uomo immagina abbia la congiuntivite e che non voglia mostrargli gli occhi rossi e cisposi.

Si siedono sul divanetto che sa di muffa e restano in silenzio. Norma si raccoglie in un angolo e trangugia il limoncello d’un fiato.

L’uomo ingolla un sorso breve e la guarda. «È così silenziosa».

Norma sorride, posa il bicchiere vuoto sul tavolino di vetro e si rannicchia in posizione fetale.

«È sicura che vada tutto bene?» Beve un altro sorso e il buio a un tratto diventa piombo. Conosce quella sensazione. Boccheggia. L’oscurità sfuma in una nebbia che gli fa vorticare il capo. Protende un braccio verso Norma, sempre più distante. Lontana anni luce dalla sua portata. I contorni del tavolino, della portafinestra, e dell’arco che divide la cucina dal soggiorno, sfumano in un’inconsistenza ectoplasmatica. Qualcosa, o qualcuno, gli sta svitando la testa. Poi tutto perde forma e lui non sente più.

Si risveglia in una vasca piena d’acqua. Nudo. Come ci sia arrivato, non è dato saperlo. Sopra di lui, appoggiata sul bordo, Norma lo osserva con dolcezza, come lui fosse un bambino che fa il bagno. È senza occhiali, circonfusa di luce. Ha uno zigomo viola e verdastro. Un occhio pesto, gonfio.

L’uomo ha lo stomaco sottosopra e la testa che gli grava sul petto. Nonostante i segni del pestaggio, Norma è raggiante. Luminosa come una diva colta di sorpresa in un super otto amatoriale.

L’uomo apre la bocca, ansima.

«Stia tranquillo, non si sforzi. Non serve. Vede, avevo una scelta, questa sera. Vendicarmi di un uomo a caso, o fare qualche pazzia. Assecondare un desiderio, avrebbe detto il professore. Beh, lei non è voluto andare al mare e così…». Immerge una mano nell’acqua e la muove con un gesto pigro.

Prima di perdere i sensi per un’ultima volta, l’uomo prova un senso di sollievo. Per lo meno, non dovrà più chiedersi che cosa farebbe senza di lei.

 

Aggiungi un commento