Dunuts

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di Cristina Eleni Kontoglou

Ho intensamente voluto una figlia il giorno in cui ho visto uno spot di shampoo. Una bambina bionda era seduta in un catino di legno in mezzo a un prato, la madre la pettinava da dietro. Ero a mia volta una bambina, ma ero certa: ne volevo anche io una, di quelle bambole vere che sapevano sorridere con le labbra rosse, a scoprire gengive di fragole gialle e denti da latte. Una volta adulta, ho iniziato a guardare gli altri per capire in quale momento avrei dovuto iniziare a progettare la mia bambolina, e come.

Un’amica aveva appena partorito, andai a trovarla. La mia amica Evghenia era bella, aveva le gote gonfie per la circolazione e il sangue in superficie a irrigare un difetto di abbondanza. Qualcosa in lei era eccedente. Descriveva il parto come un’esperienza splendida, lei che fino a poco tempo prima frequentava la notte e i suoi luoghi corrosi dal buio. Osservavo il latte in eccesso trasparire dagli ingorghi oltre i capezzoli tumefatti, poi prese in braccio la bambina. La testa era grande, sembrava contenere dentro altre cellule di altri figli non nati, memorie impresse nella placenta, come poteva essere tanto grande, la testa di una neonata? La guardavo impietosita, non riusciva a tenerla dritta, stava reclinata sulla spalla della madre come una corolla asciugata dal caldo, senza clorofilla per sostenere l’estate. Pensai alle piante innestate, tenute ferme da un ramo e legate con del fil di ferro. Immaginai di fare lo stesso con quella creatura, di scrivervi sopra un cartellino a indicarne la specie di appartenenza, il suo nome scialbo scritto a matita.

La mia amica si mostrava diversa. Qualcosa la rendeva superba, immaginavo un corteo lanciarle coriandoli mentre in piedi salutava, senza guardare nessuno di noi. Coriandoli e non del riso, perché nessuno facesse del male alla neomamma ora che era diventata utile, prima di consegnare il diadema alla prossima. E anche io avrei voluto salirle sulle ginocchia, cedere il capo alla stanchezza, sicura che sapesse ogni cosa accaduta, ogni mio errore, e lei sola sapesse perdonarmi.

Cosa accadeva alle donne dopo la maternità, era come aprire una porta segreta oltre la quale nessuna tornava, e a me non bastava più spiare.

Aveva acquistato una serie di oggetti per la bambina che mi sembravano mostruosi. Palle a spicchi interattivi, e lampade speciali con sensori incorporati per modulare suoni e colori sulla base del sonno della piccola: celeste per le prime ore della sera, blu e boscaglia per le fasi più profonde. Non aveva il coraggio di ammettere di averle comprate per se stessa. Per le neomamme in compenso il mercato offriva biscotti vitaminici, intimi speciali, borse pratiche. I prodotti per le donne esibivano una grafica infantile, come se le madri dopo aver partorito regredissero omologate ai figli, bombardate di riferimenti al nuovo status perché non si deconcentrassero, né pensassero ad altro.

L’infantilizzazione della madre partiva dalle sacche porta bebè a pois e animali, fino alle pasticche di vitamina b a forme rassicuranti di stelle e cuori. Volevo entrare in quella ludoteca galattica, inghiottire chips proteici azzurro pastoso, farmi irritare la lingua da aromi di ciliegie artificiali, far parte del mondo edulcorato, dove i problemi sparivano in un calendario convesso e il tempo scandiva le poppate e i sonni di una creatura estranea.

Volevo il bene di cui godeva per diventare anche io una statua votiva, una santa, sparire nella collettività di un politeismo lussuoso. Qualcuno in qualche pellegrinaggio mi avrebbe appeso alle dita di pietra collane, rosari e souvenir votivi, che la mia materia inerme mi avrebbe impedito di rifiutare. I giorni seguenti tentai ancora con il mio compagno, avevo tolto da poco un fibroma e la ginecologa mi aveva dato il lasciapassare. Ma non servivano le pratiche post coito e le pasticche di acido folico: il mio ventre restava piatto e indifferente alle incursioni emotive e fisiche.

Andai da una fattucchiera. Una maciàra che abitava dopo il cavalcavia oltre la vecchia stazione demolita, chiunque la conoscesse, non voleva più tornarci, era sempre più complesso raggiungere la casa, accessibile tramite un sentiero che costeggiava un edificio radioattivo, da oltrepassare scavalcando un recinto. Indossai stivali di gomma che avevo usato per il weekend di neve di dieci anni prima, quando il centro era deserto e i fanali depistavano neve matura sotto le ruote. Ricordo quella notte: ero andata nel locale dove trascorrevo il weekend, una serata che odorava di tergicristalli, arredi anni ottanta e divani rossi stile Windsor. Mi piaceva il modo in cui facevo sesso allora, solo per sentire la vulnerabilità di un altro essere umano sotto le dita, sentirlo indifeso, sfriarsi, gli occhi chiusi o aperti vacui rivolti verso di me, era una questione di potere. Non ero cambiata. La suscettibilità  di un altro essere umano mi attraeva ancora, magnetica.

Sarei stata una madre diversa, mi dicevo, perché ero nata diversa. Pensavo a quella fotografa francese, che avevo trovato nelle riviste di arredi e lifestyle a cui ero abbonata, un genere di giornalismo che il lettore può applicare passivamente alla propria vita, in connessione sottile con il marketing, senza provocare la naturale avversione per la pubblicità esposta.  Alain Laboile era lì, sul mio tavolino in grafite nero, inquadrata nelle pagine opache di preset caramello. Aveva portato via i figli dalla città per crescerli in campagna, e li ritraeva sulle staccionate spezzate della fattoria intrisi di natura in modo indecente, le lentiggini in inverno per il troppo sole. Seguiva una lunga intervista.

La maciàra raccolse con me le erbe per la fascina da bruciare, piante che sarebbero servite alla fumigazione, salvia, camomilla, rosmarino, fiori di campo. Dovevano essere otto, come la forma della donna gravida. Prima di sradicarle abbiamo chiesto loro il permesso in una frase pronunciata sottovoce, per poi segnarle e infine tagliarle in obliquo, dove la ramificazione consentiva un’amputazione innocua. Infine, le abbiamo annegate nella loro stessa linfa estratta da uno stelo aperto, tenute al riparo dalla luce per una notte e assemblate in un unico corpo, intorno al ramo portante, tramite un filo di spago da cucina. Solo a quel punto avveniva l’inserimento dei petali e delle foglie prescelte, come una decorazione. Il risultato era un fascio di rami e fiori da bruciare secondo proposito, dopo averlo lasciato seccare alcune sere. Gli intenti hanno bisogno di tempo per farsi strada, macerare, specialmente quelli contro natura.

Mi consegnò la mia fascina, da lasciare in una credenza perché asciugasse i liquidi naturali delle piante, e si raccomandò di accenderla dieci giorni dopo. Come le bucce di arance e i mandarini che lasciavo seccare sulla terrazza per allontanare gli insetti, ne sarebbe rimasta solo la pelle. Non volevo che qualcuno scoprisse l’involto, così lo lasciai lì diverse notti, finché non lo dimenticai del tutto, quando scoprii di essere incinta.

Ora che lo scopo era stato raggiunto, non avevo motivo di bruciare e fumigare le stanze, rischiando di inalare io stessa il legno bruciato e di mettere in pericolo me e il bambino. Ma sbagliavo.

Non sapevo che i rituali devono essere portati fino in fondo o non iniziati affatto, perché il loro risultato non partorisca a loro volta un mostro, un intento non ancora pronto, che conservi le parti embrionali senza funzione. Come se chi ricevesse la richiesta dubitasse della loro persuasione.

Nonostante tutto, l’assemblaggio si stava compiendo nel corpo, mentre le cellule estranee colonizzavano il DNA distruggendone la purezza: era un prezzo che dovevo pagare, accettare che non fossi la sola, commisurarmi alla genetica dell’altro, il primo estraneo, il mio compagno e a breve mio marito.

Il matrimonio venne celebrato prima della nascita. Ero stata io a imporre una scadenza, contava il progetto e mi piacevano i numeri nella loro intransigenza, ma della sua realizzazione non me ne occupai. Lasciai che mia suocera sbrigasse la parte pratica, i fiori, l’abito, il luogo. Mi presentò tre agriturismi immersi nelle Dolomiti, dalle fonti disseminate nei parchi e gli spazi per le orchestre.

Ai pergolati artificiali erano appesi nastri sempreverdi, riciclati dai matrimoni precedenti: somigliavano ai pendenti che avevo visto nella culla della bambina, a casa della mia amica. Come se adesso tutto dovesse piovere dall’alto, spiovere con un movimento verticale, abbinato a ogni evento sociale, familiare, nastri, palloncini. Dove volevano svettare queste persone… Io inclusa avevo abbandonato l’orizzontalità dei club, delle serate sulle scalinate del centro e brillavo, in un vestito in raso e crepes da sartoria, i manicotti in cristalli e perle, mi eclissavo di fronte ai mosaici delle navate più autentiche. Nessuno se ne accorgeva, conquistati dall’aura inaccessibile di chi ha chiuso per sempre con il passato. Io stessa, mi sentivo integra.

E per preservare quello stato il più a lungo possibile, la notte fingevo di dormire per non essere toccata da mio marito. Ormai io ero un luogo, non una persona, di quei luoghi inarrivabili senza equatore.

La mia gravidanza fu un continuo ematoma del corpo in ogni angolo. Dicono che il corpo della donna sia fatto per ospitare un altro essere e di tutte, questa è la bugia più fatiscente.

Il mio bambino cresceva, scalciava a seconda di come ero sdraiata, e i suoi piedi creavano una protuberanza dal ventre che gli altri guardavano inteneriti. Inutile spostarmi, posizionarmi, dentro di me non voleva restare, era evidente, e io speravo che passassero presto quei nove mesi. “Goditeli perché non sarai mai più trattata così, come una principessa, ora sei in uno stato di grazia.” Uno stato di grazia. Così ripeteva la mia amica. Io restavo in silenzio perché non pensasse che non ero una di loro. Il mio ideale di grazia era diverso, correre, spostarmi senza soppesarmi, non dover disinfettare ogni alimento nel lavabo come se fossi una superficie io stessa, e il mio pavimento pelvico piastrelle sterilizzate. Inoltre, il bambino prosciugava emoglobina. Ero anemica, e più lui si sviluppava in forze, più le sottraeva a me. Un giorno la ginecologa annunciò che era sano, pesava a sufficienza, il problema ero io, non era possibile che pesassi tanto poco mentre il bambino era perfetto. Da dove prendeva i nutrienti? Da me, avrei voluto rispondere. Dalle mie scorte, dalle dispense segrete del mio corpo, dai ricordi che non gli appartenevano. Prendeva ogni cosa senza permesso, si appropriava degli spazi. Allo stesso tempo ero ossessionata dai controlli. A ogni sussulto aspettavo il momento in cui lo avrei sentito scalciare nuovamente, immobile, il cucchiaino ancora in mano mentre percorrevo il corridoio. A volte aspettavo ore, credo lo facesse espressamente. Sapeva cosa mi faceva stare male, lo sentiva perché era concepito dal mio malessere, e non dalla parte migliore. La pancia iniziò a coprirsi di peluria soffice e rada come una tundra innevata, dicevano fosse comune con i figli maschi. Ero un animale muschiato, e più lui diventata umano più io mi disumanizzavo.

In una notte in cui le sale parto erano piene di donne, per le acque che si sollevavano dalla riva verso i palazzi di città, avvenne il parto. Non ricordo niente di quel momento.

Solo la sensazione di essere cielo e sole insieme, e di venire squarciata da me stessa. Non ero io, a questo mi sarei abituata. Se fosse esistita una pastiglia per disciogliere quell’individuo e renderlo liquido innocuo, la avrei presa. Invece restavo schiava dell’automatismo, dello spingere fuori da me non sapendo farne niente di diverso.

Mi cucirono le parti lacerate, e pensai a quelle parole. “Sarà il momento più bello della tua esistenza, vedrai”. Mi avevano ingannata. Era possibile che qualcuno mi avesse spacciato per sciroppo dolce una questione detestabile, e per quale motivo, vendetta? No, alcune persone vivevano semplicemente di rielaborazioni posticce, falsificavano quanto gli accadeva laccandolo di azzurro. Io ne ero stata attratta e avevo allungato la mano, ma il sudore aveva fatto da solvente: era stato sufficiente il contatto con gli umori umani, per eliminare la pessima verniciatura.

Lo avevo fatto altre volte con le esperienze altrui, quando le toccavo per sentirne la consistenza, ogni volta non era mai stato come descrivevano; mi attraversava il pensiero che le persone non sapessero restituire le emozioni, e prendessero in prestito parole usate per non dargli accezioni personali, e lasciarle così fuori da sé. Non le avevo mai vissute allo stesso modo. Alla laurea non avevo provato quella sensazione di elettrica adrenalina che mi era stata descritta, nessun trasporto, mi vergognavo, in piedi, la corona in testa tolta subito dopo le foto.

Adesso era stato lo stesso. L’ostetrica mi diceva che era tutto finito quando era solo l’inizio, e pensavo se anche lei stesse giudicando la mia recita. Mi aveva poggiato addosso il bambino e lo aveva fatto senza riguardo dei fili e delle imbastiture nella carne, l’avevo guardata con fastidio, e lei mi aveva risposto che ci si abitua. “Dopo” spiegava, “non si fa più caso alle proprie esigenze”. Mi stava trattando come una bambina. Il solo fatto che fosse la prima di una serie di frasi non benevole, mi apparve lucidamente, e più le situazioni erano emotive, più io diventavo analitica per mancanza di fiducia nelle apparenze.

I giorni seguenti feci finta di dormire quando si avvicinavano con il bambino in braccio, e presto fu chiaro anche a loro che non restava altro, neppure insegnarmi come si cambiano i pannolini, così mi rimandarono a casa.

Mi appesantiva tenerlo, la schiena si inarcava, tutto mi stancava, lo cedevo facilmente a chiunque volesse liberarmi dell’incombenza: anche in questo, non mi riconobbi nei racconti di chi mi confessava di non riuscire a lasciarlo a nessuno. “È una sensazione naturale” spiegavano, “senti che solo tu puoi calmarlo”.

Così volevano credere per sentirsi insostituibili dopo tanto sacrificio, ed era vero, Isavros allungava le manine verso di me, mi cercava nel pianto. Non ci volle molto a capire che non era me che voleva ma il capezzolo, interpretai il suo gesto, anche se tutti parlavano di connessioni antiche: quel voler trovare l’invisibile sotto una pratica della sussistenza, psicologizzare l’intuito triviale, mi sembrava ridicolo.

E anche io, preferivo ammettere che di me volesse solo un pezzo come fossi una macchina, invece di pensare che esigesse una qualche forma di reciprocità. Io e lui eravamo estranei: a questo pensavo quando lo trovavo nel mio letto dopo essere tornata da qualche altra stanza, e mi stupivo della sua stessa presenza.

La parte interessante, era che se fino a un giorno prima ero stata infantilizzata, con ninnoli e confezioni da neonati, creme per gambe pesanti con su impresse donne sorridenti, e fiori di camomilla, ora ci si aspettava che diventassi di colpo adulta, responsabile. Una volta espletata la mia funzione non ero più lusingata, proprio adesso che iniziava la parte difficile, e che il mio corpo era stato spaccato come una pignatta alle fiere del lungomare  – le strisce di plastica lucide, i confetti, la farina sparsa – a malapena riuscivo a stare in piedi, cullarlo, la schiena a pezzi, le ferite in basso incrostate. Tutto faceva parte della salvaguardia del neonato, fino alle mie abrasioni.

“È mio figlio”, dicevano le altre, “capisco meglio di chiunque di cosa abbia bisogno”. Era mio figlio e non ne sapevo niente, non capivo cosa volesse quando piangeva, le possibilità erano diverse, ma non ero la sola. Le amiche che mi venivano a trovare ne sapevano meno di me e non volendo mostrarlo, si esibivano in dissertazioni sul sonno dei neonati, la gravidanza ‘secondaria’ e il loro credere di trovarsi ancora nella placenta per altri nove mesi. Mi passavano articoli e informazioni intrise di misticismo e mistero, sui rumori bianchi, la necessità di non lasciarlo piangere per nessun motivo, pena la degradazione dell’autostima e della fiducia, per sempre.

Le librerie erano fornite di reparti dedicati: “Come capire tuo figlio”, “Il linguaggio segreto dei neonati”, una biblioteca archeologica di simboli. Ma la minaccia più ricorrente era: “Non avrai più tempo per niente”. Invece di tempo ne avevo, eccedeva come il mio latte, si ingorgava, ed era tempo dilatato di attese, di monotonia e straniamento. Aspettare che si svegliasse, che mangiasse, per poi chiedersi a fine giornata, cosa ho fatto oggi? Mio figlio era insaziabile, il resto del tempo piangeva e al sonno preferiva il pianto, mentre il primo assumeva la forma della pausa, l’involontario meccanismo compensatorio dello sfinimento. Il suo pianto non somigliava a quello di nessun altro neonato. Aveva una forza e una disperata mimica del viso, che si scostava disgustato a ogni tentativo di consolazione e ne deformava i tratti. Sembrava inorridito per tutto quello che lo circondava, noi inclusi, forse percepiva il mio recalcitrare, oppure, e sarebbe stata un’ipotesi terribile, aveva ereditato da me il carattere: una incomprensibile insoddisfazione. Il fatto che fosse un maschio era stata una delusione. Il sesso non conta, mi dicevano, ma non per me. Non avevo nessuna voglia di crescere un maschio e vedermelo sviluppare davanti partendo dai genitali, per arrivare alle esigenze, al carattere. Non era avversione, per me l’universo maschile era semplicemente qualcosa di già affermato, di dato così come lo conoscevo: lo avevo sempre visto a processo compiuto, non avevo interesse a ricostruirne le parti, tantomeno a farne un essere migliore nell’interesse sociale. Con la mia bambolina sarebbe stato diverso. Avrei riprodotto le mie stesse fasi ma dal di fuori in un passaggio di identità, solo in lei si faceva reale la speranza, che avrebbe potuto essere migliore di me.

Con il passare delle settimane avevo capito presto, che la società di oggi è crudele con le madri e accattivante con la maternità. Avevo tutto quello che serviva, mi erano stati regalati da amici e conoscenti ovetto, culle, ma sembrava sconveniente, una volta messo piede nel negozio di articoli per l’infanzia più caro della zona, non ordinare altro.

Una commessa ci aveva serviti, me e mio marito, guardandoci come criminali irresponsabili ogni volta che facevamo presente che un articolo ci era già stato regalato. “I bambini piccoli sono delicati”, replicava come se avesse a che fare con due inetti, “servono igiene e scrupolo.”

“Ma li abbiamo fatti disinfettare” avevo risposto, sentendo il ridicolo del mio giustificarmi con una sconosciuta. Eppure non era la prima, la mia non era un’esperienza personale ora lo sapevo, ma collettiva. Attraverso di me gli altri praticavano la bontà e l’assennatezza, ero la loro palestra e i miei errori consentivano agli altri, inclusa quella donna, di percepirsi sanificati. Dovevo qualcosa al mondo costantemente: stavolta era il turno dello scrupolo. Secondo le mie credenze, doveva essere una scelta sociale evitare i consumi e gli acquisti inutili. Ma le sue parole mi fecero fare l’opposto, e iniziai a scegliere compulsivamente articoli di cui avevamo già uno o due esemplari, solo per il piacere di vederla correre per tutta la mattina, ossequiosa e umiliata.

Mio marito era compiaciuto. L’idea dei consumi a risparmio era stata la mia, lui lo riteneva un capriccio: le cose si usavano e gettavano, come aveva fatto in passato con chiunque avesse conosciuto. Io invece credevo nell’ecologia emotiva e pratica. Tutto sarebbe servito al momento giusto, anche quello che osservavo negli altri, era il motivo per cui avevo imparato a destreggiarmi, esibendo competenze e conoscenze poco per volta: per stupire costantemente chi mi circondasse. L’ascolto altrui per me era archiviazione, riordino utensile di posate negli scomparti. Quegli oggetti li avrei rivenduti di nascosto, non mi interessava la parte estetica della maternità.

Forse ero io il problema. Cercai sul web un’autodiagnosi e questa mi piacque dal nome. Alessitimia. Ricordava il mare, Thalassa, la consonanza scivolata e l’acqua che copre l’abitudine sotto il sibilo.

L’analfabetismo emotivo o alessitimia (anche alexitimia, «mancanza», lexis «parola» e thymos «emozione» dunque: «mancanza di parole per [esprimere] emozioni») è un costrutto psicologico che descrive una condizione di ridotta consapevolezza emotiva, che comporta l’incapacità sia di riconoscere sia di descrivere verbalmente i propri stati emotivi e quelli altrui.

Ma io sapevo descriverli e riconoscerli, quando esistevano. Il non provarli o provarli a metà, poteva essere considerata una forma di alessitimia? E chi avrebbe scelto quali fossero i giusti sentimenti da condividere? Provare diffidenza verso uno sconosciuto era considerata una forma di assennatezza, in altre occasioni, la prima regola sociale. Come poteva diventare col tempo sbagliato, a seconda delle situazioni? Quando l’estraneo era una mia emanazione, come in questo caso, avrei dovuto essere accogliente perché era certo che non mi avrebbe mai fatto del male? Per risolvere la contraddizione ne dovevo concludere che io fossi bene puro, in grado di generare solo innocenza… no, non ero convinta di questo, come non ero sicura della sua bontà.

Iniziai a osservare Isavros per capire se ci fossero segni di malvagità a galla, come i tuorli dell’uovo nell’acqua. Segni che un giorno avrebbe potuto ferirmi, un modo di disporre le manine intorno al mio indice, di spostare le gambe o guardarmi. Ma sarebbe bastato il modo in cui mi mordeva i capezzoli. Come se volesse staccarli per appropriarsene e io non lo nutrissi abbastanza, le sentiva le mie grida e continuava. Ormai utilizzavo solo le tettarelle di gomma: il mio seno era offeso da lividi blu e altri verdi più vecchi, una cronologia del suo egoismo.

Nonostante apparissi io quella sbagliata, anche di fronte a mio marito e a mia suocera che mi rimproveravano di odiare il bambino, ero sempre più certa che fosse lui, a odiarmi. Mi detestava per averlo messo al mondo e percepiva le mie motivazioni carenti, lui che mi somigliava. Iniziò a tirarmi i capelli, a graffiarmi se lo lavavo, scoppiava a piangere di fronte a mio marito dal niente, solo per trovare un pretesto per farmi mettere sotto accusa. Mi manipolava e manipolava tutti, anzi, mi odiava perché avrebbe voluto ma non poteva, manipolarmi. Tra manipolatori ci intendevamo. Così rincarava la dose, mi dipingeva con i pennarelli i vestiti, buttava le scarpe dalla finestra. Invece, con il padre era perfetto. La sera lo mettevo a letto, gli leggevo le sue favole preferite di Andersen e mi obbligava a leggerne cento, mille, solo per sentirmi esausta e impedirmi di riposare e appoggiarmi ai suoi cuscini per un attimo, perché ‘suoi’. Quando era il padre a leggere li trovavo insieme, abbracciati sotto il piumone uno accanto all’altro a ridere, a scherzare, e quel sorriso precluso me lo rendeva ancora più estraneo. Si ricomponevano appena mi sentivano arrivare. Trascorsero alcuni anni e una notte, lo trovai ai piedi del letto. Mi svegliò la lama fredda sulle caviglie, aprii gli occhi, un coltello da frutta in mano, stava tagliando con mani incerte la mia pelle ferendomi appena, perché il servizio era vecchio e la zigrinatura usata.

“Cosa fai qui?” Avevo chiesto, scaraventandolo senza volere a terra.

“Volevo tagliarti i piedi, come per la ballerina della favola”, aveva risposto.

“Così non potrai seguirmi dove vado di giorno, e la notte non saprai mai se sono a letto o se resto sveglio. Non saprai niente.”

La sua risposta mi gelò. Lo rimisi a letto e gli spiegai che i coltelli non vanno maneggiati, che ci si può fare del male. Non avrei raccontato nulla a mio marito e lui questo lo sapeva: aveva solo cinque anni ed era già pronto a disfare le persone, a corromperle.

Una mattina lo sorpresi a stracciare la mia patente. Gliela tolsi dalle mani, e iniziò a urlare come faceva sempre quando il padre era nei paraggi. “Non c’è nessuno piccola cimice, nessuno tranne io e te”, pensai. Mentre mi allontanavo verso la cucina per risistemare il documento nella borsa, sentii tirarmi da dietro. Per non cadere mi aggrappai allo stipite e lui ricadde all’indietro, inciampando nel tappeto e ferendosi sullo spigolo del tavolino. Si era sbucciato il ginocchio di una ferita superficiale, iniziò a urlarmi contro. Lo avevo voluto uccidere, ripeteva. Gli dissi di smetterla, di farsi disinfettare, lui urlava, gridava che lo odiavo, le manine sulle ginocchia sporche di sangue. Urlava che non dovevo toccarlo, perché non lo avevo mai voluto, piangeva e io non sapevo cosa farne, di quelle lacrime. Ero sconvolta. Volli abbracciarlo, per la prima volta nella mia vita provai il desiderio di abbracciare un altro essere umano, era stato dentro di me, era vero, ma di un contatto artificiale. Adesso ero io a volerlo toccare, lui a rifiutarmi, non riuscivo a capire chi feriva chi, chi era stato il primo a colpire e quando. Irrilevante la risposta, perché lui era me.

Non c’era altra spiegazione, era il mio specchio, mi era stato messo davanti perché mi guardassi per intero e non a frammenti sfuggiti al caos, da tutte le persone che non avevo mai amato, capito, ascoltato. Quintessenza della mia indifferenza lui non era esperienza. Era l’Esperienza, il negarsi di ogni istanza. Allungai la mano per toccarlo e calmarlo, mentre anche io piangevo di un pianto senza scopo.

Si fece abbracciare, per la prima volta senza graffiarmi o ferirmi, e non mi sembrava possibile il contatto illimitato tra noi, per me era nato in quel momento, prima di allora era stato un nutrire il nulla con altro vuoto: eravamo soli nella nostra inadeguatezza al mondo, adesso.

“Tu lo sai vero, che non ti odio?” Mi fece cenno di sì con la testa bruna, ammansito.

“Lo vedi che è facile?” gli dissi, “vedi che è molto semplice rendere tutto più facile?”

Lui capì e mi sfiorò il collo con delicatezza, anche questo per la prima volta. In quel momento entrò mio marito. Mentre io lavoravo da casa come grafica, lui, avvocato, trascorreva la maggior parte del tempo in ufficio. Era tornato e aveva lasciato la borsa all’ingresso, come faceva quando si sentiva troppo stanco per portarla in salotto, un gesto che detestavo e trovavo teatrale come tutto, in lui. Sembrava voler sottolineare le sue mansioni, il doversi spostare nei luoghi mentre io al contrario, potevo risparmiarmi il traffico di Patrasso: avrei pagato qualsiasi cosa, per non dover mai tornare a casa e restare nella gola della metropoli, nascosta dal fumo della sua faringe e nelle corde vocali di asfalto. All’entrata si tolse le scarpe, un’abitudine puritana che praticava da sua madre. Nonostante il pavimento non fosse mai sufficientemente pulito per camminare scalzi, insisteva con l’attitudine monastica con cui utilizzava la casa a suo modo, spazzolini coperti con astucci in plastica, asciugamani ricamati, porta oggetti, box per ottimizzare gli spazi in ogni angolo, tappetini del bagno allineati alle piastrelle, che io spostavo con un calcio.

“Ci siete?” chiese, sorpreso del silenzio insolito. Mi stavo alzando per andargli incontro svogliatamente, quando mio figlio iniziò a urlare chiamando il padre.

“Papà, papà, la mamma mi ha fatto questo!” ripeteva, indicandosi il ginocchio sbucciato.

Mio marito non sapeva a chi prestare attenzione, se dedicare uno sguardo preoccupato al figlio, o uno di odio a me, scelse la seconda, e io ricambiai con disprezzo.

“La mamma mi vuole fare del male”, gridava Isavros tra i singhiozzi.

“Calmo, piccolo mio…”, disse lui prendendolo per un braccio e mettendoselo sulle ginocchia, mentre lo zittiva con un sussurro.

“È stato un incidente” dissi atona. “Mi strattonava, stavo per cadere…”

Il suo sguardo comunicava incomprensione, non tentai di replicare. Ero senza natura, senza istinti benevoli, incondizionatamente, e quello che stava pensando, era che da me non sarebbe mai dovuto provenire nulla, in una qualche forma di giustizia biologica. Mio figlio invece, non aveva il coraggio di guardarmi. Reclinava la testa sulla spalla del padre, chiudendo gli occhi a se stesso soddisfatto, sentiva come gli animali un’energia distruttiva riversarsi da lui a noi.

Mi diressi verso la porta, presi il trench e uscii senza portarmi le chiavi. Fuori, la consistenza della giornata era tiepida e innocua. Attraversai la piazza con le sue edicole davanti al porto, comprai un giornale tedesco senza saperlo leggere, poi presi la strada per il luna park. A fine giornata, stava chiudendo, esposto come si trovava alla salsedine del mare vicino, ai rumori dei container portuali. Il brucomelo in plastica era stato lucidato, e si trovava in cima alla discesa di ferraglia e binari stretti, tra i castelli a scatole chiuse fermati dal lucchetto. Tutto aveva colori abbinati in modo improprio, ossidati e falsati dalle stagioni senza affetto, come gli spicchi di ombrelloni a Larisos lì vicino, blu e rosso, giallo e celeste. L’uomo del tiro a segno stava finendo un sacchetto di pop corn, seduto su uno sgabello troppo piccolo per la stazza molle. Quando mi vide allungò il fucile. Lo presi, e dopo avergli lasciato nelle mani cinque euro in monete mi posizionai davanti alla saracinesca abbassata a metà, a scoprire una fila di lattine sovrastate da pupazzi.  Sentivo le grida del venditore ambulante di ciambelle… “Ella oi dunuts, superspecial!”… lo immaginavo senza voltarmi. Le ciambelle umide di zucchero sciolto dal caldo, la granella azzurra, il passo pesante. “Ella oi dunuts, fantastic special…” gridava sempre più vicino, l’inglese spigoloso nelle consonanti greche, i suoi passi ancora più ravvicinati, il rumore della carriola di legno a scorticare l’afa e il fischio dei silos. Di venditori di ciambelle come questi erano piene le strade, le spiagge. Non avevo mai visto nessuno fermarsi a comprarne una. Si potevano trovare ciambelle alle pasticcerie, nei minimarket che includevano il reparto bakery o dai baracchini dello stesso luna park, che arrostivano pannocchie e sesamo dolce da regalare ai bambini tzigani a fine giornata. La scatola di legno che conteneva le ciambelle impilate, erosa all’esterno nei punti dove il legno era marcito, il suo ruolo rassicurante, al passaggio, lasciava una scia disgustosa di zucchero fritto e melassa. Inutile e indispensabile all’interno di una società proficua, anche lui… Un corpo sociale appagato, le braccia e le gambe tornite, sentivo ancora i passi allentati dalla flebite, la voce cava. Poi mi decisi. Scelsi un peluche di coniglio; piccolo, le zampe pelose e tonde, le orecchie rosa e il muso in tinta, stava nel centro della scena, il pancino esposto. Mirai alla lattina: cambiai il tiro e sparai.

 

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