Felix

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di Stefano Felici

Alle medie, ahimè, ero un ragazzino normale. Su dieci compagni di classe, a cinque ero simpatico; agli altri cinque, antipatico. Stessa cosa con le compagne: su dieci, cinque potevano vedermi carino e gentile; per le altre, e senza alcuna sfumatura di mezzo, ero brutto e stupido.

Nessun picco particolare in quegli anni. Né relazionale, né sportivo, né tantomeno avventuroso. Vivevo di cose piccolissime. Come tutti i ragazzini delle medie a cavallo tra Novanta e Duemila, mi faceva piacere l’idea di un diario tappezzato di scritte, fatte perlopiù da mie compagne di classe: e non è che loro lo facessero per chissà quale interesse verso di me: amavano solamente disegnare, occupare i tempi morti delle lezioni, gli ultimi minuti di ricreazione – quelli in cui due ore filate di matematica incombono e si assaporano con più soddisfazione gli istanti di libertà rimasti.

Avevo questo diario di Lupo Alberto, quindi, tappezzato da una sola scritta, o parolina, o soprannome, ma in tante forme e colori diversi: Felix. Dacché di cognome faccio Felici, non c’è molto da spiegare.

Felix non era davvero il mio soprannome. Era un soprannome potenziale, esisteva come oggetto platonico, era insomma quello auspicabile: la realtà mordeva però sui miei difetti fisici e comportamentali, sulle mie paure. Così a volte ero er castoro per i dentoni sporgenti; er barbone quando mi vestivo d’abiti puzzolenti senza pensarci, e mi presentavo coi capelli spettinati e quel filo di gel che li faceva sembrare più grassi che non brillanti; mai soprannomi più affettuosi di questi. Mio padre conosceva questi nomignoli. Li sentiva quando mi incrociava per strada, nel quartiere, i pomeriggi in cui mentivo sui compiti fatti e me ne andavo a zonzo, sporco e sudato, col pallone sotto braccio. Di questi nomignoli lui ne soffriva.

Sicché Vincenzo, mio padre, microborghese e vero babyboomer, classe ’50, in casa, mentre di sera si discuteva della giornata davanti al televisore della cucina, allestiva quest’opera di rimozione completa della percezione che il mondo esterno aveva di me, e della quale lui era mortificato, avvilito: mi chiamava Felix.

Io gli urlavo contro: nessuno mi chiama davvero Felix, è barare chiamarsi Felix in famiglia; Felix mi ci chiami tu che non ti accorgi di quanto io sia sfigato appena metto un piede fuori di casa, smettila di rovistarmi la cartella e spiarmi il diario. Eravamo nel pieno di una mia crisi pre-adolescenziale. Vincenzo che doveva fare? Abbozzava, e da buon, vero babyboomer, mi comprava tutti i videogiochi che chiedevo: per farmi stare calmo.

Felix è un suono fresco, corto, energico, ha un’eco latina eppure sembra avere slancio futuristico. Vincenzo aveva creato un mio alterego cui questo suono s’attagliasse davvero. Era una sua proiezione carpiata: lui si proiettava su di me, io, mio malgrado, su questo ragazzino sveglio e intelligente, atletico e ammirato da tutti. Un personaggio da fumetto – un Astro Boy, ma senza conflitto interiore. Se a matematica prendevo un buono, ero un ingegnere; se facevo un gol nelle partitelle del giardino di scuola, avevo un destino da calciatore. Ovviamente, i gol nelle partitelle superavano di molto i bei voti in matematica, pigro com’ero e come sono tutt’ora mentalmente.

*

Vincenzo non è mai stato un appassionato di calcio. Però ha sempre e sinceramente tifato Roma, e così continua a fare. Io sono diventato romanista a sette anni, un sabato d’aprile. Già esistevano gli anticipi.

Eravamo a passeggio vicino casa, tra gli isolati interni di viale Marconi. Io tenevo una mano in tasca e l’altra intrecciata a quella di mia madre. Vincenzo invece camminava leggermente più distante. Spalle e mento protesi in avanti: cercava qualcuno che gli dicesse il parziale di Inter-Roma. Era la stagione 1993/1994. Io non avevo mai visto una partita di calcio. La Roma, stando a quanto aveva detto il televisore prima di uscir di casa, stava perdendo. C’era il sole; eppure nel leggere sul profilo di mio padre quella certa angoscia, sembrava che il cielo fosse pesante come il piombo. Sapevo, dai discorsi che lui faceva con i genitori dei miei compagni di classe, che Roma e Inter fossero rivali, e si erano giocate qualcosa di importante in un passato tutt’altro che remoto. Vincenzo continuava la ricerca come un detective per lunghe strade senza indizi, e ogni tanto si girava, per controllare se io e mia madre ci fossimo ancora.

Trovammo vicino la parrocchia di Sant’Aquila e Priscilla un ragazzo con una radiolina rossa incollata all’orecchio. Mi staccai da mia madre di corsa, senza considerarla. Vincenzo fece la domanda al ragazzo, e lui ci rispose, senza guardarci: avemo pareggiato. Vincenzo tornò dritto con la schiena e sorridente: s’era tolto un grosso peso, come quando dal dottore ci si sente dire: sì, ma è una sciocchezza. E io, come lui: mi slanciai di riflesso.

Ormai ero un tifoso. Diventai romanista, quindi un piccolo esperto. Cominciai la raccolta di figurine, mi leggevo la pagina sportiva del Messaggero, mi emozionavo quando riconoscevo al televisore i volti dei giocatori della Roma. Prima di Totti ho amato Balbo. A Vincenzo piaceva Giannini, perché secondo lui aveva il carattere del capitano e l’aspetto del Capitano, e poi era di Roma e romanista, come Di Bartolomei, il suo vero idolo. Da noi si usa così.

Un giorno tra elementari e medie, Vincenzo mi chiese: quanti gol hai fatto a scuola fino a mo? Prese a parlare di provini alla Roma, di quanto fossi alto (non molto) e magro, agile, scattante (questo sì, ma non più di tanti altri miei coetanei).

Ma Calcio vero non mi ci ha mai portato. Lavorava e a mamma, dello sport, non è mai fregato nulla. Come avrei potuto giocare nella Roma restando nel giardinetto della scuola?

Con Vincenzo sono sempre stato arrabbiato. Mi dava queste iniezioni dopanti d’autostima e poi ero lasciato a me stesso, senza un contesto dove poter sfogare quell’eccesso d’energia. Volevo davvero essere il Felix della Roma, ma tu a lavorare ti ci fiondavi senza voltarti indietro, e mamma si sentiva sempre sola. Figurati io. Finivo a giocare per strada, a volte anche senza amici.

Tifare Roma è stare male tutto il tempo e aspettare che qualcosa prima o poi vada per il verso giusto. Questo ho capito nella domenica del 1994 che ho raccontato, e quasi trent’anni dopo mi rendo conto che era effettivamente tutto quel che c’era da capire. Una sera, dopo aver tanto sofferto per le amare sconfitte delle domeniche precedenti, poi per uno 0-0 che non si schiodava, è arrivato quel qualcosa per il verso giusto: è arrivato un ragazzo che si chiama Felix, ha la maglia giallorossa, mette piede in campo e sul finale fa due gol al Genoa in trasferta, uno più bello dell’altro; vinciamo due a zero. Vincenzo prende lo smartphonino semplificato e comincia a scrivere qualcosa mentre io ho la sua stessa idea, cioè aprire WhatsApp per commentare quello che è appena successo. Io guardo la partita su DAZN a casa mia e lui la segue su TeleRoma56: ma i soldi per pagare DAZN sono i suoi. Anche la casa, a esser onesti, è roba sua.

Esplodiamo entrambi in capslock e emoji di palloni e cuori giallorossi. Gli anni del conflitto sono finiti. Oggi ho la stessa età che aveva lui nel momento in cui sono stato concepito. Una proiezione carpiata e all’indietro mi fa sentire come se Vincenzo fosse mio figlio. Vecchio com’è. Provo tenerezza nel vederlo esultare in una piccola chat sul mio telefono. Mi chiedo quanta cura abbia messo per cercare le emoji corrette. Ha per forza inforcato gli occhiali, è rimasto mezzo minuto con l’indice a salsicciotto sospeso a mezz’aria. Avrà abbassato il volume del televisore per concentrarsi meglio.

Di questo ragazzo ghanese io e Vincenzo ne avevamo già parlato, dacché il suo esordio in prima squadra era già avvenuto. Ma da romanisti navigati sapevamo che poteva trattarsi di una meteora. Così ne abbiamo solo accennato, un giorno a pranzo. Fino all’exploit di domenica scorsa.

Navigati, ma pur sempre romanisti. Di fronte a una doppietta che ti dà la vittoria c’è poco da tenere la guardia alzata. Io su Twitter ho scritto che Felix mi ricorda Eto’o.

*

Non abbiamo molto in comune io e il Felix della Roma. Ho il doppio della sua età e io faccio ancora il mantenuto. Felix poi è nero, io bianchissimo. Strano che questa cosa, fra me e Vincenzo, non sia ancora venuta fuori. Più che altro perché bonariamente, gli africani, lui li ha sempre chiamati negretti: va’ a gioca’ a pallone cor negretto, non lo vedi che sta da solo? Che fine avrà fatto il tuo animo da gentil colonialista? Negretto ce lo chiamerò io. Scherzando, ovviamente. Anzi, lo farò di proposito, per provocarti, per farti incespicare e incartare sulla questione del razzismo, con la quale ti ho letteralmente crocifisso a sedici anni, dandoti del fascista perché a casa dicevi sempre, come sopra: negretto.

Allo Stefano di elementari e medie avrebbe fatto un bellissimo effetto avere un alter ego calciatore della Roma. Durante le partitelle avrei corso con più impegno, sarei andato a combattere meno pigramente per quei palloni che rimbalzano flosci e di nessuno a centrocampo; avrei avuto un nome da difendere, avrei dovuto dimostrare di esserne all’altezza. A quel punto, visto che il mondo del calcio avrebbe invaso la realtà con tanta forza di significante, Felix avrebbero dovuto chiamarmici tutti, anche gli insegnanti. Mi piacerebbe poter dire al ragazzino che ero: mettici un po’ più di grinta, Felix tra qualche anno esisterà davvero. Verrà dal Ghana e sarà forte almeno quanto i giocatori della Nigeria del ’96, la squadra di neri più forte che hai mai visto. Sarà molto più forte, anzi. Segnerà una doppietta a diciotto anni. E tu e tuo padre andrete pure d’accordo.

Abbiamo davvero poco in comune io e Felix. Lui è giovane e ha la potenza di un felino, in campo è sicuro e sa calciare benissimo. Io non saprei che dire di me che non risulti almeno un po’ patetico; tipo: io scrivo, leggo, guardo qualche film.

Però chi ce la toglie adesso, a me e mio padre, questa proiezione magica che durerà quel che durerà? Felix uno e trino: Padre, Figlio e Calciatore nato nel 2003. È probabile che Felix possa giocare alla Roma un altro anno, e poi chi lo sa. È un allineamento d’astri: passeggero per natura.

Non so quanto sia saggio porre le basi per un nuovo edificio relazionale tra me e mio padre proprio sulla Roma; eppure è uno dei pochissimi terreni comuni che abbiamo.

Facciamo così: adesso che c’è Felix, mi impegno. Mi impegno in tutto. Altrimenti non potremmo più parlare di alcun Felix, perché il confronto col giocatore sarebbe sempre presente e impietoso.  Mio padre ogni giorno mi chiede come va la vita, e non so come faccia ad accontentarsi sempre e solo di un mio “bene”, detto mentre annuisco. Mi parla di Felix e mi descrive il gol del due a zero al Genoa con sempre più particolari. I racconti dei gol fatti dai bambini e dagli anziani sono qualcosa di epico. I palloni arrivano sempre da lontanissimo, le corse sono sempre velocissime, i tiri potentissimi, i portieri avversari si allungano come pipistrelli. Vorresti che fossi io a raccontare un mio gol o qualcosa di altrettanto importante.

Qua il tempo continua ad andare avanti e io non sono ancora grande. Prima di addormentarmi penso sempre ai miei genitori che dormono. L’altra notte ho sognato che Vincenzo era morto, e io di ritorno dal funerale, al quale partecipavo da solo, mi mettevo a sentire le compilation di hip hop lo-fi con le melodie dei vari Zelda.

Mi sono sognato sonnecchioso, col pensiero di mio padre che s’allontanava piano piano. Ho sognato probabilmente di essere sotto effetto di qualche psicofarmaco pesante, perché poi nel sogno s’apriva un altro sogno, dove lo spirito di Vincenzo finiva a passeggiare in una bella città beige di quell’architettura risorgimentale che piace a lui. La radiocronaca della Roma era in filodiffusione, e stavamo sempre in vantaggio, da quando cominciava la partita a quando finiva.

 

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