Gabibbo. Un racconto di Luca Tosi
di Luca Tosi
È esistito un uomo che in molti a Bologna chiamavano Gabibbo. Gabibbo aveva un figlio e molto spesso andavano a cena in un’osteria in via Fondazza, e fra di loro non parlavano. Se alla televisione dell’osteria c’era la partita, guardavano la partita ben volentieri, altrimenti si sorbivano i video musicali di un canale di sola musica. Il figlio in quei momenti giocava col pane a far la scarpetta, mentre Gabibbo aveva l’aria di uno che giocare non gli piaceva, serio e imbronciato beveva un po’ di vino e spesso ordinava la gramigna con la salsiccia e ci metteva sopra un chilo di parmigiano. I due proprietari dell’osteria lo chiamavano appunto Gabibbo ed erano di casa, lì, Gabibbo e suo figlio. Però a Gabibbo quel soprannome non era mai andato a genio, pensava così, che se nasci e cresci nella stessa città il soprannome che ti danno non te lo puoi toglier di dosso, allora te lo devi tenere.
Era un giovedì sera di fine gennaio, fuori faceva molto freddo, invece nell’osteria in via Fondazza c’era un calduccio rassicurante e Gabibbo, che aveva da poco finito il piatto e si teneva il fazzoletto davanti alla bocca perché gli piaceva il contatto della stoffa sulle labbra, ascoltava delle donne che parlavano da un tavolo vicino. Una parola in particolare, aveva attirato la sua attenzione: vagina. Gabibbo, però, non si era voltato a guardarle, perché dai toni aveva già distinto che tipo di donne eran quelle: sui cinquanta, vestite con molta lana e sicuramente dipendenti statali, della scuola o del Comune. Gabibbo, invece, aveva la partita Iva e lavorava come fonico per i teatri o altri posti del genere dove si svolgevano concerti.
Insomma, dopo aver udito “vagina” Gabibbo s’era messo sull’attenti, non tanto per l’educazione del figlio messa a repentaglio dalla scurrilità del linguaggio altrui, ma per capir meglio il contesto del discorso delle signore. Purtroppo, però, la televisione quella sera trasmetteva una scialba partita di Coppa Italia e la telecronaca Rai copriva quasi del tutto le voci, e Gabibbo non riusciva a sentir bene.
Poco dopo era entrato nell’osteria un ragazzo con una berretta verde che si era seduto proprio sotto la televisione e aveva cenato da solo con delle tagliatelle al ragù. Gabibbo l’aveva fissato per un po’, ipotizzando che fosse uno studente fuorisede, che magari abitava sopra l’osteria o poco lontano, poi si era chiesto come mai fosse da solo, dato che era giovane; fra le idee di Gabibbo c’era quella che i giovani d’oggi non sono usi a cenare da soli. Un altro pensiero era stato: ma ce li avrà, i soldi per quel piatto di tagliatelle? Al che gli era venuta in mente subito un’altra roba, molto, ma molto più interessante.
Si era infatti ricordato che, mesi prima, era stato lì all’osteria con una ragazza che a lui piaceva da diventar scemo. Si era anche ricordato certi istanti precisi, di quella serata: quando lei s’era spostata, da seduta di fronte a seduta di fianco a lui, e i gran baci che lui le aveva rifilato; che lei aveva poi ordinato una bruschetta con aglio, olio e pomodorini; e che poco dopo sarebbe dovuta uscire con una sua amica di lavoro, però lui l’aveva trattenuta a sbaciucchiamenti fino all’ultimo secondo.
Sotto l’influsso di questi ricordi e immagini, Gabibbo, quel giovedì sera di fine gennaio aveva masticato in fretta e furia la gramigna e nel mentre aveva ricapitolato, nella sua piccola testa, tutta la vicenda intercorsa con lei: la ragazza, di nome Rebecca, stava con un altro da anni e anni, eppure si era lasciata amare disperatamente da Gabibbo per quattro mesi, passando le ore di due pomeriggi a settimana a casa di lui, stesa su un divano col copridivano rosso tutto macchiato dei rispettivi liquidi sessuali.
Ricordar la fine di quella relazione aveva riformato nella gola di Gabibbo lo stesso amaro groppo di mesi prima, però condito, adesso, dalla telecronaca Rai in sottofondo e dall’immagine pura e illibata del figlio, seduto davanti a lui che mordicchiava un grissino come un coniglio la carota. Per sviare dal saporaccio amaro della finitudine di ogni cosa, Gabibbo era tornato attenzionatissimo sui discorsi delle donne, però confuso, più confuso di quanto era già normalmente di suo, in quanto il ricordo fresco di Rebecca e in generale degli eventi legati a lei non ancora digeriti e assimilati, gli rimescolava non solo dubbi e rimpianti, ma anche la gramigna nello stomaco. “Vagina” non si era più sentito, o almeno Gabibbo non aveva più intercettato quella parola, bensì altre: “festicciola”, “ciambella”, “mio marito”, robetta del tutto trascurabile. Così la sua mente aveva vagato per un po’ a vuoto, forse in cerca di tregua; osservava ancora il figlio giochicchiare con forchetta e coltello sul piatto sporco, ascoltava distratto i telecronisti chiuder la diretta senza carpire il risultato finale, insomma, stava lì senza arte né parte, come succede a tutti per la maggioranza del loro tempo in vita.
Finché, non si sa per quale ardita dinamica neuronale, i suoi pensieri avevan virato di netto, unendo finalmente la parola “vagina” all’ossessione, ancora viva in lui, per l’organo genitale di Rebecca. La vagina di Rebecca, infatti, lui l’aveva adorata, venerata più di tutte le vagine incontrate nel suo deludente percorso quarantennale e oltre di maschio. Doverosa premessa: s’era sposato presto, Gabibbo, con la prima fidanzata delle superiori e con lei aveva messo al mondo Luigi, il malcapitato figlio. Dopo il divorzio aveva tentato di tutto, Facebook, Chatta.it, poi zitelle consigliate e disprezzate da chiunque e anche uscite in solitaria in discoteca dove, ahilui, era risultato il più vecchio, il più perdente di capelli e di riflessi. Non aveva funzionato niente, fino al miracolo di cui sopra: Rebecca l’aveva conosciuta allo sportello del Comune in via Santo Stefano 31, il giorno che era andato a ritirare la tessera per i cassonetti dell’indifferenziata. Era in coda, in attesa a braccia conserte, seria. Dopo sei o sette scambi di sguardi languidi s’erano inchiacchierati ed eran finiti a letto il pomeriggio stesso, entrambi felici di aver trovato carne fresca nell’altro.
Non che le prestazioni di lui entusiasmassero lei, o che gli urletti da capretta di lei lo arrapassero più di tanto, eppure nel giro di poco si era infatuato forte, non di Rebecca in sé per la verità, ma appunto della vagina: di piccola taglia, stretta come un’ostrica, perfettamente calzante, glabra e senza nessun tipo di odore o candida. La intendeva come un oggetto d’arte ancora inedito al grande pubblico. Passava più tempo a leccarla che a penetrarla, però senza tratti di sacrificio o di sottomissione, tutt’altro, era piacere allo stato brado. E lei, intesa sia come vagina che come donna, veniva almeno tre volte filate grazie ai suoi cunnilingus, al che gli afferrava i capelli e lo tirava su, poi gli montava sopra e trombavano, questo era l’iter dei loro pomeriggi, e qualche rara volta anche la sera. Molto dipendeva dagli orari di lavoro di lei, avvocata in uno studio notarile sempre in via Santo Stefano.
Dopo quattro mesi, però, mesi segnati dalle innumerevoli piazzate di Gabibbo per conquistarla, farla sua attraverso profusioni di ultimatum e ricattucoli, Rebecca aveva scelto di provare, per l’ennesima volta, a riesumare il rapporto col suo fidanzato cornuto tagliando così con Gabibbo, che dunque era rimasto a secco di vagina, ben consapevole che trovarne un’altra anche solo comune sarebbe stata un’impresa lunga almeno una decade.
Dettaglio non da poco: Rebecca, suo figlio Luigi non l’aveva mai conosciuto né Gabibbo gliene aveva parlato troppo. Era più lei che discorreva di figli, in particolare del fatto che non si sentiva non solo pronta ma che neanche capiva per quale ardito motivo avrebbe dovuto prestarsi, un giorno, a diventar mamma. Lui s’era convinto che tale scarsa attitudine derivasse appunto dal cornuto, che evidentemente l’amava poco o niente. Gabibbo, al contrario, sì che sarebbe stato abile nel farla sentir amata, e anche per questo non le raccontava troppo di Luigi, in quanto già concreto, come dire, già procreato e creato, per non rovinarle la prospettiva genitoriale e l’eccitazione di un’esperienza nuova, totalizzante che lui aveva sciupato con l’ex moglie, donna su cui eviteremo considerazioni e giudizi, non è corretto parlar male degli assenti.
Insomma, Gabibbo era lì che osservava Luigi annoiarsi a morte con in sottofondo, adesso, il canale di video musicali che passava un pezzo torbido della Pausini; al che aveva detto al figlio: «Dopo, a casa, spadellata di popcorn? Ti va?».
Luigi aveva alzato lo sguardo con una luce rinnovata nelle pupille, per poi annuir nel modo netto, tipico dei bambini, tale da fargli sobbalzare la frangetta di capelli sulla fronte, quando di colpo era entrata nell’osteria una ragazza accompagnata da un tipo mediamente alto e mediamente tozzo, ovverosia il suo cornuto.
Gabibbo, nell’immediato, aveva strabuzzato gli occhi e assunto le sembianze del suo soprannome: era arrossito come dentro un forno ventilato a duecentoventi gradi e s’era gonfiato tutto, rotondeggiandosi dalla faccia al fisico. Sembrava che l’aria la potesse solo inspirare, non espellere, contribuendo così al gonfiaggio delle sue guance già paonazze. Il figlio non s’era accorto di niente, seguitava a giocare con forchetta e coltello ignaro di quanto una vagina possa sfigurare un adulto, anche nei connotati e nei lineamenti. Lo scoprirà, forse, da grande.
Rebecca era entrata, mano nella mano col cervo, e si erano andati a sedere al primo tavolo libero. Il cervello di Gabibbo era già una padella di semi di mais scoppiettanti, non capiva più niente e non sapeva dove guardare: se il figlio, che però era la risultante nitida del suo matrimonio fallimentare, se Rebecca, ma meglio di no, o se il cornuto. Ecco, forse il cornuto era l’approdo meno peggio per i suoi occhi impanicati. Pensava: ma se ce la fa quello lì, a tirar avanti, allora posso farcela benissimo anch’io; tradotto: si compativa.
Uno dei due proprietari dell’osteria era passato a portar via i piatti e la ciotolina del parmigiano, vuota, allora Luigi, rimasto orfano di attenzioni e passatempi, si era alzato e aveva preso a girar fra i tavoli. Gabibbo aveva evitato di richiamarlo per non far echeggiare la propria voce nella sala, e quindi coinvolgere l’udito di lei. Si vergognava già di esistere, figuriamoci parlare. Era pietrificato, seduto lì, eppure qualcosa gli suggeriva di agire, come se fosse giunto il momento di scriver una pagina fondamentale della sua piatta biografia. Ma cos’era, di preciso, che gli suggeriva di agire? Ebbene, un sogno. Gabibbo faceva da un po’ un sogno ricorrente: sognava di presentarsi a casa di Rebecca e di spifferare la verità a lui, urlargli in faccia che era il cornuto dei cornuti e che lei lo sfruttava solo per aver un tetto, un gatto e tutte quei cliché da coppia che creano comfort. Il sogno, però, poi finiva in disfatta: il cornuto non reagiva come sperato, anzi, cacciava fuori a pedate Gabibbo. Raramente i sogni sono migliori della realtà, così Gabibbo, che questo lo sapeva, aveva lasciato cadere ogni iniziativa.
Dopo circa dieci o venti minuti d’imbarazzo ai massimi storici si era alzato, aveva richiamato il figlio più coi gesti che con la voce e si eran avviati alla cassa, cappotti in braccio, saltando a malincuore il mascarpone con scaglie di cioccolato. Gabibbo stava per sguainare il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans, occhi fissi sullo scontrino sul bancone già leggermente arricciato, quando s’era sentito toccar a una spalla. Si era voltato, e aveva trovato Rebecca.
Lei ancora non sapeva niente del suo soprannome, infatti gli aveva detto: «Matteo, non mi saluti neanche?».
Gabibbo s’era sentito le sopracciglia schizzar al soffitto come ascensori paralleli, nell’arrossire di nuovo, più di prima, tendendo al violaceo e gonfiandosi tutto a mo’ di canotto.
«Ciao» aveva risposto, balbettando fra una vocale e l’altra.
Luigi, nel frattempo, osservava il padre come si osserva l’ultimo degli imbecilli di un’intera razza umana.
«Stai bene?» gli aveva chiesto lei. «Ti trovo in forma».
«Bene, bene. Tu?».
«Noi benissimo» aveva risposto Rebecca sottolineando il plurale, e s’era accarezzata la pancia.
Gabibbo s’era reso presto conto che quel gesto era tutto fuorché casuale: per l’appunto, la pancia di lei era pronunciatissima, e non per la cena che doveva ancora svolgere; era, in modo evidente e ostentato, incinta. Lì Gabibbo s’era sentito, forse per la prima volta nella vita, non arrossire e gonfiarsi bensì sbiancare e spolparsi, come se gli avessero tolto il tappo da qualche parte. Tutto avrebbe potuto prevedere di lei, meno che avrebbe trovato davvero la grinta per diventar mamma, dando un erede al cornuto più cornuto dell’emisfero occidentale. Una pagina importante della propria biografia la stava quindi scrivendo Rebecca, non Gabibbo. Gabibbo era succube degli eventi, senza arte né parte anche a ’sto giro.
Luigi, intanto, s’era inginocchiato cattolicamente sul pavimento e guardava il padre come un cane bastonato, implorandolo con uno sguardo fisso e vuoto di finirla d’esser così ridicolo, eppure i babbi solo così sanno essere, agli occhi dei figli maschi.
Rebecca aveva poi sorriso da zigomo a zigomo, e si era avvicinata all’orecchio di Gabibbo.
«Comunque, resti il mio pisellone preferito» gli aveva sussurrato.
Nel tempo di quelle poche ma significative parole, Gabibbo aveva osservato il cornuto, là seduto da solo al tavolo, che ovviamente non s’era accorto di loro due; con tutta probabilità pensava che Rebecca fosse in bagno e studiava il piatto vuoto come uno a cui hanno appena praticato una lobotomia. Sulla bocca di Gabibbo era sbocciato un sorrisetto: mai avrebbe scommesso d’esser ricambiato nella devozione genitale, e così le aveva chiesto: «Passi da me, settimana prossima?».
«Perché no. Martedì pomeriggio?».
«Segno in agenda».
Luigi, vedendo il babbo sorridere in maniera stolta e da idiota, era scattato su dal pavimento e s’era aggrappato a mo’ di scimmiotto ai jeans di Gabibbo, per implorare la fine di quella pantomima.
Gabibbo aveva pagato col bancomat, facendosi metter sul conto anche le tagliatelle del ragazzo con la berretta verde, sempre più mogio, solo e triste seduto sotto la televisione, e Rebecca era tornata con assoluta lentezza adultera, strascicando le suole delle scarpe, dal lobotomizzato cornuto.
Rimettendo a posto il bancomat nel portafoglio, Gabibbo aveva sfiorato la tessera per i cassonetti dell’indifferenziata.
La passeggiata verso casa era stata una goduria: Gabibbo e Luigi avevan affrontato senza vergogna reciproca il tema delle morosine del figlio, poi, una volta a casa s’eran pappati i popcorn direttamente dalla padella, parlando adesso di pallone, adesso di altre discipline sportive capaci di unire un padre a un figlio nell’età appena precedente all’adolescenza, dove poi, purtroppo, le cose si sfaldano per fratture incolmabili. Gabibbo soffriva leggermente l’alito d’aglio di Luigi, in tutto questo. A seguire si erano spostati in salotto, entrambi stravaccatissimi sul divano col copridivano rosso pregno di macchie, avevano guardato Striscia la notizia e Gabibbo gli aveva chiesto: «Quale ti prendi, la mora o la bionda?». Poco dopo Luigi s’era addormentato e Gabibbo l’aveva portato a letto, per poi coricarsi anche lui.
Sembrerebbe un lieto fine, invece il lunedì appena precedente al martedì del nuovo incontro fra Gabibbo e Rebecca, Gabibbo aveva avuto un malore al supermercato, nella corsia dei surgelati, ed era schiattato nel giro di un’ora, in pieno pomeriggio, per un colpo al cuore aggravato dal colpevole ritardo dell’ambulanza.
Non si erano perciò più verificate successive serate in osteria che istruissero il piccolo Luigi su che uomo non diventare da grande, un vero peccato.
Rebecca era venuta a scoprire sia il volto butterato dell’ex moglie del Gabibbo, sia il soprannome stesso proprio in sede del funerale, e da quel momento aveva associato la parola “Gabibbo” più all’organo erettile del deceduto che al volto, in quanto anche l’organo, nei momenti clou dell’amplesso, s’ispessiva e diventando di un rosso intenso si gonfiava, tondeggiandosi più di quanto chiunque potesse prevedere da moscio.
Così termina la biografia di Matteo detto Gabibbo o viceversa. Rebecca, nove mesi dopo, era diventata mamma di una bambina che il cornuto aveva voluto chiamare Pia, mentre Luigi, che adesso ha tredici anni, sta elaborando invano il lutto attraverso incostanti tentativi di masturbazione. All’osteria in via Fondazza certi giovedì si ritrovano ancora un gruppo di donne, dipendenti statali, della scuola o del Comune, a parlar dei fatti loro, insomma, delle loro vagine e dei loro amanti, quasi tutti morti.
(Foto di Pawel Czerwinski su Unsplash)