Geschwister
di Fausto Filograna
Io ero là, nella vita. E c’era buio.
Antonio Moresco, Gli Increati
La memoria del mio corpo si è interrotta. Tu non eri con me e per questo non sai nulla, gli ho detto. Tu non sai che cosa è successo, e come ho desiderato di avere un figlio, gli ho detto. Anche se poi abbiamo dormito fianco a fianco, anche se poi abbiamo dormito fianco a fianco. Quando ieri notte ci siamo messi a letto nella tua casa, e ci siamo spogliati, e sono salita nuda sopra di te, non per qualcosa ma per il contatto, ed eravamo entrambi a braccia aperte uniti come due stelle marine nel buio una sull’altra, come due creature dell’oceano luminose nel buio della stanza della tua casa, che si scambiano informazioni e forse amore con la loro luce, io con le mie tette bianche appoggiate al tuo petto piatto, ossuto e bianco, ci ho pensato, ci ho pensato e ho creduto che forse potevi saperlo, come se lì per lì ci fossimo radiografati, come se le nostre luci avessero emesso un bagliore a trecentosessanta gradi e avessimo saputo tutto di entrambi, l’uno dell’altra. Poi ti sei addormentato e forse è meglio che ti racconti che è successo, ora che sei sveglio, ora che tutto si è interrotto. Il continente dei miei trentasei anni si è scontrato con qualcosa. Tutto è cambiato, qui in casa tua. Da oggi è nuova pure la mia voce, è tutto nuovo. Chissà. Ascoltami, stupido.
L’altro ieri ho tenuto una lunga telefonata con una donna che non conosci, voglio dire, più una ragazza che una donna. Sai che chiamare mi dà angoscia, sai che le voci nel telefono non le sopporto e mi esplodono le orecchie, anche a casa tua – ma tu non c’eri. Ero tentata di liquidarla, questa donna, che poi era un’amica lontanissima, era una conoscente di infanzia, fino a che non è scoppiata a piangere al telefono, la sua bocca si è spalancata come una tomba, e io ho pensato che mettersi a piangere con gli sconosciuti è come farsi esaminare le mutande tenendole addosso, ed è per questo che non ho chiuso, le ho detto che piangere non è una cosa bella e lei ha capito, ma io volevo dire chiudi quella tomba. Eppure la sua vita è bella, mi dice, i suoi rapporti con gli amici sono buoni, le sue capacità di spendere i suoi soldi ottimali. È la sua bambina piccola a farla stare così. Forse lei non la voleva, intuisco, ma non lo dico, ovviamente, perché non la sento da una vita, dice che la felicità per la bambina è enorme, ma la felicità per sé è assente, nulla, assente mi pare abbia detto, come se fosse sicura che la felicità potesse decidere dove stare e per quanto, e come se fosse sicura di avercela avuta fino a quel momento e improvvisamente le fosse sparita da dentro casa, fosse caduta in un pozzo.
La felicità per sé mi dice, e mi dice che deve imparare a dividere la felicità per sé da quella per la bambina, ora che in fondo la bambina non è più dentro di lei. Non è più lei. Che prima erano un’unica testa felice e un’unica testa infelice, e ora sono una testa felice e una completamente infelice. E mi chiede scusa ripetute volte, scusa e scusa, come una penitente che avesse ammazzato qualcuno. E mi dice che certamente non ha ammazzato nessuno ma mi chiede scusa perché è tardi, e non si chiamano generalmente le persone a quest’ora di notte, e perché sì, mi ha chiamata per la gioia, per il bene di sentirmi dopo tanto tempo, ma anche perché gli altri le hanno dato buca, quelli che ha visto di persona girando per il suo quartiere, e così esaurito quelli che poteva vedere perché abitavano nei suoi dintorni ha preso il telefono e ha chiamato tutti, e nessuno poteva, e si è fatta notte e ha pensato a me, sicuramente per la gioia e il bene di sentirmi dopo tanto tempo ma anche perché le servivo, questo non si può negare. Scusa, scusa, mi dice, non è possibile andare avanti così per molto, ma poi crescono, ma intanto vengo al dunque e non ti scoccio più perché è tardi, domani, mi dice, ho una visita. Una visita importante, diciamo, un’oretta, forse due, non di più, e la bambina non voglio che cominci a sapere cosa sono gli ospedali, capisci? Voglio che almeno per i primi anni ne resti fuori e poi si vedrà. Ma vengo al dunque, se puoi, se puoi e se vuoi, è chiaro, mi saresti enormemente utile se me la tenessi un’oretta o due, e intanto io vado e torno.
Sono in autobus, sussurra. Questa chiamata è successa l’altro ieri, e ieri al Weißenburgpark, il parchetto vicino alla fermata della metro Bopser, mi sono seduta su una panchina e lì ci siamo viste come pattuito, e appena lei è arrivata e ci siamo salutate e date due baci lei mi ha guardata per alcuni lunghi secondi come si guarda uno specchio la mattina, sì, come lo si fissa mentre si fanno smorfie per capire l’effetto che fa la propria faccia e le proprie espressioni agli altri, e poi mi ha indicato meticolosamente ciascun oggetto nella sacca del passeggino, tirandolo fuori, mettendolo sotto la luce affaticata del lampione che si era appena acceso nel tardo pomeriggio e rimettendolo dentro dopo avermelo fatto tenere in mano solo un momento. Poi ha chiuso la cappottina del passeggino ed è fuggita, dico, e ha ripetuto sono in autobus. E ha detto dobbiamo andare, anche se è andata da sola. E io, come una si rende conto di essere incinta dopo un mese o più, e magari per caso, certo, così io solo dopo un tempo ambiguo e incalcolabile mi sono ricordata che nel passeggino c’era la bambina piccola. Ho sollevato la cappottina e l’ho guardata.
Dormiva. Io so che nei primi mesi la vista si riduce a un raggio di venti centimetri, e che gli occhietti sono due bigline opache e liquide. E so che la mia esistenza per lei era immateriale come il suono, come le onde radio. Voglio dire che avevo paura a svegliarla, e sapendolo mi sedetti di nuovo sulla panchina, accanto a un edificio porticato che c’è in mezzo al parco, mi guardai attorno, avvicinai il passeggino alle ginocchia e mi misi a leggere le carte del lavoro.
Ma non lessi nulla, anche perché era tardi e non si vedeva quasi più niente, il lampione, in compresenza con l’ultimo sole esprimeva una stanchezza insopportabile e le scritte erano piccole,
credo che mi addormentai un attimo e a dirlo quasi mi vergogno, non ci si addormenta coi bimbi. Sognai di essere sull’apertura di un’otre, e sarà stata, l’apertura, che so, grande quanto un quartiere di Stoccarda e alta altrettanto; scendevo dentro per una scala a pioli senza vedere il fondo, e scendendo perdevo la luce del sole sopra la testa. E quando fui non dico giù ma al massimo a metà della lunga scala, vidi due esseri umani giganti e stesi sul fondo dell’otre, due enormi corpi materici, i cui piedi, quando arrivai sul fondo molto tempo dopo, fu chiaro che erano alti come un condominio di due piani, e le unghie come una porta, immobili e distesi uno accanto all’altro. Costeggiai le loro gambe nel semi buio per molto tempo, e quando ricordai che dovevo uscire guardai in alto e vidi il piccolo spiraglio di luce da cui scendeva la luminescenza che illuminava il loro immensi visi giganti e i loro corpi.
Lì mi svegliai. La bambina faceva un rumore continuo, come fosse un intestino che per qualche motivo è esterno e mi costringeva a guardarla e, sì, ora che ero sveglia, non posso dire che non fosse carina, anzi bella, anzi attraente come un buon frutto. Sì, era un buon frutto, la bambina piccola, una mela matura la bambina piccola, e quello non era proprio il momento per leggere. Allora rimisi le carte nella borsa – scomparvero dalla vista e dalla mente – e presi il passeggino, alzai meglio la cappottina del passeggino, per poter vedere la bambina piccola, ovvero la mia mela matura e odorosa, e cominciai a girovagare per il parco, che è piccolo, anzi minuscolo, e ci mettemmo a girare attorno all’edificio. Mi sono accorta, sai, che al centro di quell’edificio porticato non c’è una fontana ma due statue, che ricordano due enormi asce o due coltelli, o due figure spettrali che se non fossero di pietra si accanirebbero l’una sull’altra in un attimo. Lì le persone non vanno mai da sole perché non è un bel posto per passeggiare, ci vanno in compagnia perché è un posto silenzioso e si può parlare bene, verde, e sotto il portico – l’unica cosa significativa del parco – d’estate si può stare all’ombra e di sera al fresco girare, fantasticare.
Due donne sulla cinquantina salutarono la bambina piccola con la mano, mi chiesero come si chiamasse. Io risposi Hanne, e loro, chinate in avanti, la chiamarono così e ripeterono il nome decine di volte. Ma io non sapevo come si chiamasse, perché sua madre non me lo aveva detto. Ma pensai che l’avevo detto con una sicurezza tale che le due donne non avrebbero mai e poi mai dubitato del fatto che potessi essere io sua madre. E così anche il vecchio che passò correndo in pantaloncini e le due donne che, quando ebbi rifatto il minuscolo giro attorno alle statue, ritrovai e ci fermammo un’altra volta a parlare dell’età e del carattere della bambina, delle abitudini della bambina. Al che la presi in braccio per farla smettere di piangere e loro si diressero verso casa. E lei, la mia mela matura, si mise a dormire su di me.
Sai, oggi, quando abbiamo dormito insieme ci ho pensato. Mi sono svegliata dentro al letto, senza accendere la luce, e ci ho pensato, ti ho accarezzato nel tuo sonno nel buio enorme della tua stanza e tu non ti svegliavi, e ho pensato che per te e per la bambina piccola il sonno e l’amore sono la stessa cosa, se mentre dormi non distingui le mie carezze dal sonno e non ti svegli. Non sai la differenza tra i due, o forse è la tua pelle a non saperlo. E anche Hanne dormiva e io la accarezzavo. E qualcosa è cambiato. Questo gli ho detto, mi sa.
Non ho altro da dire, mi sa. Io vorrei solo sperare che la mia amica, sì, la mia conoscente, non fosse andata a fare una di quelle visite importanti, a quell’ora, come ha detto, che insomma non ci sia ricapitata, sì, lo sai quello che voglio dire. Non lo sai? Che non sia rimasta incinta di nuovo insomma, perché certe persone corrono verso le loro sventure, certe persone covano la loro morte e la loro disperazione, aprono la bocca e si apre una tomba, covano uova marce dentro di sé e tutto va loro secondo le leggi della loro testa e le parole della loro bocca, tutto si distrugge, penso che lei sia una di quelle, e che insomma, non voglio dire, ma sia andata a togliersi il fratellino.
Racconto splendido. Mi è piaciuto moltissimo! Sono incuriosita dall’autore, non ho trovato nessuna informazione online.
il nome dell’autore, che sono io, è Fausto Paolo Filograna. non so più come dirlo alla redazione.
Grazie mille per l’informazione, la terrò a mente. E complimenti ancora per il racconto!
Grazie. Bellissimo racconto, notevole.