I concerti sono belli ma costano la mille

di Alberto Grillo

La pizza al taglio di Enzo era la migliore della città, alta il giusto, croccante q.b. Persino le misure delle porzioni parevano studiate apposta per non saziare, tagliate com’erano in piccoli rettangoli con lo scrupoloso compito di preparare gli invitati al resto dei manicaretti. La pizza di Enzo era il segreto più facilmente custodibile del globo, tanto lui di mestiere faceva l’ispettore del lavoro, e con tale abnegazione da meritarsi il Cavalierato dal Presidente partigiano. Quel tegame di ghisa era un privilegio riservato a pochi amici per due selezionate e mai concomitanti occasioni: la partita dell’Italia e la sera di S. Silvestro. Un paio di poligoni cadauno di intransigente Margherita a gustosa ricompensa per un rito che, a cavallo tra infanzia e adolescenza, ero costretto immancabilmente a rivivere e al quale nessuno fra Enzo e mio padre sembrava per nulla al mondo disposto a rinunciare.

Nel bel mezzo di una Traviata o di un Rigoletto che, di sottofondo al cenone, dall’angolo della sala ruotava sul piatto a trentatré giri al minuto, i loro sguardi si incrociavano a scambiarsi un segno di consumata intesa e dare il la al preludio di un breve, ormai collaudato, scambio di battute. Sotto la supervisione di un centrotavola in vischio plastificato, Enzo si alzava dalla sedia, scivolava accanto all’invidiata coppia di Indiana da pavimento e la metteva a tacere sollevando la puntina del Thorens, innescando papà, pronto a virgolettare le parole che leggenda vuole Arturo Toscanini avrebbe pronunciato nell’interrompere una celebre prova generale:

«Secondo fagotto, quel fa era un diesis».

«Che orecchio, il Maestro» chiosava compiaciuto il padrone di casa.

Sazio del resto delle portate, tra cui un brasato al Barolo di valore continentale, mentre tutti sulla terrazza ammiravano al tintinnio dei calici i fuochi d’artificio, nel maneggiare le copertine dei Decca di Enzo mi domandavo con quale presunta autorità quel baffuto ometto pelato si permettesse di comandare una schiera di professionisti con una semplice bacchetta e quattro mossette. Soprattutto, sulla base di quale logica Enzo e papà si entusiasmavano per una banda che coverizzava all’infinito le opere di un compositore defunto da un secolo? Alla morte di Verdi, Toscanini aveva trentaquattro anni e chissà se lo vide mai dirigere uno dei suoi lavori.

Nel corso del Novecento la musica si è evoluta in direzioni e modalità che difficilmente i nati del secolo precedente avrebbero anche solo potuto immaginare. Toscanini vive abbastanza a lungo per assistere al successo planetario di un altro ineguagliabile interprete. Elvis Presley fa incetta di dischi di platino con la sua versione di Hound Dog l’anno prima della morte del grande direttore d’orchestra, scomparso nel gennaio del 1957, dieci giorni dopo l’ultima esibizione del Pelvis all’Ed Sullivan Show, quella auto-censurata dalla CBS con le telecamere mai al di sotto della cintola.

Solo una minima parte degli umani viventi può vantare di aver visto con i propri occhi esibirsi su un palco Elvis Presley, ancora meno Arturo Toscanini, nessuno Giuseppe Verdi. Tra un posto in platea a Nashville nel 1954 o al Regio di Torino mezzo secolo prima, preferisco fare un balzo indietro di altri cinquant’anni, accomodarmi fra i loggionisti di Parma e godermi un originale.

Nella mia città hanno suonato quasi tutti i più grandi, a cominciare da Beatles e Rolling Stones. Quanto saremmo disposti a pagare per avere visto dal vivo i primi, quando si poteva? Quanto siamo disposti a scucire per assistere a un live dei secondi, oggi che possiamo? Mi arrovello atterrito, sopraffatto dall’incapacità di percepire l’abbondanza che ancora ci circonda, di apprezzarla a dovere e affibbiarle il giusto valore. Dalla paura di vivere talmente a lungo da essere costretto, un giorno, a replicare a ipotetici nipoti che “Nonno, ma come, noi ci sveniamo per una cover band degli Stooges diretta da Damiano e tu non hai mai visto Iggy Pop?” con la più sciocca delle menzogne: “Eh, cosa ci volete fare, già allora ero sordo”. Stiano certi i miei avi che nella lista di cosette da chiedergli, quando li ritroverò, se hanno visto Verdi dirigere almeno un Va, Pensiero ce l’ho lì, proprio in cima. Loro, a differenza di me, da lassù mentire non potranno. (A scanso di equivoci, i Tool nella canicola estiva della campagna fiorentina a cento bombe, con tutto il rispetto, si attaccano).

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Alberto Grillo (Genova, 1968) ha pubblicato testi su retabloid, bastonate e sull’antologia Oltre il velo del reale curata da Franco Pezzini. Il suo romanzo d’esordio Quote, segnalato alla XXXIII edizione del Premio Calvino, è uscito nel 2021 per Il Canneto.

 

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