Il gioco dell’acqua
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di Antonio Potenza
Queste sono le ultime cose, scriveva. A una a una scompaiono e non ritornano più. Posso raccontarti di quelle che ho visto, di quelle che non esistono più, ma temo di non averne il tempo. Tutto sta accadendo così velocemente ora, che non riesco a tenervi dietro.
Mi rigirai in mano la busta per qualche istante, poi continuai a leggere: in ordine temporale credo che le prime a sparire siano state le cose più piccole. Naturalmente pensai fosse un caso. Difficile contare quante cose una persona perde nel corso di una vita. La dimensione degli oggetti coinvolti in questa sparizione, circoscritta a quanto pare alla mia casa, però ha raggiunto conseguenze tali da spingermi a scriverti. Prima che sia troppo tardi.
Terminava così il primo foglio. La seconda pagina era un biglietto aereo per tre giorni dopo. Milano-Brindisi. Novanta minuti. La terza un altro biglietto, questa volta per una navetta. Brindisi-Marina. Quarantacinque minuti. Nel quarto foglio Bianca scriveva così:
Le piccole cose
Dimenticanza, penserai. Dissolvenza additiva, dico io. Un processo che si è abbattuto su di me e del quale ho smesso di chiedermi la ragione. Quando mi avevi mostrato la schermata del software mentre lavoravi al tuo primo film (stormi nel cielo arancio di Roma) ero rimasta affascinata, da traduttrice, dal modo a volte grossolano con cui avevano tradotto dall’inglese il nome di alcune transizioni.
Dissolvenza additiva: graduale sparizione della scena. Allo stesso modo, le piccole cose hanno cominciato a sparire. Anche se, in effetti, non le ho mai viste nell’atto di sparire. Ma è quello che hanno continuato a fare: sparire. Senza che io me ne accorgessi gradualmente si sono dissolte fino a svanire del tutto e solo in quel punto le notavo: assenti.
Ho iniziato ad accorgermene un po’ di mesi fa, e sicuramente molto più tardi rispetto al principio del processo. Il primo oggetto di cui ho notato la sparizione è stato il cerchietto per capelli con il profilo di un gatto verde incollato a un lato. Me lo avevi dato il giorno del mio venticinquesimo compleanno, dicevi di averlo trovato al mercatino dell’usato dei Navigli e che il commerciante raccontava appartenesse alla discendente di una principessa irlandese. Sapevi bene quanto mi piacessero le tradizioni celtiche, la lingua dei druidi, ma anche i mici e il verde. E sapevi molto bene quanto odiassi i capelli sulla fronte, specialmente in estate, quando mi si appiccicavano e la pelle diventava rossa e infiammata. L’ho sempre indossato, e la sua sparizione non poteva essere un caso né un furto. Non era entrato nessuno e quell’oggetto non usciva mai dalle mura di casa. Lo usavo nelle giornate più calde. Quando mi mancavi e non potevo chiamarti.
È successo all’improvviso. L’avevo lasciato sul lavandino per farmi una doccia, una volta finito non l’ho trovato. A giugno i capelli asciugano in fretta: anche senza fermacapelli, ho scoperto. Ricordavo di averlo lasciato lì ma credetti di averlo dimenticato in un posto diverso. Controllai sul comò, in cucina, sul frigo, sul ripiano del televisore. Non c’era, ma a giustificare la sparizione delle cose c’è sempre la convinzione che siano loro a sparire e cercarle non porta risultati e quindi meglio aspettare che sbuchino fuori, a caso, un giorno. Peccato che quel cerchietto non abbia più fatto ritorno. E così tutti gli altri oggetti che successivamente, con sempre più frequenza, iniziarono a sparire. Il bicchiere rubato al Mom, la penna a gel dalla forma di cactus, ninnoli d’argento di Marrakech, blocchi di fogli bianchi (di quelli che ci regalava papà, con i marchi delle ferramenta da cui si riforniva, ricordi?) confezioni di fazzoletti, a volte forchette , federe e lenzuola, qualche calzino (solo uno, sì: ancora oggi ne ho diverse coppie spaiate), fili di carica, viti, bulloni, saponette, certo anche alcuni alimenti (ma non saprò mai se li ho mangiati e poi l’ho dimenticato: sai quanto amo mangiare di notte), persino le decorazioni natalizie fatte da mamma che aveva spedito uguali a entrambi.
A tal proposito, spero che almeno le tue siano ancora lì, scriveva alla fine del quarto foglio. Il quinto presentava in alto a destra dei ghirigori di penna. Solchi stizziti ora bianchi ora neri. La penna non scriveva più – oppure aveva iniziato a dissiparsi anche l’inchiostro? La pagina partiva con un nuovo titolo dal colore balbettante:
Le grandi cose
Ho iniziato a preoccuparmi quando un giorno, tornata a casa dall’università, non ho più trovato il letto. Materasso, doghe, lenzuola e cuscini compresi. Un furto, certo, l’ho pensato anche io. Avrei dovuto chiamare la polizia, l’ho pensato anche io. Qualcuno ha le chiavi di casa, le ha clonate, oh buon Gesù, certo che ci ho pensato anche io. Ma le telecamere del portinaio parlano chiaro: nessuno è salito al terzo piano, forzato la porta e andato via con un letto matrimoniale due metri per due. Che poi: c’era il televisore, c’erano i bracciali d’oro nel cassetto del comodino, c’era anche il pc: tutto avrebbe avuto più valore del mio letto.
Avrei voluto averti lì, Leo.
Stavo per dirtelo, di venire subito da me, credimi, avevo preso il cellulare, cercato il tuo nome, lo avevo pronunciato anche ad alta voce con l’ansia che mi spezzava il fiato e la tremarella nelle mani e allora dicevo anche il nome di mamma e quello di papà perché volevo che foste tutti qui a fermare i brividi di paura e a dirmi che il letto in realtà non l’avevo mai avuto o che avrei dovuto comprarlo che mi sbagliavo che forse il ladro era stato bravo e che non stavo perdendo la ragione ma poi tu non rispondevi e gli squilli continuavano a vuoto e gli spazi tra uno squillo e l’altro mi erano sembrati sempre più lunghi e siderali e le mani di mamma e papà non erano sulle mie spalle in realtà non lo sono da un po’ e mi ero resa conto di essere sola perché tu sei lontano e loro chissà dove in quale dimensione non questa comunque morti e comunque anche loro non qui con me e che l’unica cosa a farmi compagnia alla fine era questa consapevolezza della dissipazione e fu allora che chiusi il telefono (no non ricordo se poi avevi risposto in quel momento o se mi hai mai richiamata. L’ho rimosso, scusami) andai allora a prendere due piumoni tornai e li distesi per terra con i cuscini di riserva che avevo nell’armadio e dormii raggomitolata sulla spalla destra senza nemmeno chiudere le tapparelle aspettando che il tramonto si consumasse e che arrivasse il buio e che anche la luce sparisse e che portasse via ogni cosa. Anche me.
L’indomani mi svegliai con la schiena dolorante ma con l’umore più – mio dio, come lo descriverei? Più solido, sì, ecco. C’era qualcosa di impalpabile ma comunque presente che mi faceva compagnia, con buona pace di te e dei nostri genitori, e questo qualcosa era l’assenza. Mobile dopo mobile tutto ha iniziato a dissiparsi ma io non avevo più paura. Non ti nascondo che è stato piuttosto difficile gestire la mancanza del frigo e dei fornelli, ma i delivery mi hanno salvata dal deperimento. Il divano (quello grigio, largo, dove ci mettevamo a vedere “Scrubs”, lo ricordi?) non c’è più. Lo specchio nel corridoio si è dissolto. Lo sgabuzzino è vuoto. Del cesso è rimasto un buco per terra e l’acqua putrida che dondola a filo pavimento. In cucina c’è soltanto il tavolo tondo dal quale ti sto scrivendo. In camera da letto soltanto i piumoni di emergenza, perché l’armadio con i vestiti è stato il secondo grande oggetto a sparire. Leo, non so quali tempistiche segua questo processo, ma credo che. Tu dovresti.
L’inchiostro qui iniziava a diventare sempre più chiaro. Si vedevano i colpi di penna che aveva tracciato sul foglio. In un certo punto c’era un buco, poi la lettera riprendeva direttamente nell’ultima pagina, ma da come ricominciava sembrava essere passato del tempo, come se fosse successo qualcosa che l’avesse costretta a fermarsi.
Arrivato a questo punto sarai già piuttosto preoccupato. Non è mia intenzione sovraccaricarti di ulteriore ansia, ma mentre scrivevo ha iniziato a scomparire il piede destro. Non c’è da temere: non ho più solo le ultime due dita, che trovavo già piuttosto brutte così storte e callose.
Ti ho comprato il primo biglietto aereo disponibile per Marina, ho pensato anche al transfert che dall’aeroporto di Brindisi ti condurrà fin qui. Inutile dirti che anche la tua auto è scomparsa.
Penso che questo pomeriggio andrò al mare, a vedere il tramonto. Sarà carino notare la sabbia attaccarsi al nulla, o forse spariranno anche i granelli a contatto con il mio corpo e allora se il processo dovesse accelerare sapresti che sono scomparsa sulla battigia, perché l’arenile sarà pieno di buchi di niente che segneranno il mio passaggio.
Se invece dovesse andare tutto come previsto mi farebbe piacere giocare con te al gioco dell’acqua. Lo ricordi di certo. Usavamo i letti come se fossero delle barche, li riempivamo di oggetti. I lenzuoli e i cuscini diventavano stive e i bordi del materasso erano le poppe dalle quali cercavamo terra e monitoravamo il pavimento burrascoso che diventava schiuma sotto di noi e a volte si ingrossava, furibondo. Non potevamo toccarlo, pena l’annegamento. Dovessi fare in tempo sarebbe bello tu venga a giocare con me un’ultima volta e se ti andrà ci getteremo tra le onde e rideremo di crepacuore finché non si dissolveranno anche le mie risate.
Ti resterà una manciata di sabbia sul pavimento e sorriderai pensando a tua sorella, la dissipata.
Per sempre tua,
Bianca.
Rilessi tutto di nuovo. Tre volte, prima di accarezzare col dito la sua firma.
Pensai che mi sarebbe piaciuto raggiungerla, sarei partito con uno zaino leggero, un libro e qualche quaderno bianco, le avrei consegnato di persona anche una mia risposta, magari scritta con un inchiostro blu meno incerto del suo. Ma mi accorsi – mentre dalla busta scivolava fuori una sagoma di plastica verde a forma di gatto – che non avevo mai avuto una sorella di nome Bianca. Mi accorsi che non avevo mai avuto una sorella.