Il povero Jury Fussi
di Luca Tosi
Una mattina nuvolosissima di novembre, Jury Fussi era salito su un treno partente da Santarcangelo di Romagna con l’obiettivo di giungere in Liguria, precisamente ad Alassio. Per guadagnarsi la destinazione aveva però dovuto cambiare tre treni, due regionali e un intercity. Durante il viaggio aveva molto osservato il paesaggio scorrere sul finestrino, dalla piattezza ripetitiva della pianura padana fino all’incostanza della fisionomia ligure: cittadine inerpicate, coste con annessi strapiombi, e tanto vento che spettinava ogni singolo albero creando nell’insieme un caos. Jury, dalla levataccia alle cinque di mattina, si era sentito molto solo in treno, come se gli mancasse un sostegno, un punto di riferimento. Si era da poco lasciato con la morosa, e questo senso di vulnerabilità lo accompagnava come una costante nel quotidiano, seppure le provasse tutte per scantonarsi e tornar lo Jury Fussi di sempre. In certi momenti gli veniva meno il respiro, così finiva immancabilmente per analizzarsi nei minimi e insignificanti sintomi del corpo: indolenzimenti muscolari od ossei, presunte tachicardie, sbalzi di pressione, pruriti. Presentiva, ogni santa volta, di stare per morire; invece, poi pian piano riusciva a distrarsi. Non che a quel punto si rimettesse tranquillo, ma quantomeno teneva botta.
Arrivato ad Alassio sfibrato nel pensiero e nel fisico, nel rimettere i piedi a terra dopo sei ore di treno si era sentito sollevato, però non troppo. Aveva quindi raggiunto in taxi il Thalassio medical spa, e qui avviene il primo fatto strampalato di questa storia: alla reception, la segretaria in occhiale da vista con montatura spessa e nera Ray-Ban gli aveva proposto, in alternativa alla soluzione standard, spa più pernottamento in camera singola, il pernottamento in doppia con un’altra persona. Questo perché le singole erano esaurite. Jury ci era rimasto di sasso. Ma dopotutto avrebbe accettato anche di dormire in uno scantinato, piuttosto che andarsene. Aveva detto «Va bene», ottenendo così uno sconto del venti percento.
Raggiunto in ascensore il terzo piano, individuata la stanza 317, era entrato. Dentro ci aveva trovato, steso stravaccato su uno dei due letti, un tale in completo nero, capelli grigi alla Richard Gere. Stava al telefono, non si era nemmeno tolto le scarpe. Jury lo aveva salutato con un «Ciao», poi aveva preso a sistemarsi. Poco dopo aveva notato che l’uomo aveva con sé un arsenale di macchine fotografiche analogiche, obiettivi e rullini; era tutto in bella vista su un tavolino della stanza. Alla domanda di Jury: «Sei un fotografo?», l’uomo aveva risposto di sì, spiegando che viaggiava spessissimo, però col solo scopo di fotografare; non era lì per i trattamenti della spa, bensì perché tutti gli altri alberghi di Alassio erano al completo. Al che Jury gli aveva chiesto come facesse a portarsi nello zaino tutti quegli aggeggi e sopportarne il peso.
«Non sento nessun peso, io» aveva risposto l’uomo. «Non mi muoverei da casa senza la mia strumentazione».
Jury si era stupito a tal punto che si era vergognato di avere nel suo zaino solo una Nintendo Switch, ci giocava ogni tanto prima di dormire. Il suo videogioco preferito era Hogwarts Legacy, vestire i panni di un maghetto lo esaltava: giocandoci riusciva a credersi capace di produrre magia, quando, al contrario, nella vita vera si giudicava capace di niente. Era andato in bagno a cambiarsi, poi era sceso alle piscine. Ce n’erano due, una interna e una esterna. Aveva scelto quella interna, aver un tetto sulla testa gli dava una sensazione di comfort. Oltre a sparute vecchiette, ammollo nella piscina c’era una simpatica comitiva di quaranta, quarantacinquenni: si trattava di tre coppie, mariti e mogli. Si schizzavano l’acqua fra loro come bambini, ridacchiavano, scherzavano. Jury si era sentito attratto dalla loro giovialità, gli ricordavano il gruppo di amici dei suoi genitori, di quando lui era piccolo e passava ore ad ascoltare le loro chiacchiere al Bar Centrale, in piazza a Santarcangelo di Romagna. Si era anche ricordato che a quei tempi beveva sempre l’acqua frizzante col limone, con la cannuccia, e che stava fisso zitto perché secondo l’opinione di tutti lui era un bambino timido, e allora non si prodigava per smentirli. Dopo qualche sguardo reciproco, la comitiva dei quaranta, quarantacinquenni aveva accolto Jury rivolgendogli parola e inglobandolo nelle ciance. Jury però non diceva molto di sé, evitava di diventare il centro dell’attenzione, anche in questo frangente provava piacere nello star ad ascoltare in modalità spettatore. Si era chiesto se mai gli sarebbe capitato, in futuro, di far parte di un gruppo simile, però di suoi coetanei.
A un certo momento, uno della combriccola si era messo a raccontare che ultimamente aveva cenato al KFC di Genova: un bidoncino pieno fino all’orlo di pollo fritto, ma già dal primo morso aveva scoperto che dentro era roseo, il pollo, allorché non cotto. Così aveva cercato su Google se ad altri era capitata la stessa sventura, trovando migliaia di riscontri: povera gente finita al pronto soccorso, profusione d’intossicazioni alimentari, due bambini in coma e, addirittura, la Mongolia che chiudeva tutti i KFC presenti dentro i propri confini. Gli altri della combriccola avevano ridacchiato, Jury no: la sua mente, per tutta la durata del racconto aveva annoverato ricordi di virus intestinali passati, episodi spiacevolissimi, corse al bagno e notti passate sul cesso.
Dopo una mezz’ora si erano spostati prima nella sauna, poi nel bagno turco. Jury aveva sopportato felicemente la sauna, mentre nel bagno turco non riusciva a respirare: ciò gli generava un allarme, che già si sostituiva a quello di un ipotetico, futuro virus intestinale. Allora aveva pensato: non sto mai in pace, io.
Evasi dai vapori, erano tornati in piscina, dove avevano acceso tutti gli idromassaggi. Alcuni si sbaciucchiavano, altri s’accarezzavano. Jury provava a mostrarsi neutrale alle smancerie, però in realtà i suoi pensieri eran già volati alla ex, ai bei tempi in cui, ogni sera, lei si addormentava sul petto di lui mentre lui leggeva, a letto. Da mesi non riusciva più a leggere, dopo due o tre righe si smarriva e gli saliva un gran ansia. In questo si sentiva come azzoppato, mancante della serenità necessaria a vivere dignitosamente. La considerava perduta, quella serenità. Per forza di cose era a suo agio fra quelle coppie: detenevano il quieto vivere, la loro compagnia lo separava dalle angosce.
Con l’accappatoio stretto in vita si era poi steso su una sdraio e, telefono alla mano, aveva ingenerato dopamina scrollando Instagram e distribuendo “mi piace” a ragazze famose molto belle, nella speranza che ricambiassero. Com’è ovvio nessuna ricambiava, anche perché sul profilo di Jury c’erano solo foto di luoghi in cui era stato, non interessavano a nessuno. Deposto il telefono aveva bevuto una tisana e mangiato una mela, poi si era dedicato a osservare l’arredamento della spa; tutto Maison du Monde: lampadari a forma di uccello, tavolini dorati e, qua e là, dei Buddha grigi distribuiti fra potos e piantine grasse. Ne aveva contati addirittura undici.
Verso sera era uscito dal Thalassio medical spa per farsi un giro ad Alassio. Niente lo aveva attratto più di un piccolo supermercato Conad, in cui si era inoltrato pieno di stupore per le luci molto chiare e le tantissime offerte. Non sapeva dove appoggiare gli occhi, tanta era la merce, ogni confezione gli appariva succosa, degna di essere acquistata. Aveva comprato, nell’ordine: una bottiglia di chianti, cantina Cecchi, un pacco di Oreo, dei crostini Conad e una confezione di ciccioli romagnoli, che aveva attaccato appena riguadagnata la strada. Si era di rientrare nella stanza 317, e condividere il chianti e le altre prelibatezze col fotografo.
Durante il tragitto di ritorno si era meravigliato di come, per ben tre volte in venti minuti, nubi di moscerini gli avessero avvolto la testa.
Aveva quindi camminato pensando ad altre stranezze recenti: si era ricordato di aver scampato la morte per un pelo nell’ultimo anno. A Cracovia, nell’ultimo viaggio con la sua ex, poco prima della rottura: lei lo aveva tirato per un braccio appena in tempo, per farlo scansare dalle rotaie del tram, sopraggiunto l’attimo a sfiorargli l’orecchio.
Era quindi approdato in stanza. Sfortuna vuole che il letto del fotografo fosse fatto; non c’erano zaini né niente nei paraggi, aveva già fatto il check-out. Jury si era rattristato parecchio, seppure immaginasse il fotografo in movimento nella notte, con la macchina al collo a cacciare immagini.
In piedi alla finestra, adesso guardava fuori con aria malinconica. Avrebbe voluto assistere a una nevicata, ammirare il bianco dei fiocchi che in men che non si dica riveste ogni cosa. Si sentiva oscillare, barcollava, gli pareva di orbitare fuori dimensione. Non che fosse una sensazione inedita, anzi. Per distrarsi aveva bevuto molto chianti, ripetendosi a mente che tutto passa. Incantato alla finestra, contava i secondi fra un battito di palpebra e l’altro.
L’ultima nevicata a cui aveva assistito risaliva a quattro anni prima. Novembre. Poco dopo il suo compleanno. Ricordava di esser uscito per una passeggiata al parco vicino casa, là si era imbattuto in una donna che portava a spasso due cani identici. Le loro orme. Fiocchi bianchi accatastati sui rami secchi degli alberi, con uno spessore iperbolico. Il prato innevato a perdita d’occhio. I tetti delle case intorno. L’abbaglio di luce negli occhi. Lì gli era venuta l’idea di comprarsi una macchina fotografica e viaggiare per fotografare solo neve. Si era esaltato, per un momento, però poi si era detto che aveva superato l’età dove tutto è intraprendibile, era tardi.
Scolata la bottiglia, si era buttato sul letto vestito e aveva sorriso al soffitto, prima di chiudere gli occhi.
La mattina dopo, svegliatosi all’alba, ricordava benissimo il sogno che aveva fatto. Comodo, testa contro la spalliera del letto lo aveva ripercorso dal principio, stupendosi di quanto gli apparisse vivido: si trovava a casa dei suoi genitori, nella cameretta in cui era cresciuto; di colpo, alla finestra era apparso un uomo; aveva lunghi capelli ricci, era a torso nudo, molto abbronzato e scolpito nei muscoli; subito, la sua voce aveva attirato l’attenzione dei genitori di Jury, che eran corsi a salutarlo; si trattava di un loro vecchio amico; sia Jury che i suoi eran usciti in balcone, e si erano accorti che l’uomo saltellava da una finestra all’altra del condominio come Tarzan, però senza avvalersi di liane; la luce del sole metteva in risalto la sua abbronzatura; era espressione di un vitalismo sfrenato, possedeva un’energia incontenibile, era qualcosa di animalesco; al che la mamma di Jury, in preda all’entusiasmo, con un salto, imitando l’uomo, aveva raggiunto il balcone dell’appartamento a fianco, però non del tutto: si stava arrampicando per non cadere di sotto, e ce l’avrebbe fatta, se il babbo di Jury non le avesse detto, con voce delusa, scocciata: «Ma cosa fai, Dora?»; a Dora l’energia era precipitata, e così, invece di continuare ad arrampicarsi per mettersi stabile, si era lasciata cadere.
Qui Jury si era svegliato di soprassalto, il cuore a mille. Per tutta la giornata aveva poi ripensato a questo sogno, ai possibili significati, ai simboli. Col passare delle ore gli era parso di capire sempre meglio; conteneva sì elementi rubati alla realtà, ma soprattutto mescolamenti inconsci anche sorprendenti. Gli elementi reali riguardavano sua mamma e suo babbo: lei più spigliata, dedita a una solarità contagiosa, lui timoroso, lamentoso, depresso. Ma non erano questi aspetti a interessarlo, quanto quel Tarzan saltellante. Jury aveva realizzato di essersi appiattito, da mesi, in uno stato di semi anestesia: non rischiava, si svegliava al mattino senza grinta, non faceva attività fisica, era sempre o ansioso, o spappolato. In altri periodi era stato invece molto attivo sotto il profilo fisico, spericolato e vigoroso; quanto avrebbe voluto tornare così.
C’è dell’altro: aveva poi riconosciuto, nell’indole del babbo che spegne l’entusiasmo della mamma e, di fatto, la uccide, un’attitudine che aveva molto espresso con la sua ex; parecchie volte l’aveva sminuita, ridicolizzata, messa in secondo piano e di questo si dispiaceva sinceramente.
Triste e ingobbito, a metà mattina era sceso alla piscina interna per un bagnetto. Era attorniato da vecchiette: lo scrutavano stranite, alcune sorridendogli come potessero compatire i suoi traumi. Si muoveva adagio nell’acqua calda. Gli pareva che le vecchiette detenessero una serenità senile, frutto di anni di inquietudini collezionate nelle loro lunghissime vite; pagato ogni scotto, adesso vivacchiavano assolte, placide. In più gli pareva di riconoscere in loro, dalle espressioni, dalle timidezze, dai tic, le ragazze che erano state. Vedeva chiara una grazia, si rinfrancava: una grazia non esclusiva della femminilità, bensì umana in senso ampio.
Con due di queste signore si era inchiacchierato. La prima era una polacca portatrice di enormi seni. Compiva piccoli saltelli in acqua, di continuo, come per ottemperare una ginnastica inventata. Non capiva, Jury, quale fosse il beneficio da trarne, eppure un beneficio doveva esserci. Lei gli aveva detto che frequentava il Thalassio medical spa quattro volte a settimana. Avevano poi fatto insieme una sauna veloce, al che la polacca lo aveva condotto al famigerato pozzo: una vasca di due metri per due in cui bisognava scendere scalino dopo scalino, dentro un’acqua alla temperatura di dodici gradi. Inutile dire che Jury non era andato oltre il terzo scalino, ovvero altezza ginocchia. La polacca, al contrario, senza si era immersa fino al collo.
«Il segreto è pensare all’acqua fredda come a un’amica» gli aveva detto.
Dopo poco era emersa dal pozzo coi capezzoli così turgidi che sembravano poterle bucare il costume. Non solo spiccavano per la punta, anche l’intera corona era ben scolpita. Lei gli parlava guardandolo negli occhi, però lui non riusciva a non abbassare lo sguardo, così lo aveva beccato più volte. Avrebbe guardato quei seni per ore, così da poterli poi disegnare, tornato in stanza.
La seconda signora l’aveva incontrata nel fiumiciattolo del caldo-freddo, un breve circuito dove, camminando veloce, si transita da acqua calda a fredda fra idromassaggi molto potenti. Questa, nel corpo era rinsecchita, senza curve, in compenso annoverava tanta più parlantina dell’altra; aveva raccontato a Jury di come passava le sue giornate: sveglia presto al mattino, preparazione di sughi e verdure al forno per il pranzo del marito, torte, poi spa, oppure palestra o camminata, cena fuori. Tutto svolto nella più precisa consequenzialità. Jury già s’immaginava la casa della signora, un appartamento spazioso, sempre pregno del profumo di torta appena sfornata. Luci calde, atmosfera vellutata. Si era figurato che la signora lo avrebbe toccato nelle parti intime di lì a poco, però non era accaduto. Eppure, anche solo pensarlo aveva alzato la sua temperatura.
Suppergiù a ora di pranzo, anche lei si era dileguata. Così Jury si era spostato nella saletta relax, a farsi una tisana steso su una sdraio, poi basta; una volta fuori dal Thalassio medical spa, si era avviato verso la stazione per fare ritorno a Santarcangelo. Camminava scanzonato, arricchito dall’esperienza: l’incontro col fotografo, la compagnia degli ammogliati, la polacca e i suoi capezzoloni, eccetera. Erano stati giorni fruttuosi, tanto che adesso si sentiva immune dall’ansia. Sarebbe bello finire così, con la compiutezza: il protagonista, all’inizio affannato a causa di un dolore, nel finale scavalla i suoi patemi e, rinnovato, vive lieto. Purtroppo, no: lasceremo Jury peggio di come lo abbiamo conosciuto: per gli stomaci delicati è meglio interrompere qui la lettura, portarsi a casa ciò che di buono c’è stato.
Se state ancora leggendo, significa che o vi credete coraggiosi, o vi piace farvi del male. Lungo il tragitto per la stazione Jury aveva attraversato un parco pubblico. Si era accorto di essere in anticipo, allora si era seduto su una panchina. Per un po’ aveva osservato le chiome degli alberi ondeggiare sotto la mano di un leggero vento. Aveva poi chiuso gli occhi, immaginando un mondo dove tutte le persone campavano senza rendere conto a nessuno. Ma il cielo si era coperto di nubi plumbee, e nel momento in cui Jury aveva riaperto gli occhi già pioveva a dirotto. Era scattato dalla panchina correndo fin sotto un albero, per ripararsi.
Come lui, erano giunti sotto lo stesso albero due ragazzini sui quattordici anni: uno portava un cappellino Luis Vuitton, l’altro un marsupio Gucci a tracolla, entrambi contraffatti. Ai piedi, Nike sgargianti. Il temporale era già oltremodo violento, spostava una gran aria, motivo per cui Jury si stava non solo inzuppando, ma anche raffreddando nel petto. I ragazzini ridacchiavano, mentre lui aveva preso a girare attorno all’albero in cerca di una posizione migliore, senza però guadagnarla mai. In una manciata di secondi il respiro gli era venuto meno, si era accasciato a terra chiedendo aiuto, stringendosi il petto con entrambe le mani. I ragazzini lo avevano soccorso chiedendogli: «Ma soffri di qualcosa?».
Aveva recuperato il fiato dopo tre minuti circa, contestualmente il temporale era sfumato. Si era rialzato incredulo, aveva ringraziato i due vergognandosi molto, al che quello col cappellino Vuitton gli aveva detto: «Succedono a tutti cose strane in questo periodo, non preoccuparti».
Nella testa di Jury i pensieri adesso erano assenti, si percepiva come appena guarito da un’influenza, però non ancora in formissima. Si era diretto in stazione.
Trequarti d’ora dopo si era suicidato tuffandosi sul binario uno al transito di un Frecciarossa diretto a Bari. Ciò aveva causato ingenti ritardi e cancellazioni, parecchia amarezza nel personale di Trenitalia e nei suoi passeggeri.
I due ragazzini, nel frattempo, avevano camminato spediti fino al McDonald’s di Alassio; là avevano trangugiato panini e patatine come non ci fosse un domani. Non avevano commentato, né accennato niente riguardo Jury; nel loro tralasciare l’episodio esprimevano un sincero rispetto per la persona, pur non potendone immaginare l’epilogo. Se solo Jury avesse captato anche un briciolo di questo loro rispetto, forse avrebbe trovato il coraggio necessario a esistere ancora, e si sarebbe risparmiato.
Completato il pasto con un McFlurry, i due ragazzini erano usciti a fumare. Il cielo era di nuovo sereno.
Da qualche parte in Liguria, nello stesso momento un fotografo coi capelli grigi alla Richard Gere aveva scattato una foto, riuscitissima, a un gatto bianco sotto l’arcobaleno.
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(In copertina: Greg Rosenke – Unsplash)