L’ascensore
di Pier Paolo Di Mino
La luce andò via, e tutto vibrò. Poi il signor B. sentì un rumore come un elastico che si spezzava. L’ascensore, dopo avere oscillato nel vuoto, si fermò. Il signor B. si accorse che respirava a stento. Calma, si disse, stai calmo. Le probabilità che un ascensore cada sono praticamente nulle. Hai mai sentito, si disse, di qualcuno morto in questa maniera? Cercò il tasto per dare l’allarme. Non funzionava. Ma dimmi se uno, pensò, ora non ha nemmeno più il sacrosanto diritto di uscire di casa per un caffè e un cornetto.
Voleva solo prendersi cinque minuti di distrazione per pensare meglio. Si era deciso a scrivere questo racconto. All’inizio aveva pensato a un saggio. Ma, si era detto poi il signor B., oggi più che mai, è necessario toccare direttamente i sentimenti. Comunicare in termini astratti e teorici è ormai inutile. La capacità umana di elaborare concetti è stata assorbita dalla diffusione di parole d’ordine vuote, e, insomma, erano giorni che il signor B. accumulava immagini da una parte e concetti dall’altra, ma non ne usciva fuori nulla. Ha ragione Don DeLillo, si era detto alla fine. Se uno vuole capire cosa succede durante la scrittura non deve indagare il momento della scrittura, ma il momento in cui lo scrittore si alza e va a prendere una mela. È lì che succede tutto. È inutile che aspetti seduto alla scrivania, non funziona in questo modo. E così, quella mattina, aveva deciso di uscire. Esci fai una passeggiata, magari ti fermi a parlare con qualcuno, non lo fai mai, così dentro la testa si mette tutto a posto da solo.
Il tasto dell’allarme era rotto. Per un momento il signor B. pensò che la cosa migliore fosse mettersi a urlare, ma, a quell’ora il palazzo era vuoto e, prima di reagire in modo scomposto, era il caso di aspettare che le cose si aggiustassero da sole. Ne approfitterò per pensare. Si sedette, e gli parve che l’ascensore non avesse subito la minima scossa dal suo movimento, che fosse rimasto perfettamente stabile. Bene, pensò. Prima di tutto, il punto di partenza. Sono partito dall’attuale crisi. Non è una pandemia, ma una sindemia, come il cancro, i suicidi, il diabete, la sindrome da immunodeficienza, e via dicendo. Molti concordano che sia questa la linea interpretativa corretta. Il capitalismo avanzato. Nel senso che, ormai, è in uno stato di decomposizione. Questa crisi sanitaria è un tutt’uno con quella sociale ed economica. E via dicendo. Vedi le teorie accelerazioniste. In generale: l’accelerazione entropica come disgregazione delle informazioni. Accelerazione, si ripeté, e poi smise di pensare. Gli era parso di sentire qualcosa, forse qualcuno sul pianerottolo, non capiva se al piano di sopra o a quello disotto. Era sicuro di avere sentito dei passi. Forse perfino delle voci. Fece silenzio dentro la sua mente. Cercò di non respirare. Tese le orecchie. Non si sentiva più nulla.
Il signor B. tornò a pensare al racconto che doveva scrivere. Se ne vengo a capo, si disse, almeno tutto questo spavento non sarà stato inutile. Dunque, il mio ragionamento è che una crisi ha un inizio e una fine. Prendiamo una crisi qualsiasi di oggi. Tutto sarebbe, in realtà, facile da risolvere con un riassetto sociale, produttivo, distributivo, economico. Basterebbe, diciamo, un riassetto umanistico e umano. Invece ormai una crisi si presenta sempre come perenne e irrisolvibile. Non si può parlare di crisi. Questo è un sistema. Da qui l’indagine per capire dove collocare il momento in cui siamo rimasti intrappolati in questo sistema. Possiamo dire che il capitalismo inizia con la metafisica nichilista e l’indifferentismo morale del luteranesimo, o, ancora prima, con il catarismo, o, con un salto di mille anni circa all’indietro, con il marcionismo, o possiamo fare cominciare tutto con la teologia politica di San Paolo, o, ancora meglio, con lo gnosticismo in genere, ma, ovviamente, la cosa più sensata è fare iniziare tutto dall’inizio, e cioè dalla rivoluzione neolitica. Dunque, la tesi da sviluppare potrebbe essere questa: il nostro sistema di vita, la nostra civiltà, che coincide con la rivoluzione del neolitico, rappresenta soltanto il momento entropico della storia umana. Abitiamo il mondo da circa tre milioni di anni, e questa piccola porzione, di appena cento secoli, che chiamiamo civiltà, è solo la coda incendiata della nostra storia, è una brevissima fiammata: quella della nostra estinzione.
Non è vero niente, non serve un riassetto umanistico, serve impossessarsi dei mezzi di produzione, unirsi e fare la rivoluzione prima che sia troppo tardi, pensò il signor B., e, poi gli sembrò che l’ascensore stesse oscillando. No, si disse, è fermo. Aspetto un altro po’, e poi, non me ne importa niente, mi metto a urlare. Potevo prendere le scale, si disse quindi. Lo dicevano che era rotto. Lo dicevano da tempo.
Dove sono arrivato?, si chiese. Non riusciva più a riprendere il filo dei pensieri. Certo, si disse, lo schema classico, esiodeo, diciamo, (ma i Veda non si esprimono diversamente, nessuna tradizione si esprime diversamente), insomma, il punto è che l’uomo ha conosciuto il paradiso qui in terra, ha vissuto un’èra aurea, ossia il paleolitico, per poi sprofondare in un’epoca nera e degradata, fatta di lavoro, di sfruttamento, di pestilenze, di dolore e dolore e solo dolore, ossia il neolitico. Il neolitico, si disse ancora una volta il signor B., e poi sentì che il cuore gli faceva male, gli pulsarono le vene delle tempie, e gli mancò il respiro. Era sicuro di avere sentito di nuovo quel rumore, come un elastico che si rompe, e gli era parso che l’ascensore scivolasse più in basso. Però, no, non si muoveva. Era tutto fermo e in silenzio. Non è escluso, si disse, che stia esagerando, che stia trasformando nevroticamente un fatto banale, un ascensore fermo, in una tragedia, e questo per soddisfare un fondamentale bisogno di catarsi. Del resto, si disse poi il signor B., anche questa ipotesi mi ha sedotto durante il lavoro preparatorio per il saggio, o è un racconto, ancora non so decidermi: gli incipienti disastri ecologici, così come le diverse nevrosi individuali derivate dalla catastrofe sociale congegnata dal liberismo, non sono altro che sintomi di una depressione che ha investito l’anima del mondo e quella di ogni uomo nello stesso tempo, una sana reazione, così si può correttamente intendere una depressione, a un male oscuro e tenace.
Il male oscuro e tenace di cui la depressione è un sintomo, si disse il signor B., è il capitalismo, il capitalismo, si ripeté, e, poi, capì che gli mancava di nuovo il fiato, che stava sudando, che ora stava sudando tantissimo. Poggiò la nuca contro una parete dell’ascensore. Allora, bisogna fare la rivoluzione, si disse, e, poi, gli vennero in mente delle immagini, ricordi, lui da bambino che guardava il cielo, c’erano le rondini, e pensava che le rondini emigravano e poi sarebbero tornate, e tutto sarebbe durato per sempre, gli sembrò di sentirne il garrito, e poi pensò a lui, sempre da bambino, che giocava con una scatola di fiammiferi mentre la mamma e il papà dormivano; lui che infilava dei biscotti dentro un mangianastri, perché, se mangiava i nastri, poteva anche mangiare i biscotti; le elementari, i quaderni e le penne, gli alberi bianchi fuori scuola. Poi, pensò a un’estate meravigliosa, da adolescente. Ricordo, si disse il signor B., che stava finendo, io avrei voluto durasse per sempre, e studiavo se fosse possibile trovare, nascosta fra le diverse facoltà dell’anima, una che fosse capace di fermare il tempo. La rivoluzione è tornare indietro, al momento in cui tutto era perfetto, si disse, e, poi, però, si chiese se quei pensieri, quei ricordi, non fossero, ecco, come quando si dice che tutta la vita ti scorre davanti perché stai morendo. Si alzò in piedi. Ho paura, pensò. C’è qualcuno?, urlò. Aiuto. Aiutatemi. Poi, l’ascensore vibrò, e, poi, oscillò, e, poi, a un certo punto, al signor B. parve che si aprisse in due, e, allora, urlò più forte, o cercò di urlare, ma, forse, dalla bocca non gli uscì nulla.
In quel momento era di nuovo tutto fermo. Forse, si disse, non si è mai mosso davvero. Sto uscendo fuori di testa dalla paura, si disse. Inspirò l’aria e la trattenne per trenta secondi, e poi la rilasciò lentamente. Da qualche parte aveva letto che si faceva così per sedare il panico. Lavoriamo, si disse poi. Presto o tardi arriverà qualcuno. Non possono essere tutti spariti. Ecco, si disse, quello su cui devo lavorare meglio è la differenza fra il paleolitico e il neolitico. Durante il paleolitico, questa è la tesi, l’uomo ha raggiunto il proprio vertice in termini materiali e culturali. L’uomo, nel paleolitico, si è integrato perfettamente nel mondo grazie a una scelta precisa. Sì, la linea di minima resistenza. Questa è stata la chiave del nostro successo: non abusare dell’ambiente, e favorire il più debole all’interno del gruppo, una mossa che, ovviamente, garantisce la sopravvivenza di tutti. Dunque, secondo gli antropologi sovietici la prosperità culturale e materiale derivata da questa scelta ha costituito il capitale poi investito nell’invenzione nefasta dell’agricoltura. Ma non basta. Questo ancora non dice nulla. Il vero punto, secondo me, è che nel paleolitico l’uomo ha raggiunto questa prosperità perché ha raggiunto la propria completezza non so se definirla spirituale o psicologica, ad ogni modo una completezza che gli ha permesso di vivere la vita per ciò che è: un determinato rapporto fra la necessità e l’amore. È l’immagine del violento Ares e della sensuale Afrodite che si amano e generano come figlia Armonia. L’uomo è vincolato alla necessità, non sceglie se nascere, come e dove nascere, chi essere, che gusti avere, e non può non morire, ma proprio questo lo spinge all’amore, ed è nell’amore che trova tutte le risorse che, se non gli permettono di sconfiggere la necessità, gli danno modo di viverla come un’occasione. Detta altrimenti, la morte ci spinge a fare l’amore, e l’amore sviluppa in noi l’immaginazione. L’esempio del fuoco. Abbiamo scoperto il fuoco fregandoci l’uno contro l’altro durante gli amplessi. Si può escludere che gli uomini abbiamo scoperto come innescare un fuoco vedendo due bastoni sospesi in aria cercare l’uno l’attrito con l’altro. E, in genere, bisogna dire che la selezione naturale altro non è che una selezione sessuale. Al dunque, l’uomo, nel paleolitico, spinto dalla morte all’amore, attraverso l’amore, ha sviluppato la ragione.
Passi. Erano passi. Non si sbagliava. Qualcuno, si accorse il signor B., stava salendo per le scale. Represse l’impulso di sbattere gli sportelli dell’ascensore, fece un respiro, e, poi, gridò: Aiuto. Nulla. Ora non si sentiva più nulla. Sono sicuro di avere sentito dei passi, si disse. Ne sono sicuro. Ora arriverà qualcuno. Fece un respiro profondo. Non devo perdere la testa, si disse. Pensa. Pensa con calma. Siamo vicini alla soluzione. Dunque, si disse, nel paleolitico l’uomo ha imparato a vivere la vita per quello che è, un misto di gioco e violenza, certo, ha sviluppato quella facoltà immaginale, quella facoltà di origine erotica, che è la ragione. Eraclito: La ragione è morbo sacro. Qui, si disse, devo lavorare su Apollo come dio della ragione, ossia come dio estatico. Ecco, il neolitico è la degradazione della ragione, è il momento in cui la ragione ha smesso di essere un gioco d’amore sacro ed è diventato un succedaneo della necessità. Pura violenza. La rivoluzione, si disse, è la redenzione di questa ragione degradata, che ci ha reso funzionali, violenti in conformità a protocolli, dogmi, fedi, opinioni funzionali e violente, apri strade e distruggi tutto, cresci a scapito dell’altro, cresci come un cancro, la nostra violenza funzionale ci anestetizza da millenni, ci rende vuoti e disumani, e ci fa vivere come morti, ci fa vivere come sonnambuli tramortiti che vagano in un sogno, ci fa vivere una vita che non è tale, ci costringe a lavori umilianti e insensati per eseguire i quali ci esponiamo a carestie, a pestilenze, a guerre, a catastrofi, nella speranza incosciente che questo sogno orribile abbia fine. Non sentiamo più la morte e, così, ci siamo infine votati a essa.
Il signor B. sentì che urlavano: È rotto. Poi, il signor B. capì che fuori dall’ascensore c’erano molte persone. C’è dentro qualcuno, urlavano. Chiamate l’assistenza, disse qualcuno. Qui ci vogliono i vigili del fuoco, disse un’altra persona. Ora, pensò il signor B., mi tireranno fuori da qui. Fece un respiro profondo. Si rese conto che stava pensando di nuovo al suo saggio. No, si disse, deve essere un racconto, ma, ecco, il punto è un altro, la verità è un’altra, la verità è che io non riuscivo a scrivere questo saggio o questo racconto perché pensavo, perché penso, perché non riesco a non pensare che non serva a nulla, perché penso che sia troppo tardi, che nulla ci può più salvare dall’estinzione, che gli uomini non siano più uomini, che non provino più nulla, che non possono immaginare più nulla, certo non la loro salvezza, e penso che io non ci posso fare niente, che è una cosa più grande di me, penso che anch’io non riesco a immaginare nulla, e sento solo disperazione, e paura, e colpa. Sento solo colpa. In verità, ora ho solo voglia di pregare, pensò il signor B. Gli parve di sentire nella propria mente un suono, proprio come quello di una preghiera. Sentì che, fuori dall’ascensore, le persone parlavano. Ora c’era il rumore delle voci e quello della preghiera. Il rumore venne assorbito dal verso delle rondini che emigravano. Tutto fu nero, e il silenzio perfetto.
____________________
Pier Paolo Di Mino è nato a Roma nel 1973. Ha scritto Il re operaio, Visiorama, Storia Aurea. È coautore del film Fine pena mai e del romanzo Fiume di tenebra. Fa parte del collettivo TerraNullius.