L’uomo col sigaro

di Luca Tosi

Una ragazza, un pomeriggio di inizio gennaio si era ricordata che quand’era piccola vedeva sempre, a piedi per il centro di Bologna, un uomo coi capelli legati e il sigaro in bocca. Andava col sigaro quasi sempre spento e si portava dei giornali sotto braccio, come se fossero il suo pane. Quel che ricorda meglio di lui sono gli occhi: l’uomo aveva uno sguardo che puntava sempre e solo avanti, verso il punto più lontano della direzione in cui andava. Alla ragazza era capitato di incrociarlo più volte, da piccola, e lui non l’aveva mai guardata, perché appunto guardava fisso laggiù. Si era anche ricordata che, altre volte, l’uomo teneva il registratore alla bocca e parlava fitto, con un accento che ancora oggi non saprebbe dire che provenienza avesse. Dell’Abruzzo, se proprio dovesse dire.

Un giorno che l’aveva incrociato, ed era insieme a sua madre, la ragazza allora bambina aveva chiesto alla madre che accento era quello, e la madre aveva risposto: «Quello lì è solo un matto che fa finta di fare qualcosa di serio».

Molte volte aveva pensato di seguirlo per vedere se era matto davvero, ma poi non l’aveva mai seguito. Provava a immaginare che lavoro potesse fare, sempre che ne facesse uno: giornalista? Al registratore, un giorno di alcuni mesi dopo l’aveva sentito dire: «Adesso domando alla mia commercialista». Un altro giorno, che doveva correre dall’elettrauto a ritirare la macchina. Poi era successo che la ragazza, da bambina era diventata ragazzina e si era trasferita a Cesena con suo padre, e caso vuole che l’uomo era anche lui lì a Cesena.

Come a Bologna, camminava per le vie del centro di Cesena col sigaro in bocca, spento, i capelli raccolti e i giornali sotto braccio, e spesso parlava al cellulare come uno che parla da solo.

Da ragazzina, a Cesena non si era trovata bene. Per fortuna dopo solo un anno erano andati via, suo padre aveva comprato casa a Santarcangelo di Romagna. Di Cesena le resta il ricordo della luce che ha la città nel centro storico, una luce nera, secondo lei. Dei traslochi si era occupato suo padre tutto da solo; un fumatore dalla corporatura massiccia, uomo solido che però sei anni dopo o poco più era morto. La ragazza ricorda benissimo il viaggio in furgoncino con suo padre verso Santarcangelo. Appena mezz’ora di strada e una luce nuova.

A Santarcangelo aveva preso il diploma di ragioneria ed era stata assunta da una commercialista che si chiamava Michelina. Guadagnava pochi soldi e non le bastavano. In compenso a Santarcangelo c’è il paese vecchio e quello le piaceva, soprattutto andarci a fare le passeggiate la domenica mattina. Nella sua testa le chiamava “passeggiate a cannone”, che voleva dire camminare velocissimo senza pensare, sudare poi tornare a casa, fare la doccia e dormire tutto il pomeriggio con sonnellini in successione.

Verso la fine di quell’anno era andata nella biblioteca di Santarcangelo e lì aveva rivisto l’uomo col sigaro e i capelli raccolti. I giornali però non li aveva. Stava seduto a uno dei computer della biblioteca con dei fogli spiegazzati in mano, il sigaro spento appoggiato sull’orecchio. Gli era passata di dietro e aveva scoperto che puzzava di sigaro ma anche di altro: tipo l’odore che hanno i muratori a stare sempre all’aria aperta, però ancora più accentuato.

Dopo degli anni si era sposata con un architetto che faceva di cognome Gori, e ci aveva fatto due figlie. Avrebbe voluto portare la famiglia a Bologna, ritornare nella casa della madre, ma il marito non era stato d’accordo, allora niente. Di Bologna le mancava il fatto che i ricordi che aveva di lì erano i suoi ricordi di bambina. Divorzio. Era negata per le cose burocratiche, e un pomeriggio, per distrarsi, era entrata al Conad e aveva comprato uova, prosciutto cotto e latte poi aveva cucinato le omelette per le sue bambine. In quel periodo si stendeva a letto e s’imponeva di restare sveglia fino alle due perché le piaceva come numero. I pensieri che faceva a letto riguardavano sempre l’amore: pensava così, che avrebbe atteso finché Dio gliel’avrebbe mandato giù da vivere. Poi per due mesi era stata malata, l’avevano ricoverata all’ospedale Infermi di Rimini per carenza di piastrine nel sangue. Si era risolto tutto per il meglio, ma aveva dovuto fare una cura al cortisone che la faceva piangere tutti i giorni, anche più volte al giorno. Il barista dell’ospedale, una mattina di novembre le aveva detto che secondo lui, con quella cura il suo sorriso era di molto migliorato.

Con gli anni la ragazza aveva poi smesso di chiedere l’amore a Dio, e guarda un po’ l’amore era arrivato. Verso i quaranta aveva conosciuto uno di dodici più giovane che faceva il bancario e portava l’orecchino. Lei credeva che i bancari non potessero tenere orecchini, e invece lui aveva anche un ranocchietto tatuato sul collo. Si volevano tanto bene, lo portava a far le “passeggiate a cannone” su al paese vecchio di Santarcangelo, là si baciavano, e una volta avevano fatto l’amore stesi dietro la chiesa dei frati. Però, dodici anni di differenza per lei erano un peso, si sentiva oscillare. Aveva provato a chiudere più volte, ma alla fine aveva chiuso lui ed era stata da cani per settimane. Un’amica le aveva consigliato i fiori di Bach in gocce, e la ragazza si beveva le boccette intere e non sentiva nessun tipo di effetto. Allora aveva provato col vino rosso, e per un po’ era stata meglio. Le figlie intanto erano passate dalle scuole elementari alle medie.

Una sera di inizio maggio, la ragazza si era comprata una bottiglia di lambrusco e stava bevendo seduta fuori di casa, quando aveva visto passare l’uomo col sigaro, i capelli raccolti e i giornali sotto braccio. In spalla aveva uno zaino e un borsone che gli piegavano la schiena. Si era alzata e l’aveva seguito.

L’uomo aveva camminato per il centro di Santarcangelo senza mai fermarsi, e senza telefonare a nessuno. Passavano i minuti e la ragazza seguitava a bere il vino andandogli dietro, nella scia del puzzo di lui. Forse un’ora dopo, le era sembrato che la notte prendesse una luce diversa e si era immaginata che se uno cammina tanto per le vie di Santarcangelo, dal suolo poi si alza una polverina che ti trasporta su un altro pianeta, se uno vuole. Quindi si era fermata. L’aveva lasciato andare. Finito il vino, aveva pensato che la vita è un girotondo ma ne vale la pena lo stesso. Poi si era accovacciata, e sentendosi la polverina sulle mani si era accarezzata la faccia e i capelli e il collo. Fra i pianeti su cui farsi trasportare avrebbe scelto Marte, perché è rosso. Poco dopo, l’uomo col sigaro era ripassato di lì, e per la prima volta in quasi trent’anni l’aveva guardata negli occhi.

(Foto)

Commenti
Un commento a “L’uomo col sigaro”
  1. mammadifretta ha detto:

    Ricorda un pò la mia vita…ma poi, chi era l’uomo col sigaro?

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