Tourists go home

testo e foto di Giuliana Zeppegno

Sfumò le vongole col vino bianco e se ne versò mezzo bicchiere. Mentre cucinava, scuoteva la testa al ritmo della musica che gli auricolari le rovesciavano dentro le orecchie. Prezzemolo tagliato fine. Uno spicchio d’aglio. Let’s go dancing, ohohoh. La sua coinquilina era uscita in cerca di ghiaccio. Senza gintonic, quella cena d’addio sarebbe stata inaffrontabile. In questa casa sono stata così felice, pensò. Così stramaledettamente felice. E sentire la felicità come una cosa solida, una sostanza attaccata alle pareti che restava lì mentre lei andava via, a cercare di ricostruirsi un guscio altrove, strato dopo strato, abitudine per abitudine, le stringeva la gola fino a farle quasi male.

Piangere? Oh no. Piangere mai. Il giorno dopo avrebbero iniziato il trasloco. L’amica sarebbe andata a stare da un cugino per un po’, e lei si sarebbe trasferita in quel quartiere anonimo, più periferico, senza Airbnb ad ammorbarle le giornate, senza cassette con i codici, rumori fuori orario e facce stralunate che cambiavano da un giorno all’altro. Un quartiere un po’ più sgangherato ma normale, finalmente. Un posto che il mercato immobiliare avrebbe ignorato per alcuni anni ancora, o per sempre, chi lo sa, forse non seguiva un’espansione regolare quella cosa che chiamavano gentrificazione. Forse cresceva un po’ a casaccio come la gramigna. Come un parassita.

La sua coinquilina usciva sempre senza chiavi. Quando il citofono suonò, lei era già brilla, con una rabbia addosso piena di malinconia. Aveva voglia di litigare con qualcuno. Di spaccare un soprammobile. Di ridere dall’alto del balcone, a crepapelle, fino a farsi venire il mal di pancia.

Scolò la pasta, premette il tasto con le mani unte, lasciò la porta socchiusa e si mise a far saltare gli spaghetti. È quasi pronto, siediti! gridò all’amica che era entrata sbattendo la porta. Il gin è già sul tavolo, procedi pure! le urlò ancora mentre preparava i piatti.

Ma quando fece il suo ingresso nel soggiorno, con i piatti fumanti e una macchia di sugo sulla maglia, Francesca non c’era. Ehi, dove ti sei cacciata? Chiese. Non hai trovato il ghiaccio? Sospinse la porta della sua camera da letto.

Fra, va tutto bene? Sussurrò avvicinandosi al corpo raggomitolato dell’amica, sul lato del letto di fronte alla finestra. Le si sedette accanto, in penombra, poggiandole la mano su una spalla. Fra, che succede?

Il corpo si girò di scatto, con una specie di grugnito. Lei lo guardò alla luce, balzò in piedi e cacciò un urlo.

***

Si svuotò la vescica con goduria estrema, tirò l’acqua, e poi rimase a contemplarsi nello specchio. Niente male, pensò. Davvero niente male. Rideva alla sua faccia sonnacchiosa, un po’ gonfia per il ruhm, ai suoi occhi celesti da poeta malandrino. Si sorrise e lo specchio disse: Basta. Vai a casa, Niels, è il momento.

Se l’era già detto altre tre volte, quel giorno, ma tutte le volte era tornato dagli amici, intorno al tavolino, a domandarsi Come fanno a essere così queste persone, sarà il bel tempo, la vicinanza del Mediterraneo, il basilico, la musica melodica, who knows. Michelangelo, la luce così chiara, un’umanità più calda, viva, soggetta a una tempesta emotiva permanente che in un attimo può trasformarsi in collera, o in amore. Pensava: Voglio restare qui per sempre, con queste persone che ho conosciuto appena quattro giorni fa. Mi comprerò un cappello bianco. Mi iscriverò a un corso avanzato d’italiano e mi farò chiamare… Nino.

Sentiva addosso lo sguardo della giovane seduta di fronte a lui, uno sguardo carico di desiderio, gli sembrò, e sulla spalla sinistra la mano del ragazzo che gli stava raccontando del suo viaggio in Danimarca, l’estate di due anni prima. Copenhagen is shit, biascicava lui, sentendo che avrebbe voluto esprimere il concetto in modo più sottile e articolato, e avrebbe avuto un mucchio di cose da dire sulla sua gente e sulla sua città, ma al momento non riusciva a dirne neanche una. A un certo punto sospirò, lasciò sul tavolo una banconota da cinquanta euro, non riuscendo a non pensare che equivaleva a una giornata del suo lavoro di redattore, mandò un saluto generalizzato e barcollando si avviò verso l’Airbnb.

Provò a percorrere il tragitto senza googlemaps. Quelle stradine ormai gli erano diventate familiari, e ne respirò l’incanto stupendosi a ogni graffito, a ogni lampione, a ogni vaso di terracotta poggiato sull’acciottolato. Il sole declinava dietro i tetti di Trastevere e lui per un istante si sentì l’unico uomo sulla faccia della Terra. Come dev’essere essere nati in un posto come questo? si chiese. Essere a tal punto abituati alla bellezza da diventare incapaci di vederla, di sentirla. Trovare normali questa luce, questa lingua canterina che ti coccola e ti scioglie il cuore. Terribile dev’essere, quest’anestesia dei sensi e della mente. Lamentarsi di qualcosa che è invidiato in ogni angolo del mondo. Era ubriaco fradicio, e capì di essersi perso.

Quando finalmente arrivò al portone, non si reggeva in piedi. Armeggiò a lungo con le chiavi ma alla fine rinunciò e suonò il citofono a caso. Al terzo piano, spinse la porta ed entrò, chiedendosi confusamente come avesse fatto a dimenticarla aperta. Andò dritto nella stanza, si tuffò sul letto e si addormentò all’istante. Erano passate ore, o forse pochi secondi, quando il contatto sulla spalla lo svegliò di soprassalto. Era uno scorpione che gli saliva addosso, ma questo solo in sogno. Nella realtà, c’era una persona seduta accanto a lui. Cacciò un urlo.

***

Chi sei? gridò quando lo shock le permise di parlare. Vattene o chiamo la polizia! Vattene da casa mia! Chi cazzo sei? Che cos’hai fatto a Francesca? Mentre ripeteva queste cose con voce stridula, scuotendo in aria la ciabatta che aveva raccolto da terra, l’odore dell’alcol arrivò alle sue narici e lei cominciò a inquadrare la situazione. In modo vago, dapprima, poi sempre più inequivocabile. Hai sbagliato porta? Chi cazzo sei? Parla, hai sbagliato porta?

L’uomo era penoso nella sua confusione. Si guardò intorno con occhi spaventati, sollevando le mani all’altezza della faccia quasi a proteggersi dalle sue urla. Si guardò intorno a lungo, senza capire, come emergendo da profondità abissali.

Hai sbagliato porta? Parla!

Lui alla fine bofonchiò: Non è il terzo piano, questo?

Non è il terzo piano no! Sei ubriaco e mi hai spaventata a morte!

Scusa, I’m sorry, molta scusa, ripeteva quello con le mani in segno di difesa, l’espressione mortificata e un accento ridicolo del nord Europa. Ti chiedo molta scusa. Sono Niels, piacere.

Piacere un cazzo! Tu adesso te ne vai da casa mia. Lo spinse fuori. Quando lo vide alla luce del soggiorno, finalmente in piedi e con gli occhi aperti, notò che era un ragazzo, avrà avuto 27 anni, trenta al massimo. Sembrava un gigante, con quelle spalle grandi che la camicia bianca stropicciata conteneva appena e le manone che cercava di infilare nelle tasche troppo strette dei jeans. Sembrava timido, anche, ma forse era la sbronza a dargli un aspetto più indifeso, più infantile. I capelli mal tagliati e un  non so che di scombinato nei lineamenti lo rendevano un po’ anomalo: attraente, avrebbe detto la sua coinquilina, che aveva una predilezione per quei nordici sbiaditi totalmente privi di personalità.

Voglio tanto che mi perdoni, balbettò l’intruso pronunciando la gl in modo raccapricciante.

Perdonato! Va bene così? Adesso vai, fa’ il favore.

Il ragazzo la guardava con un sorriso disarmante. Non accennava a muoversi, indugiando per via dell’alcol, o per un assurdo tentativo di sedurla.

Che peccato che si raffredda, disse indicando la pasta nei piatti. È in ritardo?

Lei sgranò gli occhi.

Ma come ti permetti? esplose. La mia amica sta per arrivare. Ma guarda questo! Venite qui e pensate di poter dire tutto quello che vi passa per la testa!

Lui la guardò senza capire. Venite…? chiese. Chi, venite?

Voi! Venite, voi! Quelli che ci cacciano da questo quartiere!

La rabbia che era andata montando tutto il giorno adesso le bruciava sotto pelle. Sentiva il corpo teso, elettrico, sul punto di infiammarsi.

Si riempì il bicchiere di vino ed estrasse di tasca il cellulare. C’era un messaggio della sua amica. Diceva: Non sai chi ho incontrato! Nicola. Mi ha offerto una birra gli ho detto di sì sennò quando mi ricapita per favore non mi odiare torno presto…

Buttò il telefono sul divano e vuotò il bicchiere d’un fiato. Incredibile, pensò. Più che incredibile, impossibile! Disoccupata per l’ennesima volta, il mio ex che mi martella, organizzo una cena d’addio a questa casa che non vorrei mai lasciare, Fra mi abbandona per uno stronzo e io qui da sola di sabato sera con un turista biondo ubriaco.

Siediti! Gli ordinò. Ceniamo!

Nel dirlo, gli riempì il bicchiere di vino fino all’orlo, si sedette e attaccò il suo piatto di spaghetti.

Lui non se lo fece ripetere due volte e prese posto a tavola con un sorriso di felicità assoluta.

***

Mentre la ragazza masticava con lo sguardo puntato dentro il piatto, Niels poté osservarla indisturbato. Era decisa, incazzatissima, adorabile. Anche nella bruma che annebbiava la sua mente ne notò la pelle liscia, tempestata di piccole lentiggini, e le ciglia tanto lunghe da farle ombra sulle guance. I capelli bruni erano annodati in una treccia portentosa, e ciuffi ribelli le spiovevano sul volto.

Sono buonissimi, disse rischiando di strozzarsi con una matassa gigantesca che non sapeva come addentare. Sei una brava cuoca!

Erano tre mesi che non cucinavo, lo fulminò lei senza smettere di masticare. Ancora vino? Da’ qua il bicchiere. Cincin.

Con chi ce l’aveva? Perché era così arrabbiata? Aveva sempre avuto un debole per le ragazze energiche. Aveva un debole per le italiane in generale − un luogo comune, lo sapeva, − ma le italiane con carattere gli facevano perdere la testa. Non dire niente, Niels, non rovinare tutto, si ripromise. Poco dopo tuttavia si sentì dire: Lasciamo un po’ per la tua amica?

Ne lasciamo, urlò lei in tutta risposta. Si dice Ne lasciamo!

È vero. Parlo come un bambino piccolino. Mi scusa.

Fu a quel punto che successe, finalmente. La ragazza scoppiò a ridere, così violentemente che lui pensò che si sentisse male. Poi capì che era il suo modo, era italiana anche nel riso, e si mise a ridere anche lui. Un danese piccolino, ripeté, e lei rise ancora più forte.

Dio santo, ma da dove sei uscito? commentò la ragazza asciugandosi le lacrime. Io non li sopporto quelli come te. Non li ho mai potuti sopportare. Senza offesa, eh.

Vedendo che non reagiva lo incalzò: Lo capisci, quello che ti dico?

Sì. Non capisco “quelli come te”.

Guarda che lo so che fai il finto tonto, disse lei con l’espressione a metà strada tra l’ostile e l’incuriosito. Non sono scema. Quelli come te sono quelli come te.

Niels non colse “Finto tonto” ma capì il significato generale, e pensò che non poteva darle torto. Anche lui i turisti, sotto sotto, li aveva sempre disprezzati. La fissò. Era magnifica e tremenda come una divinità romana. In un attimo di abbacinante lucidità, o forse al culmine della sua sbornia, desiderò essere visto da quella sconosciuta. Desiderò che lei vedesse il disperato, l’orfano, il ribelle. Che vedesse l’infinito smarrimento, l’insoddisfazione, la curiosità famelica che l’avevano portato fino a lì. Che vedesse la precarietà, il suo sempre inappagato bisogno di calore. Fu un istante. Quando aprì la bocca per parlare, disse solo: Il mio nome Niels. Il tuo?

Non c’era incontro possibile. Per questo si stupì, alzando lo sguardo, quando vide lei in piedi accanto alla sua sedia, mentre si asciugava le labbra con un tovagliolo e con lo sguardo malizioso gli diceva, chinandosi: Sono Emilia, piacere.

***

Non se l’aspettava che lo baciasse. Non se l’aspettava proprio. Restò impalato tre o quattro secondi, mentre lei cercava di farsi largo con la lingua. Nonostante l’alcol, il sapore della bocca non era cattivo. Credevi che mi avresti rimorchiata? pensava Emilia piena di livore. Arrivate e vi prendete tutto, giusto? Avete pagato! La vostra stanza, il vostro appartamento, il vostro cocktail. Oggi sono io a prendermi qualcosa. Sono io a usarti, e a buttarti via. Dai, apri la bocca. Alzati, su, fammi sentire questo corpo. Questa camicia di cotone fino, questo profumo di lavanda. Starai pensando di aver vinto, e invece ad aver vinto sono io.

Emilia lo spogliò sbrigativamente, muovendolo come un fantoccio. Lo baciava con violenza, ansimando. Senza ritegno lo palpava dappertutto, sentendosi sempre più forte, e sempre più eccitata.

Quando lo buttò sul letto e gli si fece sopra sollevandosi la gonna, lui cercò di toglierle i vestititi invano. Annaspò nell’aria, gemeva come un cane, ma lei respinse bruscamente le sue mani. Non gli permise di toccarla, né di muoversi, né tantomeno di guardare. Con una mano gli coprì gli occhi e con l’altra si mise dentro quel suo membro enorme, per poi iniziare a muoversi come un’ossessa.

Si dimenava avanti e indietro, avanti e indietro, come se lui non fosse stato lì. Sentiva quell’oggetto fra le gambe, rigido e caldo e sul punto di scoppiare, e lo scuoteva come un dildo, come una cosa inerte. Entrò in trance strusciandosi velocemente per un tempo indefinito, e quando smise di sentire si abbandonò allo spasmo e al formicolio alle gambe, urlò e si rovesciò di lato, sfilandosi da lui.

Lui continuava eretto, frastornato. Tese una mano per riprenderla, cercò di sollevarsi per baciarla, ma lei si era già alzata e lo guardava con freddezza. Adesso vattene, disse.

Lui scoppiò a ridere, pensava a uno scherzo. Come here, le ripeteva. Ma lei si mise a urlare: Ti ho detto di andartene!! Poi tornò in soggiorno e lì aspettò che si rivestisse.

***

Sulla porta, Niels allungò una mano verso il mento di Emilia. La ragazza si ritrasse. Aveva il viso arrossato per l’orgasmo e negli occhi un’espressione di sdegnosa compostezza. La treccia appariva ormai completamente sfatta e un leggero velo di sudore le brillava sulla fronte. La trovò straordinaria. Tentennando chiese: Ci vediamo ancora? Lei abbassò lo sguardo e a lui sembrò che sorridesse. Invece di rispondere, però, lei lo sospinse dolcemente fuori.

Niels sollevò le mani in segno di resa, e si ritrovò di fronte alla porta chiusa. Quando alzò gli occhi, lesse la scritta “quarto piano”.

Scese le scale lentamente, sentendo che gli girava tutto. Nel suo appartamento, si fumò una sigaretta affacciato alla finestra. Le tegole splendevano alla luce della luna e pensò che Roma non gli era mai sembrata così bella, così intima, e segreta. Un posto intriso di autenticità in cui potevano accadere anche cose come quella. Pensò a quella ragazza misteriosa, che di certo aveva le sue ragioni per fare quel che aveva fatto − un fidanzato geloso, un pentimento, la paura di perdere il controllo… − e si sentì un privilegiato per aver avuto accesso a un’esperienza come quella. Crazy Italy, si disse ridacchiando tra sé e sé. Poi si distese sopra le lenzuola e provò a recuperare la sua eccitazione. Non ci riuscì. Scivolò nel sonno poco a poco e in viso gli rimase quel sorriso estatico, infantile, di appagamento pressoché totale.

 

 

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