Tregua. Un racconto di Luca Tosi

di Luca Tosi

Poco era rimasto di quella serata al momento dei saluti, senonché per caso avevo sentito quel che si erano dette Eva e la Bibi, mentre salutavo gli altri trasudando l’impazienza di andar via. Le parole erano state queste, circa, «portalo un’altra volta, è timidissimo, ma carino», colte fra le voci ma mi ero perso la risposta di Eva. Aveva un’espressione molto seria. Chissà se si fossero intese e cosa c’era sotto. Non ho mai sopportato chi mi dà del timido solo perché non sciupo parole nella noia dei discorsi. A dirmelo erano sempre, per di più, i vecchi, o gente di un’età più alta rispetto alla mia: la Bibi lo era. Sguardi, sorrisi e strette di mano rimbombavano in quel salottino. Poi mi ero avvicinato a Eva, uscendo dalla porta per primi, mentre dentro continuavano, finché un paio di loro avevano sceso le scale con noi. In strada l’aria mi aveva tolto da quella pena e subito avevo slegato la bicicletta nonostante negli occhi di Eva ci fosse della pressione, come se volesse rimproverarmi qualcosa, forse proprio la timidezza; non ne volevo sentire. Era immobile a fumare e quando i fari di una macchina lì parcheggiata si erano accesi, era stata colpita dalla luce e appariva così pallida, come se non avesse neanche una proteina in corpo.
«Sei piaciuto, alla Bibi».
«A me non è piaciuto quasi niente».
«Sentiamo».
«Troppe chiacchiere».
«Era una serata fra amici».
«Non mi avevi detto che ci sarebbero state quattro coppie di maschi gay».
«Doveva essere una sorpresa. Cioè, uno scherzetto».
«Queste si chiamano trappole».
«Hai passato due ore in compagnia. Se non volevi restare, niente ti vietava di alzarti e telare. E non era una trappola perché da quelle non si scappa. Tu potevi».
«All’inizio non era male, ma dopo sono scaduti. Mi sono annoiato».
«Mi stai dando la colpa di questo?»
«L’idea di portarmici è stata tua».
«Cosa ci devo fare se non sai stare con la gente? Chiunque si sarebbe divertito».
«Io non sono chiunque».
«Hai capito cosa intendo, smettila».
Come indispettita, Eva si era accovacciata e aveva stretto le braccia attorno alle ginocchia, per poi nascondere la testa sotto. Era una posizione che avevo visto in tv, la usavano i piloti della MotoGP prima delle gare nel scaricare la tensione. Ma Eva sembrava più una bambina in castigo, oppure il rintanarsi di un animale che sfugge al freddo o vuole il letargo. Subito dopo aveva alzato la testa, e le sue guance senza trucco erano bagnate di lacrime. Dalla macchina accesa avrebbero potuto vederla e pensar male, o chissà che altro; i fari ancora la illuminavano e la sua faccia, per via del pianto sembrava grinzata. Nessuno era sceso dalla macchina.
«Non va mai bene quello che faccio» aveva detto.
«Ma posso essermi annoiato o no? Mica mi hai mutilato. Era noia. Semplice».
«Ti ho sbandierato per fare la bulla, pensi questo».
«Lascia stare. Avrei preferito una serata di noi due da soli».
«Sono una merda».
«Sei un po’ stronza e per nasconderlo fai la testuggine».
«Testuggine inteso come testa di cazzo?»
«Anche» avevo detto, pensando che potesse riderne.
Invece si era alzata e soffiava, come liberandosi dal pianto attraverso respiri profondi. Coi polsini del giacchetto si era asciugata la faccia, e a sopracciglia alte tirava su col naso. Avevo pensato che un giorno lontano questa scena sarebbe diventata ricordo, magari nostalgia. E subito dopo avevo pensato a cosa sarebbe avvenuto, fra molto tempo nel futuro; avremmo continuato a conoscerci anche dopo cinque, dieci, quindici anni? I rapporti importanti sono fatti di tale durata. Chissà. Comunque, nell’impulso di avvicinarmi a lei un po’ sarcasticamente, e perché le volevo bene, l’avevo presa sotto braccio e mettendo giù il primo passo insieme, Eva mi aveva guardato con dolcezza; era insensato camminare così, giocavo d’istinto, e lì mi era sembrato funzionasse.
«Dove la porto, madame?»
«A fare in culo».
«Ci spariamo un tour del quartiere».
«No. Ho un’altra idea».
Di scatto Eva si era liberata, come scansando una colpa segreta, aveva preso la mia bici e ci era salita spingendo con un piede il pedale destro nello slancio. Col suo ghigno era già in strada, e pedalando lenta si era voltata come aspettandosi una reazione da me. Ero rimasto dov’ero nella sfrontatezza di apparire solido.
«Dove vai, bruttona in bicicletta?»
«A casa. È stato bello. Addio».
Nel suo tono c’era una dizione asettica, mentre sotto c’era un abisso di sentimento che non sapevamo tirar fuori; forse è per questo che ci uscivano azioni sempre zoppe.
«Mi dai un passaggio?» le avevo chiesto per stare al gioco.
«Certamente, no».
Allora mi ero messo a seguirla. Eva pedalava lentissima sulla strada, voltandosi faceva curve su sé stessa e mi teneva d’occhio. Girava in tondo col sorriso giocoso e cattivo di una iena che nella notte sarebbe capace di qualsiasi cosa. La seguivo fra le ombre dei lampioni a bordo strada.
«Posso salire? Sto io sul cannone».
«Uhm», nella sua voce c’erano forse dubbi, perciò parlava lentamente?
«Mi lasceresti alla guida della tua bici?»
La domanda aveva il timbro vuoto di chi non sa cos’altro dire ma vuole che il gioco continui. Eravamo distanti sette o otto metri, quando Eva aveva detto:
«Sali», fermandosi.
Ero andato verso di lei, ma poco prima che la raggiungessi aveva preso a pedalare via. Senza però smettere, stavolta, e i metri che ci separavano erano aumentati, ed Eva non si voltava.
«Eva!»
La guardavo allontanarsi. Avrei potuto correre ma nel grido che avevo lanciato era morta la mia forza, e allibito e anche deluso continuavo a seguirla, senza fretta nelle gambe però nello sguardo sì, come se puntarla con le pupille sarebbe valso a farle fare dietro front.
Non sapevo dov’ero, solo che avrei dovuto macinare parecchia strada a piedi. Camminavo adesso senza averla più a tiro, eppure speravo ancora di vederla tornare, a sorpresa da dietro o da una via laterale. Invece centinaia di metri si erano succedute, e sulla cima del cavalcavia osservavo giù i binari e mi ero sentito tradito, e con l’indole di un evaso prendevo la leggera discesa. Bisognava che andassi a casa di Eva, a costo di scassarle il campanello tutta la notte e riprendermi la bici.
Una risata mi era uscita, e contrariandomi subito avevo poi sepolto il pensiero di lei. Camminavo sciolto come se una musica soft accompagnasse i miei passi, invece erano i rumori della notte che ora suonavano meglio, mi pareva.
Nel scendere dal cavalcavia avevo trovato in coscienza un’identità, come se potessi riconoscermi tra la folla. C’era una sagoma dentro di me, credo quella del bambino che sono stato, e poteva contenermi in una miniatura: era un uccellino viola in una gabbia molto stretta nel mio petto. Fuori, questo era tradotto nel darmi un’andatura, ma non quella di un bambino, non ero rimpicciolito, nel mio corpo di trentenne la mia mente poteva rivivere l’acerbo, però conservando sia nei pensieri che nei movimenti un cucciolo d’uomo, come portando nel marsupio il figlio piccolo di me stesso.
Lì sul cavalcavia di San Donato, pretendendo mentalmente la mia bici mi ero riscoperto. Per associazione avevo pensato ancora Eva, se in lei vivesse una reciprocità col mio uccellino viola, e anche se offuscato intravedevo qualcosina; avevo l’idea che Eva fosse più aderente alla sua coscienza infantile, per via dei suoi mancati sacrifici per lavorare o altro.
Nell’invidiarla un po’ ero lo stesso orgoglioso di chi che ero stato, adesso vedevo bene dove mi trovavo e tutto, nel mio passato, aveva preso una linea, quindi ordinato il passato procedevo sicuro e dritto nei passi.
Era stato a un semaforo rosso che, per l’attesa, avevo deciso di non andare da Eva per la bici e magari dormire assieme. Il verde era venuto riflettendosi in scaglie sulle parti bianche delle strisce pedonali. Avevo preso la strada di casa mia, la scelta migliore.
Contento, forse illuso di un’autonomia, come se l’involucro di calcoli mentali che mi aveva avvolto prima fosse caduto, potevo andare libero. Per non permettere a niente di sgambettarmi avevo spento il cellulare, e anche dopo quaranta minuti di camminata avrei potuto continuare, la notte era già alta ma avevo il sentimento scottante di voler sondare la città.
Faceva freddo ma non su di me, senza premura attraversavo strade e vedevo le cose come se fosse la mia prima volta, con stupore, e quasi che Bologna fosse stata tolta dal mondo e impiantata sulla luna, dietro i palazzi si dipingeva un buio più nero, e immaginavo che qualche edificio potesse nascondere alla mia vista il pianeta Terra molto vicino. Tenendo a mente questa immagine, il mio sguardo era impazzito, sotto mio ordine, e sentivo nelle braccia la lunghezza di poter fare qualsiasi cosa. In parte quell’energia era dovuta al cellulare spento? Direi di sì.
Ma rincasando ero tornato irrequietissimo, soltanto nel girare la chiave del portone; fortuna aveva voluto che Sara, la mia coinquilina, era sveglia e in salotto avevamo chiacchierato del suo mal di gola e di come si sentisse la pelle rovente di febbre. Forse, pensavo, quella specifica notte irradiava chiunque, non solo me.
Accasciato sul divano le avevo tenuto compagnia mentre sorseggiava un bicchier d’acqua con sciolto un integratore di vitamine contro l’influenza. Il corpo di Sara in pigiama mi lasciava un appetito leggero che cancellava Eva, questo è il piacere dell’aver ragazze per casa. Poi la voce di Sara, accartocciata, si era fatta ancor più rauca nell’annunciarmi che sarebbe andata a dormire, aveva finito di bere. Così mi ci ero accodato per togliermi dal rischio di addormentarmi vestito sul divano, e via i vestiti, lavati i denti, a letto, ero caduto in un sonno buono e profondo come certe sfumature materne dell’infanzia.

Durante la notte mi ero svegliato a più riprese ma mai del tutto, a causa di un lamento che veniva da fuori la finestra e che, nel sonno, avevo distinto chiedesse aiuto. Pensando che non fossi l’unico a udirla, confuso che potesse essere un sogno, a ogni tornata mi rimettevo di volontà a dormire. Avanti così era venuto mattino, e quella voce maschile chiamava ancora. Con la luce del giorno il mio udito si era schiarito, e da sveglio avevo riconosciuto cosa diceva.
«Chiamate i pompieri. Aiuto. La gamba. Aiuto. La mia gamba».
Poi ripeteva le stesse parole, dopo alcuni minuti, ma con un diverso ordine. Finché qualcuno del palazzo aveva risposto e tempo mezz’ora, in cui ero rimasto a letto perché era presto per me, erano arrivate le sirene di un’ambulanza.
Qui mi ero alzato e Sara e Alessandra, anche loro curiose di sapere, si erano informate coi dirimpettai: ai piani superiori abitava quest’uomo un po’ matto, a quanto si diceva era caduto dal letto nella notte e non riusciva a rialzarsi, sosteneva di essersi rotto una gamba. Invece i ragazzi dell’ambulanza avevano appurato stesse benissimo e se n’erano andati.

La percezione della mia vita era cambiata da quando conoscevo Eva; meno nelle redini della paura, non più imbottigliata dentro la routine, seppure quotidiane oscillazioni ci fossero sempre, ma riguardavano più che altro le mie finanze.
A sprazzi mi accusavo di comportarmi da inetto, per reazione promettevo che avrei fatto di tutto, oltre ogni fatica dovevo trovare lavoro e rimettermi in pista, solo che poi vampate del genere mi turbavano, portandomi fuori e non concludevo niente. L’unica uscita da quei problemi, lo capivo quel mattino, era scontare l’apnea dell’ansia: lasciare che esistesse in me e che affogasse certe ore delle mie giornate, per poi battere in fuga su Eva e ritrovarmi unito.
Eva era la mia ambulanza, per un male che non era vero, ma che mi causava fitte momentanee facendomi credere spacciato. Poi lei mi ripescava dall’acqua, sano e salvo, nella tregua del trascorrere momenti insieme dove non c’era da preoccuparsi di niente, solo darci e rubarci a vicenda.

(Foto)

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